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Quattro lettere sulla questione nazionale

[…] La questione principale è che con la maturità del capitalismo non scompaiono i problemi ereditati dalle vecchie società, ma essi possono essere risolti solo dalla rivoluzione proletaria che in certi casi si assume compiti non prettamente suoi. Questo è già risolto chiaramente in Lenin (Due tattiche). Ricordo che anni fa si dovette lottare contro la concezione "coloniale" dello Stato di Israele (definito nazione "piednoirEppure, ancora alla fine degli anni '70, al tempo delle discussioni sul "tipo" di rivoluzione in aree diversissime e arretrate, a proposito dell'America Latina si riuscì a troncare di netto con le teorie bastarde come la "rivoluzione agraria e anti-imperialista" e ad assimilare tutto il sub-continente americano alle aree di capitalismo sviluppato, indipendentemente dalla situazione miserabile di pur numerose masse contadine e urbane direttamente coinvolte nella soggezione all'imperialismo nordamericano. Poi quelli del "partito compatto e potente" se ne sono andati a catafascio trangugiando senza battere ciglio le note posizioni movimentiste e terzomondiste che sappiamo […].

[…] La sequenza storica per la "questione nazionale" comunque è agevole da individuare: 1) Marx ed Engels (irlandesi, polacchi e slavi, per sintetizzare); 2) Seconda Internazionale e polemica con le forze della futura Terza (Kautsky, Rosa Luxemburg e il Lenin dell'anti-Luxemburg e anti-Piatakov); 3) la Sinistra Comunista (Fattori di razza e nazione). Fin qui tutto corre liscio, ma è proprio in Fattori che si dimostra come la sequenza non possa essere interrotta né al '20 né al '50, e come la maturazione delle aree geostoriche comporti importanti e decisive conseguenze per gli anni che seguono. Tutti gli articoli scritti in quegli anni non fanno che confermare. Dicevo: "La questione principale è che con la maturità del capitalismo non scompaiono i problemi ereditati dalle vecchie società, ma essi possono essere risolti solo dalla rivoluzione proletaria che in certi casi si assume compiti non prettamente suoi". E aggiungevo che questo problema è già risolto chiaramente in Lenin (Duetattiche). La Sinistra ribadisce la posizione di Lenin, ma imposta il suo anti-indifferentismo sulla base di una dinamica storica giunta al culmine: negli anni '50 ci si avvicinava già alla fine del ciclo coloniale propriamente detto e il nazionalismo, quello che "infiammava i cuori dei nostri nonni" stava diventando, nell'epoca moderna, un'altra cosa. Che cosa? Precisamente un fenomeno indotto dagli scontri fra i massimi imperialismi sui vasi di coccio (piccoli stati, gruppi irredentisti, autonomisti vari) che si mettono in mezzo rimettendoci le penne (cfr. la diatriba irredentista italo-iugoslava in Il proletariato e Trieste).

[…] Oggi riciclare un concetto come "diritto di autodecisione" senza inserirlo in un contesto che rifiuti le implicazioni democratoidi in esso contenute è già una concessione al nemico. Ma questo è il meno. Il grave è che il riconoscimento di tale "diritto" diventa in genere addirittura "vitale" per le sorti della rivoluzione. Il linguaggio moralistico del tipo "cadere sotto il giogo dell'oppressione nazionale" che era scusabile al tempo della doppia rivoluzione russa, non è più roba nostra da un pezzo, ma quel che è peggio è che la questione nazionale è "vitale" per la rivoluzione borghese, non certo per la nostra. Noi sappiamo come risolvere la questione, è la borghesia che ha sempre dei problemi, dovendo parlare di libertà e nello stesso tempo negandola ad altre borghesie quando le fa comodo. […] C'è spesso una contraddizione con lo stesso Lenin: il "diritto" all'autodeterminazione era riconosciuto ai proletari perché tale problema era un bastone messo fra le ruote della loro lotta antiborghese, ma i comunisti non c'entravano per nulla. Invece coloro che oggi sostengono ancora a spada tratta gli argomenti specifici di una realtà geo-storica passata, credono di salvarsi l'anima concedendo al partito una propaganda verso i proletari (i proletari quindi, non i comunisti) affinché si dissocino da ogni lotta nazionale. Poche storie: se si ritiene che la questione nazionale sia ancora da porre come la poneva Lenin, si abbia il coraggio di andare fino in fondo senza tirar fuori tanti distinguo bizantini. Comunque né i comunisti, né i proletari, sarebbero chiamati, in occasione di "oppressione nazionale da parte di una potenza straniera", a difendere il diritto all'autodecisione. L'oppressione potrebbe solo essere di classe e, da Marx in poi, sappiamo che per i proletari la patria non esiste e da Lenin in poi sappiamo precisare che non esiste neppure quella "economica" […].

[…] La questione nazionale è vitale per la rivoluzione borghese, non certo per i comunisti. Ma per questi ultimi lo diventa in alcuni casi, a certe ben definite condizioni, e cioè se i proletari della nazionalità oppressa fossero purtroppo ancora irretiti dal nazionalismo, come nell'esempio dell'eventuale invasione della Polonia [articolo allegato]. Il diritto all'autodeterminazione lo riconosciamo ai proletari e non ai comunisti, e glie lo riconosciamo solo nel caso in cui il problema dell'autodecisione costituisca un intralcio alla loro lotta antiborghese. Noi non siamo agnostici […].

 

[…] Quando si incomincia con questi sillogismi la dialettica va a farsi benedire e si finisce in una logica da vicolo cieco. Non vorremmo dilungarci per non essere pedanti e soprattutto perché tutto è già scritto; ci preme solo ricordare che, negli articoli comparsi molti anni fa sul giornale del nostro ex partito, al tempo della rivolta di Berlino (1953) e di quella di Budapest (1956), proprio in occasioni tipiche di "caduta sotto il giogo dell'oppressore", si smentisce l'interpretazione secondo cui sarebbe lecita una reazione proletaria per di più organizzata e diretta dai comunisti. Negli scritti citati non si fa affatto menzione al "diritto di autodecisione dei popoli", piuttosto ci si rammarica che il proletariato, invece di combattere per i propri obiettivi di classe, prenda le armi per un generico anelito alla "libertà" e alla "democrazia". Come si vede all'epoca non prendevamo neppure in considerazione il combattimento contro l'oppressore, bensì ci mordevamo le nocche perché gli operai si facevano ammazzare per la libertà e la democrazia. E anche nel 1968 si cercherebbe invano qualche riferimento "nazionale" a proposito dell'atteggiamento proletario nei confronti dei panzer russi in Cecoslovacchia.

In tutti questi casi siamo in contesto di rivoluzione proletaria pura, altro che questione nazionale. Di fronte a simili episodi è ovvio che non siamo indifferenti, nonper via delle nazionalità in campo, bensì per via degli obiettivi sbagliati di un proletariato che dimostra una così meravigliosa capacità di combattimento contro forze immensamente superiori. Siamo a livello della Comune di Parigi (è Amadeo ad usare il termine "Comune di Berlino"), con barricate, organizzazione militare, cannonate ecc., non certo al livello del democratico referendum Svezia-Norvegia usato da Lenin contro Piatakov.

Del resto ragioniamo un momento su di un'affermazione molto pesante che la Sinistra ha avanzato e che non è certo una boutade qualunque: sarebbe stato meglio che la Seconda Guerra Mondiale fosse vinta dall'Asse piuttosto che dagli Americani. Qual era il senso di questa madornale provocazione? Questo: gli effetti sociali di un simile esito sarebbero stati più favorevoli alla rivoluzione proletaria, cosa su cui anche Hitler aveva certamente meditato a proposito della battaglia d'Inghilterra, e ciò spiegherebbe sia l'altrimenti inspiegabile "astensione militare" di Dunkerque, sia il "folle volo di Hess". Quindi persino un Hitler, di fronte alla prospettiva di mettere mezza Europa, Polonia e Inghilterra comprese, sotto "il giogo dell'oppressore" tedesco capisce bene che la "questione nazionale", in contesto di capitalismo puro, è del tutto ininfluente di fronte al pericolo di una rivoluzione.

In seguito, con la vittoria degli Alleati, le due metà d'Europa furono occupate da americani e russi, perciò la conclusione logica da trarre dall'articolo che alleghi è che si preferisce la "libertà" americana al "giogo" tedesco o russo. In questo caso proprio la Polonia, utilizzata come territorio di simulazione geopolitica nell'articolo, cambiò padrone e fu messa sotto il "giogo" dei russi. Che gli alleati occupassero la Germania, le riscrivessero la costituzione e le leggi, "lasciassero" morire di stenti un numero enorme di prigionieri e facessero dell'Europa intera una fonte di plusvalore per la valorizzazione dei loro capitali (disse la nostra corrente a proposito del Piano Marshall: "E' l'Europa che aiuta l'America!"), tutto ciò all'autore dell'articolo non sembra, giustamente, sollecitare una questione nazionale. Allora, perché dovrebbe essere diverso per altri paesi? La Polonia eventualmente occupata dai tedeschi e dai russi (come ha scritto) non può essere un caso da trattare in modo speciale a seconda se l'occupante è ricco o straccione. Forse si dimentica che Germania, Italia e Giappone sono stati paesi occupati militarmente da una potenza straniera per anni e anni (ma vi sono truppe alleate ancora oggi) e che a nessun comunista assennato è mai venuto in mente di riconoscere, contro questo stato di fatto che perdura, un qualche diritto all'autodecisione. […]

(Doppia direzione pubblicato sulla rivista n° 0 - maggio 2000)

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