Stampa questa pagina
  • Sabato, 30 Agosto 2014

Informazioni aggiuntive

  • Resoconto teleriunione  26 agosto 2014

Elettroencefalogramma (quasi) piatto

La teleconferenza di martedì, connessi dieci compagni, è iniziata con l'elenco di alcune notizie recenti che forniscono un quadro dello scenario politico-economico mondiale a dir poco disastroso:
-sette anni di crisi: miseria crescente e crollo dei consumi in Italia e altrove (allarme deflazione);
-Germania: aumento dei disoccupati e calo di fiducia delle imprese nell'economia;
-Francia: dichiarazioni anti-austerity del ministro dell'Economia e conseguente rimpasto di governo, instabilità politica che tocca il cuore dell'Europa;
-Draghi: ipotizza l'avvio di un piano di acquisto di titoli di Stato dell'Eurozona da parte della Bce;
-Usa: possibile alleanza con Assad per ostacolare l'avanzata degli jihadisti in Siria e Iraq;
-Libia: il paese ormai è diviso con due presidenti e due governi, mentre Egitto ed Emirati Arabi Uniti bombardano gli islamisti;
-Ucraina: carri armati russi entrano nel sud-est del paese;
-Papa: annuncia l'inizio della terza guerra mondiale.

La crisi in atto, ormai diventata cronica, mostra tutti i limiti del modo di produzione capitalistico; che è innegabilmente tenace, ma allo stesso tempo malato, senile e drogato. Gli economisti non riescono nemmeno a trovare un linguaggio adatto per spiegare la situazione: se crisi non va più bene perché il termine prevede una ripresa, anche la forma "grande depressione" non può funzionare, perchè essa si è già verificata negli anni Trenta e non può quindi ripetersi. In realtà ci troviamo di fronte a rapporti capitalistici non più funzionanti.

Basti pensare alle notizie economiche che arrivano dai paesi europei: adesso anche i giornalisti si accorgono che pure la Germania è in crisi. A detta di tutti il paese più forte d'Europa, la locomotiva produttiva capace di tenere insieme l'Unione, la Germania in realtà ha una produttività più bassa dell'Italia dato il rapporto tra la popolazione attiva e il saggio di sfruttamento pro-capite. Anche se a borghesia e sindacati tedeschi va riconosciuto il merito di esser stati i primi ad abbassare artificialmente la produttività, per mantenere alta la quota di forza lavoro occupata - manovra efficace perché si è rivelata causa antagonistica alla caduta del saggio di profitto -, ora anche il capitalismo tedesco ha smesso di crescere e arranca.

Tutto quello che sta succedendo in Europa, e negli Usa, è la dimostrazione che il sistema non riesce più a governarsi e a rispondere con progetti adeguati alla crisi di valorizzazione. Si ha come l'impressione che il capitalismo si stia spegnendo: gli stati collassano, il numero dei profughi aumenta, le guerre dilagano e diventano endemiche. E non è ancora stata superata la soglia critica nelle metropoli globali: se saltassero i nodi logistici che le fanno funzionare, nessuno potrebbe contenere il caos sociale.

Anche le alleanze interimperialistiche risultano sempre più evanescenti. Assad, fino a qualche mese fa demonizzato dagli Stati Uniti, potrebbe ora diventarne un utile alleato contro l'avanzata dello Stato Islamico (IS), che ormai occupa il 35% del territorio della Siria e diversi pozzi petroliferi in Iraq. Il progetto del grande Califfato nasce come risposta oggettiva all'esoterismo di Al Qaida, un'organizzazione chiusa che compie attentati e sfrutta legami deboli nel mondo. L'IS funziona in modo diverso: ha superato la logica settaria dei terroristi puri e ha messo in campo un esercito vero, utilizza il terrore in modo consapevole e programmato, conquista territori, spazza via la "corruzione" e acquisisce consenso tra le popolazioni. Inoltre è difficile immaginare che i peshmerga possano arginare l'ondata islamista, nonostante il tifo dei governanti e dei sinistri nostrani per i resistenti curdi. Qatar, Kuwait e Arabia Saudita, che secondo alcuni sarebbero i finanziatori del Califfato, contano in realtà abbastanza poco perché il movimento si è autonomizzato dai suoi "sponsorizzatori" e sta crescendo. Paesi islamici come la Nigeria, il Bangladesh, il Pakistan, l'Indonesia e tutta la parte occidentale dell'India, sono terreno di reclutamento per l'IS.

Saltano gli equilibri globali e saltano anche i confini nazionali: i russi entrano in Ucraina, gli egiziani intervengono in Libia contro gli islamici e gli Usa bombardano in Iraq.

A proposito di confini nazionali e fronte interno, a Ferguson, nel Missouri, sono state numerose e potenti le rivolte scatenate dall'uccisione da parte della polizia del diciottenne nero Michael Brown. Negli Usa evidentemente si sta esaurendo la fase Occupy/Indignados e dalle sue ceneri sta emergendo qualcosa di più radicale. Tutte le lamentele dei sinistri sulla mancanza di diritti, la difesa del welfare e della scuola pubblica, stanno lasciando spazio alla consapevolezza che indietro non si può tornare e di qui in avanti solo i rapporti di forza saranno decisivi nella difesa delle condizioni di vita.

In chiusura di teleconferenza si è accennato a The square - Inside the revolution, un interessante documentario apparso su Rai Tre, "che ci mostra potenzialità e limiti di una rivolta sociale di massa, la necessità di una forte organizzazione politica, le insidie sempre in agguato quando si prova a mettere in discussione lo stato di cose presente". Nel lungometraggio si vedono le manifestazioni di massa che precedono la caduta di Mubarak, l'avvento dei militari, le elezioni e la vittoria dei Fratelli Musulmani, le manifestazioni anti-Morsi, la caduta dei Fratelli e infine il ritorno alla dittatura dei militari. Le immagini sono accompagnate dal racconto di una generazione di egiziani che ha deciso di farla finita con il vecchio stile di vita, rivendicando giustizia, pane e libertà. Ogni governo che succede a quello caduto reclama per sé la rivoluzione, i martiri e le parole d'ordine della piazza, ma puntualmente ne tradisce i propositi scatenando le proteste.

Pensando all'Egitto di questi ultimi anni viene in mente quanto scriveva Marx ne Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850:

"Chi soccombette in queste disfatte non fu la rivoluzione. Furono i fronzoli tradizionali prerivoluzionari, risultato di rapporti sociali che non si erano ancora acuiti sino a diventare violenti contrasti di classe, persone, illusioni, idee, progetti, di cui il partito rivoluzionario non si era liberato prima della rivoluzione di febbraio e da cui poteva liberarlo non la vittoria di febbraio ma solamente una serie di sconfitte. In una parola: il progresso rivoluzionario non si fece strada con le sue tragicomiche conquiste immediate, ma, al contrario, facendo sorgere una controrivoluzione serrata, potente, facendo sorgere un avversario, combattendo il quale soltanto il partito dell'insurrezione raggiunse la maturità di un vero partito rivoluzionario."

Articoli correlati (da tag)

  • Imperialismo europeo?

    La teleriunione di martedì sera è iniziata dalla notizia riguardante la cosiddetta questione curda.

    Abdullah Öcalan, storico leader della guerriglia curda, imprigionato nelle carceri turche dal 1999, ha chiesto al PKK l'abbandono della lotta armata. Proprio in questi giorni gli USA hanno annunciato il loro ritiro dalla Siria, dove è presente un contingente americano di circa 2mila soldati impegnati contro l'ISIS e a sostegno delle SDF (Siryan Democratic Force). La mossa di Öcalan è un segno dei tempi, è il portato di un repentino cambiamento degli equilibri mondiali, ma resta da vedere la capacità delle forze curde, divise geograficamente e politicamente, di darsi un indirizzo, se non unitario, almeno non confliggente.

    Il subbuglio sociale negli Stati Uniti ha conseguenze sul resto del mondo. L'annuncio di nuovi dazi doganali da parte dell'amministrazione Trump e, più in generale, il ritorno del protezionismo si scontrano con un mondo che, invece, avrebbe bisogno di un governo unico mondiale per gestire l'attuale sviluppo delle forze produttive. Il rischio è che collassi tutto, e che l'utilizzo dell'arma dei dazi inneschi situazioni incontrollabili: gli ingredienti ci sono tutti, il mercato è piccolo, gli attori sono troppi e ad azione segue reazione. La Cina ha infatti annunciato aumenti del 10-15% dei dazi su diversi prodotti agricoli e alimentari americani.

    Chi riesce a navigare nel mare in tempesta sopravvive, gli altri periscono o diventano politicamente irrilevanti. La Turchia, per esempio, aspira ad essere una potenza non solo regionale ma globale, e tale intento passa anche per la risoluzione dell'annosa "questione curda".

  • Quale futuro per il capitalismo?

    Durante la teleriunione di martedì sera abbiamo ripreso l'articolo "Il grande collasso", pubblicato sulla rivista n. 41 (2017), utilizzandolo come chiave di lettura per inquadrare quanto accade nello scenario mondiale.

    Il fenomeno della disgregazione degli Stati si manifesta in diversi forme: dai casi più evidenti di collasso delle amministrazioni politiche (Libia, Siria, Somalia, Sudan, Haiti, ecc.) fino a quelli meno visibili di disfunzione dei servizi pubblici. In un breve video presente su YouTube, intitolato "Il problema dell'Italia è lo Stato che non funziona", Lucio Caracciolo, direttore di Limes, afferma che il problema è l'incapacità non tanto del governo-guidatore, quanto dello Stato-macchina.

    Nel secondo dopoguerra, in Italia, lo stato ha realizzato piani di edilizia popolare, ampiamente criticati dalla Sinistra. La corrente a cui facciamo riferimento ha scritto numerosi articoli sulla questione abitativa; tra questi, "Il problema edilizio in Italia" (1950) analizza come la Democrazia Cristiana di Fanfani, in combutta con socialisti e "comunisti", abbia continuato, in versione democratica, la politica d'intervento nell'economia nazionale iniziata con il fascismo. Il capitalismo costruiva alloggi popolari, ma anche grandi impianti industriali, per dare lavoro a masse di operai che affluivano dal sud Italia. Era l'epoca dell'occupazione di massa, a tutti era garantita una vita di sfruttamento. Ora, quel modello non funziona più e gli stati devono fare i conti con la crescita della miseria e della disoccupazione. Le metropoli globali sono bombe ad orologeria: alcune sono abitate da 15 o 20 milioni di persone e, senza un adeguato rifornimento di cibo ed energia, rischiano il collasso.

  • Alla ricerca di un nuovo ordine

    La teleriunione di martedì sera ha preso le mosse dalle recenti dichiarazioni dei massimi esponenti del governo americano sul dialogo con la Russia riguardo al conflitto in Ucraina.

    Gli USA mirano a indebolire i legami tra Russia e Cina, evitando al contempo la saldatura economica tra Berlino e Pechino. Appena insediatosi alla Casa Bianca, Donald Trump ha annunciato negoziati immediati e diretti con Vladimir Putin. Dal palco della Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera, il vicepresidente statunitense J.D. Vance ha rivolto dure critiche ai paesi europei, esprimendo il suo sostegno alle forze di estrema destra come l'AFD tedesca. Il giorno sucessivo, l'inviato speciale USA per l'Ucraina, Keith Kellogg, ha dichiarato che gli europei non saranno inclusi nei prossimi colloqui di pace.

    In particolare, nel suo intervento a Monaco, il vicepresidente Vance ha preso posizione a proposito della "ritirata dell'Europa da alcuni dei suoi valori fondamentali, valori condivisi con gli Stati Uniti". Il problema arriverebbe, dunque, dall'interno del Vecchio Continente, sempre meno democratico e liberale. L'accordo tra Putin e Trump esclude esplicitamente l'Europa e favorisce il riavvicinamento tra USA e Russia a discapito dell'Ucraina. Le dichiarazioni di Trump e Vance hanno mandato nel panico le cancellerie europee: agli annunciati dazi americani si aggiunge ora la possibilità del venir meno della protezione militare USA. L'Europa è il classico vaso di coccio tra vasi di ferro, lo dimostra la crescente ingovernabilità in Germania dove è dato per certo l'exploit di AFD. Il vertice "informale" di Parigi tra i capi di governo di Germania, Regno Unito, Italia, Polonia, Spagna, Paesi Bassi, Danimarca e Francia ha sancito, ancora una volta, la disunità e l'impotenza europea.