Marx, schizzo dell’economia politica "classica"

Nel primo capitolo di "Per la critica dell’economia politica", Marx traccia un essenziale profilo storico dell’economia politica "classica", che qui riassumiamo con qualche commento, premessa una breve esemplificazione del concetto di merce in connessione con lavoro e denaro, la cui analisi apre il capitolo stesso.

La merce è nello stesso tempo valore d’uso e valore di scambio. Il valore d’uso è la qualità peculiare della materia di cui è composta, che la rende adatta a soddisfare un bisogno, nel senso più ampio del termine. Il valore di scambio è un rapporto quantitativo indifferenziato tra merce e merce, astraendo dalla loro qualità specifica. Ciò che misura tale rapporto è il tempo di lavoro incorporato in ciascuna merce. Quanto al tempo di lavoro, esso è la quantità di lavoro necessaria a fabbricare la merce.

Anche il lavoro, però, è cosa ben diversa, a seconda che si consideri come creatore di valore d’uso o creatore di valore di scambio.

Il lavoro che crea valore d’uso è l’attività dell’uomo conforme allo scopo, l’adattamento del materiale a una data forma utile ai suoi bisogni, ciò che Marx definisce "il ricambio organico tra l’uomo e la natura". Questo lavoro è anch’esso lavoro particolare, con caratteristiche sue proprie, a seconda del materiale che adopera e della mano di chi lo svolge.

Il lavoro che crea valore di scambio, invece, è lavoro "astrattamente generale". È dispendio di energie umane fisiche e mentali medio, astraendo da ogni particolarità del tipo di lavoro e della mano che lo svolge. Il suo minimo comun denominatore è il lavoro semplice (unskilled labour) che in una data società ogni individuo medio può essere addestrato a compiere. Solo riducendo così astrattamente il lavoro particolare, qualunque particolare lavoro, esso può venire quantificato in tempo e diventare metro di misura della merce. Ma c’è di più.

In una società dominata dal valore di scambio, solo questo lavoro può assumere anche carattere sociale. Infatti, in tali società, la distribuzione dei mezzi necessari per vivere, ciò che Marx chiama "il ricambio sociale", avviene nel processo di scambio, e dunque solo se ogni merce è rapportabile a ogni altra merce, in base a questa misura del tempo di lavoro "astratto".

Ma nel processo di scambio, entrando nel ciclo del consumo, la merce ridiventa anche valore d’uso, svelando la sua natura bifronte. Il possessore di merce, il cui valore d’uso per lui è che possa essere alienata nel processo di scambio, deve trovare il compratore per il quale essa è valore d’uso effettivo, oggetto che gli soddisfi un bisogno. A sua volta il compratore deve possedere qualcosa d’alienare, il cui valore d’uso sia per lui il valore di scambio, che sia invece valore d’uso effettivo, oggetto utile per il venditore. È da questa contraddizione che è nato, a un certo punto della generalizzazione dello scambio, il denaro.

Il denaro è appunto quella merce il cui valore d’uso, a parte quello che può avere la materia in sé di cui è fatto, è di rappresentare la generalizzazione del valore di scambio, di essere cioè metro di misura dello scambio di tutte le altre merci, l’"equivalente generale". Il denaro è perciò la materializzazione di quel lavoro astrattamente generale, che è alla base del valore delle merci, in cui ogni merce si rispecchia come lavoro indifferenziato in ogni altra merce, tanto da assumendo il suo carattere sociale, di cui s’è già detto, proprio attraverso la merce-denaro. Dunque, il denaro non è estrinseco, come alcuni economisti affermano, una sorta d’espediente tecnico per facilitare lo scambio, ma intrinseco, creato dal processo di scambio stesso a un certo punto della sua generalizzazione, man mano che il ricambio sociale, cioè la distribuzione dei valori d’uso, si riversa nel processo di scambio.

In quelle che Marx chiama le "comunità naturali", lo scambio avviene ai confini, tra una comunità e l’altra, e si scambiano solo le eccedenze, la produzione è mirata ai valori d’uso. Nella fattispecie, forme rozze di denaro possono diventare i beni più comunemente scambiati, come gli schiavi e il bestiame. Ma quando lo scambio penetra anche dentro le comunità, e anche solo una parte della produzione è mirata ai valori di scambio, diventando così determinante la misura del tempo di lavoro, non il bisogno che si ha degli oggetti prodotti, allora il denaro si sviluppa e affina fortemente, assumendo quelle caratteristiche indispensabili per la misurazione, che sono la divisibilità e la resistenza all’usura, che i metalli nobili possiedono così spiccatamente da confondersi con queste funzioni, quasi fossero naturaliter denaro. A tal punto che questa loro peculiarità non è stata senza conseguenze nella storia delle teorie economiche.

In conclusione, si può dire che il denaro assume forma tanto più simbolica e astratta, oggi questo processo è al culmine, quanto più si diffonde il lavoro che crea valore di scambio, le merci, la cui distribuzione diventa il ricambio sociale pressoché esclusivo delle comunità in cui domina tale lavoro. È su questa base che Marx traccia una breve storia dell’analisi della merce negli economisti che Marx stesso definisce "classici".

Nel breve e denso capitoletto storico sull’economia classica, Marx ne delinea attraverso il profilo dei suoi massimi autori il merito principale, che è stata l’analisi della merce come lavoro in duplice forma: come valore d’uso, cioè lavoro reale, attività conforme allo scopo; come valore di scambio, cioè tempo di lavoro, lavoro sociale uguale (indifferenziato). Sono circa centocinquanta anni di analisi stringenti che hanno inizio con Petty e Boisguillebert e che hanno termine con Ricardo e Sismondi.

Il Petty riduce immediatamente il valore d’uso a lavoro, senza illudersi sulla determinatezza naturale del suo vigore creativo. Sicché, anticipando Smith, concepisce il lavoro reale nella sua "figura complessiva sociale" come divisione del lavoro, di cui appunto ravvisa la speciale forza produttiva. Nelle sue ardite analisi economiche si serve unicamente di ciò che egli chiama l’"aritmetica politica", parlando "in terms of number, weight or measure", lasciando agli altri le cause dipendenti dalle "mutable minds, opinions, appetites and passions of particular men". Ciò, commenta Marx, è la prima forma in cui l’economia politica si distacca come scienza autonoma. E oggi "minds, opinions, appetites and passions of particular men" sono gli stupidi "idola" di questa borghesia "bacchettona"!

Quanto al valore di scambio, lo confonde nella sua forma materiale di denaro, e il denaro stesso nella sua forma di merce, come oro e argento. Siccé definisce il lavoro reale che produce oro e argento come lavoro creatore di valore di scambio. Ma al di là di questa incertezza concettuale, il Petty ha ben chiaro che il lavoro borghese non deve produrre un valore d'uso immediato, bensì merce, valore d'uso capace di esprimersi nel processo di scambio mediante l’alienazione come oro e argento, ossia, astraendo dalla sua forma materiale, come denaro, cioè valore di scambio, cioè lavoro generale oggettivato.

Ma questo riconoscimento del lavoro come fonte della ricchezza materiale, conclude Marx, Non esclude in Petty il disconoscimento della determinata forma sociale in cui il lavoro è fonte del valore di scambio. Cioè, che solo in determinate società, come quella borghese che si andava tumultuosamente sviluppando, il lavoro reale si trasforma in lavoro che crea valore di scambio. E del resto, quanti borghesi ancor oggi continuano a disconoscere questo "elementare" concetto?

Quanto al Boisguillebert, egli riduce effettivamente, anche se inconsapevolmente, il valore di scambio in tempo di lavoro, affermando che la "juste valeur" è determinata dall’esatta proporzione in cui il tempo di lavoro degli individui è ripartito nelle varie branche industriali, e che la libera concorrenza è il processo sociale che creerebbe questa esatta proporzione. Ma nello stesso tempo lotta fanaticamente contro il denaro, che turberebbe l’armonia degli scambi, e come un fantastico moloch vorrebbe il sacrificio della ricchezza, a differenza di Petty, che vede nella bramosia d’oro l’impulso allo sviluppo industriale e alla conquista dei mercati mondiali. Da una parte ciò è una reazione all’età storica di luigi XIV, la cui corte era avida di oro, che dissipava insensatamente; dall’altra, questa è un’antitesi di fondo tra le scuole economiche inglese e francese, che si ripeterà nella contrapposizione Ricardo/Sismondi.

È che il Boisguillebert ravvisa solo la ricchezza materiale, il valore d’uso, il godimento degli oggetti, e dove si presenta la forma borghese della ricchezza nella sua apparenza di denaro, egli lo considera elemento estraneo e perturbatore. Sicché il Boisguillebert attacca il lavoro borghese in una forma, come valore di scambio, e lo trasfigura utopisticamente nell’altra, come valore d'uso. Così dimostrando che si può considerare il tempo di lavoro come misura della merce, e nello stesso tempo confondere il lavoro che crea la merce, il valore di scambio, come l’attività naturale e diretta dell’uomo. Ciò che sarà il tratto tipico del socialismo piccolo-borghese di scuola francese, che ha in Proudhon il suo massimo esponente.

È nel nuovo mondo che si ha la prima analisi consapevole, quasi banalmente chiara del valore di scambio come tempo di lavoro. Là, nota Marx, gl’importati rapporti borghesi si sono sviluppati vigorosamente grazie a una sovrabbondanza di humus, che compensava largamente la scarsa tradizione storica. D’acchito viene in mente il "terreno vergine" d’America, "derattizzati" gl’indiani, rispetto al "terreno puttano" della vecchia Europa di alcuni nostri fili del tempo. Ed è nientemeno che un founding father in un saggio giovanile del 1719 a svolgere questa analisi, B. Franklin.

Egli cerca una misura del valore diversa dalla moneta espressa nei metalli nobili, e la trova appunto nel tempo di lavoro. Se, argomenta il Franklin, in un anno si produce una data quantità di grano e d’argento, il prodotto dell’uno sarà il prezzo naturale del prodotto dell’altro; per esempio, se 20 once sono uguali a 20 bushel di produzione annua, allora 1 oncia sarà pari a un bushel. Se poi, caeteris paribus, dovesse cambiare il rapporto di produzione, conseguentemente cambierebbe anche il valore corrispondente tra oncia e bushel. Se, per esempio, la produzione di argento annua aumenta a 40 once, restando a 20 bushel quella di grano, allora il nuovo rapporto di valore sarà di 40 once pari a 20 bushel, cioè 2 once saranno uguali a 1 bushel. In tal modo il tempo di lavoro diventa la misura del valore.

A questo punto è ovvio che Franklin definisca la ricchezza d’un paese come la quantità di lavoro che i suoi abitanti possono acquistare. Così facendo però il Franklin riduce in modo economicisticamente unilaterale il tempo di lavoro in misura del lavoro, trasformando automaticamente il valore d'uso in valore di scambio, una volta trovata la misura del valore di scambio. Ciò che sfugge al Franklin in questo ragionamento è l’ambito sociale (e non "naturale") in cui questa trasformazione avviene. Egli considera, altresì, il commercio come scambio di lavoro con lavoro. Non di lavoro particolare con lavoro particolare, ma di lavoro "astratto" misurato in tempo di lavoro con lavoro dello stesso tipo. Ma non avendo chiara l’importanza della forma sociale nel determinare questa trasformazione del lavoro reale in lavoro indifferenziato, egli non coglie il nesso sociale tra questo tipo di lavoro e il denaro, giudicandolo un semplice espediente tecnico per facilitare gli scambi. Ma pur interessanti, queste analisi d’oltreoceano rimasero marginali al dibattito europeo, anche per la loro natura di sporadici interventi su singoli argomenti, fatti dal Franklin in determinate occasioni politiche.

Nel ‘700 in Europa teneva banco l’antitesi tra lavoro reale che crea valore d'uso, e lavoro che crea valore di scambio, tradotta nella questione di quale tipo di lavoro reale crei la ricchezza borghese. Il che già presuppone che non tutto il lavoro che crea valore d'uso crea automaticamente ricchezza nella società borghese. Ma il punto davvero scottante per i fisiocratici e i loro avversari teorici era non tanto quale lavoro crei il valore, ma piuttosto quale crei il plusvalore. Insomma, la questione non era ancora risolta nella sua forma semplice, che già si cercava di risolvere nella sua forma complessa. Ma questo, nota Marx, è il modo di procedere della scienza, che arriva ai "punti di partenza", ai principi per vie traverse e incrociate. La scienza, dice Marx, usando una straordinaria immagine quasi surreale del salto intuitivo di conoscenza, cuore dei nostri schemi di rovesciamento della prassi, è un architetto che costruisce alcuni piani abitabili della casa prima di averne gettate le fondamenta. Più prosaicamente noi diciamo che la scienza (intesa come nuova conoscenza) è anticipazione. Indubbiamente il marxismo è invariante, e spesso questi commenti "a margine" di Marx sono come punti più luminosi, in cui meglio rifulge la sua invarianza, in chi è in grado di coglierla. Lo rivedremo più avanti in una nota su Proudhon.

A metà del ‘700 spicca la figura di James Steuart, che per primo analizza il sistema complessivo dell’economia borghese. In lui le categorie economiche astratte si colgono ancora nel processo di distacco dal contenuto materiale da cui sono tratte. Ciò lo porta a oscillazioni e incertezze. In un punto il valore è definito inequivocabilmente come tempo di lavoro ("what a workman can perform in a day"), in altri punti però viene confuso con il salario e le materie prime. Questa confusione tra contenuto materiale e categorie astratte è ancora più lampante in questo esempio. In una filigrana d’argento lavorata, egli distingue il suo valore intriseco (intrinsic worth), il valore del materiale in sé, dal suo valore d’uso (useful value), il lavoro speso per dargli quella forma.

Ma ciò che rende veramente superiore lo Steuart dagli economisti precedenti e successivi, è che coglie pienamente il carattere sociale del lavoro che crea valore di scambio rispetto al lavoro che crea valore d'uso, come è evidente nella sua definizione d’industria: "il lavoro che mediante la propria alienazione crea un equivalente universale, io lo chiamo industria". Steuart comprende benissimo che è questa forma di lavoro che distingue la società borghese da quella medievale. Egli sa benissimo che la merce e la sua alienazione esistevano già da prima, ma che solo nella società borghese la merce è la forma fondamentale della ricchezza e l’alienazione il modo fondamentale dell’appropriazione.

Mentre in genere si indicava ora questo, ora quel lavoro, o branca di lavoro particolare come creatore della ricchezza materiale, Smith è il primo a considerare il lavoro in generale, cioè il lavoro nella sua figura complessiva sociale come divisione del lavoro, quale creatore della ricchezza materiale, cioè dei valore d'uso. Mentre dicendo così dimentica l’elemento naturale, poi lo persegue nella sfera della della ricchezza puramente sociale, in quella del valore di scambio.

Smith riconosce certamente che il valore di scambio è determinato dal tempo di lavoro, ma solo nella forma elementare della merce; nelle forme conplesse di salario, capitale e rendita questa legge gli ritorna oscura. Così finisce per non vederla operante nei rappresentanti dei rapporti borghesi (affittuari, salariati, capitalisti, ecc.), e la relega nel paradise lost borghese delle epoche primitive, dove gli uomini si sarebbero rapportati tra di loro come immediati produttori e scambiatori di merce. È questo il senso delle "robinsonate" di quei primi economisti, che cercavano di cogliere nella sua purezza la legge del valore, in uno schema semplificato dei rapporti borghesi (il produttore e lo scambiatore immediato di merci), salvo anacronisticamente proiettarlo sulle società primitive reali, a causa del pregiudizio che le categorie economiche borghesi fossero "naturali", e non storiche. In seguito, dopo gli economisti "classici", caduta questa necessità di chiarificazione teorica, è rimasto solo il pregiudizio ideologico.

Smith oscilla continuamente dalla determinazione del valore delle merci mediante il tempo di lavoro in esse contenuto, alla determinazione del loro valore mediante il valore del lavoro. Egli non riesce a chiarire i particolari, e non si accorge dell’equiparazione compiuta a forza dal processo sociale tra i lavori disuguali, allo scopo di creare la parità dei diritti dei singoli lavori individuali. Cioè quel processo che Marx efficacemente esemplifica nei fabbricanti di lucido da scarpe londinesi, che misuravano le numerose scatole vendute in palazzi acquistati. Qui siamo in pieno nell’esaltante (per i borghesi) regno della felicità capitalista, che Marx bolla sarcasticamente come "liberté, égalité, fraternité e … Bentham".

Il passaggio tra il lavoro reale e quello che crea valore di scambio, egli cerca di ottenerlo mediante la divisione del lavoro, in cui il secondo si attua. Ma se lo scambio privato presuppone la divisione del lavoro, non vale affatto il contrario, che la divisione del lavoro presupponga lo scambio privato. Ancora una volta Smith commette un anacronismo storico. E Marx lo confuta con l’importante esempio della società peruviana, dove la divisione del lavoro era straordinariamente organizzata, data la sua complessità, pur essendoci al suo interno né scambio privato, né scambi di prodotti in qualità di merci. Questa straordinaria esemplificazione di Marx, che appare più volte nei suoi scritti, è colta appieno nella sua importanza nel primo capitolo del nostro "Economia marxista come scienza rivoluzionaria".

Ricardo invece elabora compiutamente le determinazioni del valore della merce mediante il tempo di lavoro, e la dimostra operante anche in tutti quei rapporti capitalistici che più sembrano contraddirla. E almeno per quanto riguarda la grandezza del valore, arriva a sospettare che essa presupponga determinate condizioni storiche: Infatti, afferma che la legge del valore vale solo per le merci che si possono aumentare a piacere mediante l’industria, e la produzione sia fatta in regime di piena e libera concorrenza. In realtà, ciò vale a dire che la legge del valore si sviluppa pienamente solo in una società dalle caratteristiche della moderna società borghese.

Ma anche lui, ritenendo il lavoro borghese come la forma eterna del lavoro, cade nell’anacronismo di vedere i primi pescatori e cacciatori scambiarsi pesce e selvaggina come possessori di merce, quasi che, ironizza Marx, consultassero le tabelle degli interessi correnti della borsa di Londra 1817, per calcolare il valore dei propri strumenti. Fuori dai "parallelogrammi" di Owen, Ricardo sembra non conoscere altro tipo di società da quella borghese. Ma in quest’orizzonte puramente borghese, sa analizzare con tanto acume l’economia capitalista, che in profondità è molto diversa di come appare in superficie (punto decisivo dell’analisi dei fenomeni in Marx), che di lui si poté dire che sembrava caduto da un altro pianeta.

In contrapposizione a Ricardo, Sismondi mette il rilievo il carattere sociale del lavoro che crea valore di scambio, e afferma che il carattere del nostro progresso è la riduzione del tempo di lavoro a tempo di lavoro necessario mediante la proporzione tra il fabbisogno dell’intera società e il tempo di lavoro necessario a soddisfarla. Sismondi non attacca, come Boisguillebert il denaro, ma se la prende col grande capitale, riproponendo, seppure in altri termini, la storica antitesi tra francesi e inglesi in economia. Se con Ricardo l’economia politica giunge alle sue estreme conseguenze, con Sismondi arriva a esprimere i dubbi che essa stessa ha di se stessa.

Proprio per la compiutezza teorica a cui giunge l’economia politica in Ricardo, è contro la sua tesi che si concentrano le obiezioni e le polemiche degli altri economisti, che Marx sintetizza in quattro punti essenziali. Quest’ultimo paragrafo è anch’esso una buona esemplificazione del metodo marxista. Dato che la teoria economica della società borghese non può essere superata dal suo interno, ma solo dalla teoria della società che dovrà sostituirla, queste obiezioni, quand’anche fondate, non confutano affatto la tesi di Ricardo, ma spingono al chiarimento di alcuni aspetti più controversi della stessa. È in questa luce che Marx commenterà i quattro punti individuati.

La prima obiezione alla tesi di Ricardo è che anche il lavoro ha valore di scambio, e lavori differenti hanno valori di scambio differenti; è quindi un circolo vizioso fare d’un valore di scambio la misura del valore di scambio, perché il valore di scambio misurante ha a sua volta bisogno d’una misura. Questa obiezione si riduce al problema di come determinare il salario nella condizione in cui il tempo di lavoro è misura del valore di scambio. A ciò risponderà la teoria del lavoro salariato.

La seconda obiezione è che se il valore di scambio d’un prodotto è uguale al tempo di lavoro, allora il valore di scambio d’una giornata di lavoro sarà uguale al prodotto d’essa. Detto in altri termini, il salario del lavoro dovrà essere uguale al prodotto del lavoro. Ma ciò non avviene. Ergo. Questa obiezione si riduce al problema di come avviene che nella produzione fondata sul valore di scambio determinato dal tempo di lavoro, il valore di scambio del lavoro è minore del valore di scambio del suo prodotto. La teoria del capitale sarà la soluzione a questo problema. È in questo secondo punto che Marx mette un’importante nota su Proudhon, che commenteremo alla fine.

Il terzo punto è che il gioco della domanda e dell’offerta varia il prezzo della merce al di sopra o al di sotto del suo valore di scambio. È la proporzione quindi della domanda e dell’offerta a determinare il valore di scambio e non il tempo di lavoro. Questa, che Marx chiama strana obiezione, si risolve nella teoria della concorrenza, che spiega come mai il valore di scambio si realizzi solo nel suo opposto, cioè nei prezzi. Ha ben motivo d’essere quella tagliente osservazione dello scienziato sociale Marx, dato che, come bene spiegato in alcuni testi della nostra corrente, il rapporto tra la categoria più concreta "prezzo" e la categoria più astratta "valore di scambio" è lo stesso che intercorre in fisica tra la categoria più concreta "peso" e la categoria più astratta "massa". Strana obiezione davvero da parte di studiosi che consideravano la propria materia di studio condotta con metodo scientifico.

Il quarto punto polemico, quello apparentemente più decisivo, nota Marx, è che se il tempo di lavoro determina il valore di scambio, com’è che le merci che non contengono lavoro hanno anch’esse valore di scambio, cioè, in altri termini, di dove viene il valore di scambio delle forze naturali (la terra in primis) alla base di qualunque produzione. Questo problema sarà risolto dalla teoria della rendita fondiaria.

Tornando, da ultimo, al secondo punto, Marx nota che questa obiezione borghese che il salario avrebbe dovuto essere uguale al valore di scambio del suo prodotto, cosa che non si verificava, fu ripresa da alcuni socialisti inglesi, che la usarono come arma contro la borghesia per accusarla di non seguire le sue stesse teorie economiche. Più avanti, essa fu ripresa da Proudhon come teoria propria e su di essa fondò il suo sistema economico socialista. Marx in questa nota commenta fulmineamente che il signor Proudhon proclama il principio fondamentale della vecchia società come principio della nuova.

Ora, come noi diciamo che il marxismo è invariante, così diciamo che sono invarianti le teorie socialiste antimarxiste che noi definiamo in blocco "proudhonismo". E siccome noi non inventiamo nulla, ma siamo umili ripetitori, ecco qui una perfetta definizione di proudhonismo data da Marx, a giudizio del suo capostipite. Prendiamo il caso eclatante del proudhoniano Stalin, che al di fuori della nostra corrente, non solo i liberali, ma anche molti "comunisti" si stupidebbero di vedere così definito. Eppure cos’è lo stalinismo, come appare evidente dall’analisi della sua dottrina fatta nel nostro "Dialogato con Stalin", se non la pretesa d’aver fondato la nuova società socialista sulla legge del valore, cioè sul principio fondamentale della vecchia, che si proclama d’aver superata? Più proudhonismo di così, si muore.

Rivista n°55, luglio 2024

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