Poniamo che il capitalista paghi il salario all'operaio dopo aver vendute tutte le merci prodotte da quest'ultimo (in effetti, il capitalista non anticipa mai il salario!). Vendute tutte le merci e metamorfosato così tutte queste in denaro (d=200), il capitalista deve dare all'operaio s=100, per cui nelle sue mani rimane d-s=(200-100=100).
Domanda: lasciando perdere il consumo personale, può il capitalista rimettere nella riproduzione tutto questo valore pari a 100 che gli è rimasto ora nel borsello?
Marx c'insegna che s e d non sono "freddi numeri" che si rapportano in termini puramente aritmetici. Egli c'insegna che queste piccole formule racchiudono la ricchezza delle relazioni (tutt'altro che idilliache!) fra due classi sociali: borghesia e proletariato.
Ma le classi sociali - almeno quelle fondamentali - non sono due, per cui la nuova quantità di denaro d1 (=100) non può rientrare tutto nella riproduzione. Esiste una terza fondamentale classe sociale - quella dei proprietari fondiari - per cui il denaro d1(=100) deve cedere una quota alla rendita fondiaria rf e in tal modo trasformarsi, ad esempio, in d1-rf=d250.
Tralasciando dunque le "mezze classi" e le cristallizzazioni passeggere "in forma di esistenza particolari" ("Elementi ... ", pag. 95), il modello ci mostra come il valore delle merci metamorfosato sul mercato in denaro d si suddivida in d=s+d2+rf=100+50+50 . E' questo d con 2 (d2), una volta pagati i salari e la rendita fondiaria, che il capitalista può pienamente utilizzare per far partire il ciclo della riproduzione.
Arrivato a questo punto (portate pazienza: la sintesi è un dono di cui purtroppo non sono partecipe), pongo la domanda:
Perché nella surricordata pagina 95 degli "Elementi ..." si parla di sovraprofitto che si converte in rendita fondiaria?
Non rischia di creare confusione il termine "sovraprofitto"? E' come se si dicesse: ai proprietari fondiari viene dato una parte del plusvalore (rendita), alla sola condizione che oltre al profitto, il capitale industriale possa realizzare un sovrapprofitto; se non vi sarà alcun sovrapprofitto, non potrà esservi alcuna rendita fondiaria.
Ma se dal modello teorico si toglie anche per un solo istante la rendita, sparisce la stessa classe dei proprietari fondiari e non avrebbe più senso parlare di profitto e sovrapprofitto, ovvero della metamorfosi del plusvalore più "ancora un po' di plusvalore".
Secondo. Dove vanno gli USA
Si è appena accennato al problema del possibile attacco USA all'Iraq, solo per sottolineare che se diamo grande importanza alla comprensione del problema relativo alla produzione e circolazione-appropriazione del plusvalore, è perché solamente in questo modo riusciremo a comprendere che l'obiettivo fondamentale degli USA non sono né l'Iraq né Al-Qaeda. Non sono questi infatti gli avversari degli USA nella guerra per l'appropriazione del plusvalore che si metamorfosa nei flussi del mercato mondiale.
[Cercheremo quanto prima di utilizzare nel modo migliore l'articolo nel n° 6: "La guerra planetaria degli Stati Uniti d'America".
(A proposito del punto precedente sui "sovrapprofitti", leggo in detto articolo, fine p.9:
" ... il capitalismo, giunto alla sua massima espressione, pur avendo reso inutili i capitalisti, non ha eliminato la proprietà, quindi ha dovuto devolvere alla rendita una parte del profitto, cioè del plusvalore prodotto nella società".
Detto bene; non c'è alcuna contraddizione con gli "Elementi..."; in ogni caso, non parlando di sovrapprofitti, mi sembra esemplifichi meglio)]
Terzo. I flussi del capitale
Punto dolente … speriamo per poco.
Abbiamo cercato di definire le categorie fondamentali che si incontrano nella produzione e nella circolazione del valore, al fine di comprendere i reali meccanismi che stanno alla base della "lotta al terrorismo internazionale".
Nell'articolo sul Welfare (n° 7), partendo dalla constatazione della difficoltà di riavviare il ciclo dell'economia - e quindi di bloccare la catastrofica caduta del saggio di profitto - si afferma che la deregulation dei Reagan e della Tatcher non è una politica liberista in pretesa contrapposizione alla politica del controllo statale. Essa rappresenta, nonostante le apparenze, un altro tipo di controllo "di tipo diverso e più efficace, quindi più stretto. Al controllo diretto dello Stato sugli elementi della produzione e del reddito, subentrò quindi un controllo indiretto, basato principalmente sulla manovra dei flussi finanziari".
Ecco. E' proprio qui che ci siamo arenati.
In sostanza, non siamo riusciti a "visualizzare" questo concetto riguardante il controllo dei flussi finanziari quale "nuova politica" tendente a dare nuovo ossigeno al cadavere che continua a camminare.
Occorrerebbe un saggio per affrontare il problema del sovrapprofitto e del perché ci serve nell'ambito dei movimenti di capitali attorno alla rendita, ma cercheremo di essere sintetici. Il ragionamento scaturito dall'incontro veneziano, per cui il concetto di "sovrapprofitto" sarebbe ridondante, non fa una grinza se rimaniamo nell'ambito della produzione industriale. Infatti a noi interessa giungere a una legge della dinamica capitalista e per questo ci servono semplicemente i processi di formazione del valore, purché siano misurabili.
Stabilito il prezzo di produzione di una determinata merce (prezzo di costo medio aumentato del saggio generale del profitto), il sovrapprofitto del singolo capitalista non ci riguarda più. Tant'è vero che, a livello generale, lo stesso Marx non solo fa sparire il sovrapprofitto, ma addirittura il profitto stesso, introducendo la definizione universale della "formula trinitaria", cioè capitale-interesse, lavoro-salario, terra-rendita.
Come si vede, il profitto non c'è più. Ma se dobbiamo risalire dalle ultime pagine del Terzo Libro alla ragione della formula trinitaria, dobbiamo passare attraverso tutto ciò che ci sta prima. La cosa non è così banale come sembra, perché la legge della rendita fondiaria, per essere formulata, ha bisogno sia del profitto che del sovrapprofitto, l'interesse-fine non le basta e il plusvalore-inizio neppure.
I classici spiegavano la rendita come effetto della proprietà. Marx dimostra che in regime capitalistico ciò è una fesseria, e lo fa attraverso la dimostrazione che la rendita è mero plusvalore. Se però avesse detto che il proprietario si appropria del plusvalore avrebbe detto esattamente la stessa cosa di coloro che voleva criticare, cioè che la rendita è effetto della proprietà. Ciò è vero, ma sarebbe come dire che il cielo è azzurro perché... è azzurro. Per una vera dimostrazione scientifica, Marx opera prima una riduzione di tipo cartesiano, poi una serie di relazioni dialettiche. Comunque parte con lo stabilire, meccanicamente e arbitrariamente, che sulla terra operino sempre tre persone: il capitalista, il proprietario e l'operaio. Il capitalista si prende il profitto, l'operaio il salario e il proprietario... che si prende il proprietario?
Occorre seguire Marx e non andare subito all'ultima pagina del libro. Per analizzare la rendita egli parte non dall'agricoltura ma dall'industria. Un industriale produce la sua merce con semplice forza-lavoro, mentre il suo concorrente la produce con l'ausilio di una cascata che fa girare le macchine. Siccome il prezzo di mercato della merce (media = valore) è stabilito dal prezzo di produzione e non dai costi individuali, e siccome nessuno produce in perdita a lungo, ecco che il primo industriale si becca il profitto medio e il secondo lo stesso profitto più una differenza, cioè il sovrapprofitto. Solo a questa condizione può accedere all'energia della natura, passando parte del suo profitto individuale al proprietario del fondo in cui c'è la cascata.
Lo stesso vale in agricoltura, e sappiamo come Marx faccia gli esempi delle varie fertilità dei terreni per evidenziare l'esistenza di una rendita differenziale. Il terreno peggiore stabilisce quale sia l'entità minima del sovrapprofitto da devolvere alla rendita. Se tale terreno non produce abbastanza per il capitalista, egli avrà soltanto il profitto medio e, se darà qualcosa al proprietario del fondo, cadrà in una condizione di sotto-profitto, cioè fallirà. Deve, anche nel caso del terreno peggiore, avere un sovrapprofitto. O meglio, il binomio tra il capitalista che si accontenta del profitto medio e il proprietario del terreno peggiore, stabiliscono il profitto medio. Il sovrapprofitto salterebbe di nuovo fuori nel caso di soppressione del proprietario: se il capitalista fosse proprietario del terreno, egli avrebbe un sovrapprofitto rispetto agli altri. Se tutti i capitalisti diventassero proprietari del terreno, si ristabilirebbe un profitto medio fra i terreni peggiori e vi sarebbe solo più sovrapprofitto per i migliori, al posto della rendita differenziale. Se i terreni migliori producessero di più a causa di nuove tecnologie, sementi ecc., sarebbero essi a stabilire la chiusura di quelli peggiori, perché il sovrapprofitto da essi permesso innalzerebbe il saggio di profitto medio e farebbe fallire i capitalisti che non sono riusciti a fare altrettanto sui terreni peggiori.
Se tutti i terreni e tutti i prezzi di costo fossero uguali, non vi sarebbe rendita differenziale e neppure sovrapprofitto, ma probabilmente non vi sarebbe neppure il capitalismo, dato che esso è nato e si è accresciuto sulle differenze.
Dove vanno gli USA?
Per rispondere alla domanda occorre giungere al capitalismo supersviluppato, quello che ormai si muove unicamente sulla formula trinitaria di Marx, quella dove il profitto è sparito e il plusvalore si presenta direttamente come interesse. Certo, i singoli capitalisti ci tengono tantissimo al loro profitto individuale, il fatto è che il Capitale, divenuto impersonale e mondiale, di loro se ne frega. Chiamiamo dunque "cascata" una generica possibilità di accesso a fonti di energia, minerali e forza-lavoro favorevoli, cioè "differenziali".
Gli Stati Uniti si trovano nelle condizioni del capitalista che ha una cascata in via di esaurimento e ormai anche di cattiva qualità, mentre vi sono terreni altrove (la crosta terrestre è più vecchia degli Stati Uniti e le sue popolazioni anche) pieni di tali cascate. Inoltre, favoriti in precedenza da un sacco di fattori un tempo altamente "differenziali", come terra vergine in abbondanza, manodopera a basso costo che affluiva a milioni dai vecchi capitalismi, ogni bendiddio nel sottosuolo, e capitali che a causa di tutto ciò fluivano dall'estero, avevano raggiunto una posizione di "rendita", come Marx e Lenin avevano sottolineato a proposito dell'Inghilterra.
Per mantenere questa posizione, occorre oggi che il capitale complessivo americano produca un saggio d'interesse-rendita (Amadeo dimostra come nel capitalismo ultramaturo la rendita non sia solo una questione immobiliare e agraria) in grado di non fare abbassare i consumi interni e di garantire perciò l'accesso alle cascate senza passare ad altri il sovrapprofitto.
Per quanto sembri un'ultrasemplificazione, questo è ciò che si ricava dal sistema mondiale trattato con il metodo della cosiddetta scatola nera, cioè con un modello semplificato in cui si ricavano informazioni solo dall'andamento dell'input-output, cioè dai flussi di capitali in entrata e in uscita. Si capisce che in questo modello bin Laden e Bush non sono contemplati, si tratta di un procedimento del tutto anti-battilocchiesco. Però ci spiega benissimo questo strano automatismo che si è messo in moto non solo verso la guerra all'Iraq, ma verso la guerra al mondo intero, Twin Towers o meno (sappiamo che molto prima dell'11 settembre 2001 gli americani stavano costruendo basi gigantesche negli Emirati, che la recessione era incominciata negli USA sei mesi prima, che vi erano politiche specifiche di pressione in Asia Centrale, ecc. ecc.). Un modello di scatola nera, come abbiamo già detto, è anche quello di Marx, con l'ingresso D, la scatola nera MP, l'uscita D' con la retroazione "Investimento" e la dissipazione "Consumo".
Dal punto di vista del nostro modello, come detto anche ponendo la questione, gli avversari degli USA non sono i rappresentanti del "Male" scelti ad hoc, ma l'Europa e il Giappone (cfr. Quaderno n. 1).
Flussi del Capitale
Se da parte americana si tratta dei flussi derivanti dal tentativo di mantenere la supremazia, non c'è nulla di misterioso: si tratta di ramificare opportunamente l'input e l'output da e per il resto del mondo, tramite le banche, gli eserciti o l'ufficio di Greenspan, il capo della Federal Reserve, responsabile della politica economica (soprattutto estera) degli Stati Uniti. Da parte europea e giapponese la reazione è ovviamente quella di non essere schiacciati, diventare un satellite passivo che fornisce plusvalore. Gli altri non contano.
Sembra, da come è posta la questione, che vi sia però qualche dubbio sul fatto che a tutto ciò sia corrisposta e corrisponda tuttora una deregulation che in effetti è una re-regulation. Dubbi sul fatto che quelle tanto propagandate non siano in effetti politiche liberiste. Nella nostra Lettera n. 25 prendevamo in esame le politiche Tatcher-Reagan e i loro effetti sul mondo bancario. Il perno della questione è semplificabile così: si alleggerisce la spesa pubblica eliminando servizi o affidandoli al circuito privato; invece di far pagare tasse a tutti i cittadini, pagano soltanto coloro che sono interessati (invece dell'assicurazione si paga direttamente il servizio, almeno dove si può). D'altra parte, manifestandosi così in pieno l'anarchia capitalistica, la Federal Reserve diventa così potente da regolare i flussi finanziari con appositi interventi. Se in massima parte negli USA ciò significa agire sui tassi, è solo perché quei particolari tassi pilotano l'economia del mondo. Altrove una politica simile non avrebbe gli stessi effetti.
Dopo il crollo dell'87, avvenuto in piena deregulation reaganiana, Il Sole-24 Ore pubblicò un opuscolo in cui si ventilava l'ipotesi che gli Stati Uniti avessero fatto crollare apposta le borse mondiali per appropriarsi di capitali esteri e fregare europei e giapponesi. Siamo praticamente sicuri che l'attuale crollo delle borse non è casuale e che sia pilotato dal governo degli Stati Uniti: flussi immani di capitali esteri si erano investiti nella new economy americana, poi sono stati azzerati, vale a dire che non sono tornati indietro, vale a dire che sono rimasti negli USA e i polli esteri sono stati spennati. Non si saprà mai la cifra, ma siamo nell'ordine di idee delle decine di migliaia di miliardi di dollari, alcune volte l'intera economia degli Stati Uniti.
Per "visualizzare" il concetto, basta guardare alla politica degli Stati Uniti dopo l'11 settembre: non solo non si è dimostrata liberista di fronte all'emergenza, ma ha esasperato l'interventismo statale a livelli mai visti, con iniezioni di capitale nell'economia tali da far impallidire il quartetto Mussolini-Hitler-Roosevelt-Stalin. Una curiosità: Hitler varò l'economia di guerra nel 1942, dopo tre anni che l'esercito tedesco combatteva su tutti i fronti; gli Stati Uniti sono in economia di guerra dalla crisi del '29.
La politica di controllo dei flussi finanziari nel mondo non è affatto nuova: l'Inghilterra lo faceva, ma da Wilson in poi, gli Stati Uniti sono subentrati e lo fanno molto meglio, ovviamente disponendo come vincitori assoluti anche di un maggiore armamentario tecnico e politico.