Appunti sulla "Fenomenologia dello spirito" di Hegel (1)

Breve schematizzazione della "filosofia classica tedesca".

KANT (1724-1804). La "cosa in sé" (noumeno) è il limite della conoscenza, non è conoscibile. La produttività della ragione sta dunque al di sotto di questo limite. L’uomo può conoscere ciò che ha già in sé nel pensiero.

In conclusione, l’intelletto interpreta il mondo sulla base delle sue categorie (sue dell’intelletto). Più precisamente: attraverso la percezione sensibile l’uomo interpreta il materiale grezzo che gli sta davanti, e il mondo nasce dal lavoro interpretativo dell’intelletto. Ma il sapere umano può ontologicamente conoscere solo i fenomeni, non le essenze.

Sinteticamente: il soggetto (l’uomo) imprime all’oggetto (l’universo) la forma logica in base alle categorie trascendentali possedute dall’intelletto.

Queste tesi sono nel libro intitolato Critica della ragione pura (1781). K. stesso provvide a farne una sintesi più abbordabile, nel testo Prolegomeni ad ogni futura metafisica che voglia presentarsi come scienza (1783).

FICHTE (1762-1814) prova a rettificare il sistema kantiano: se l’uomo è ontologicamente libero, la conoscenza umana non può dipendere dalla cosa in sé. Kant gli appare un materialista poco rigoroso. Secondo F. la rappresentazione non può dipendere dall’oggetto.

Ciò che appare come mondo non esiste neanche — il mondo è prodotto dall’Io creativo (è il soggetto umano a fondare il mondo). Tutta la realtà dipende dall’atto creativo dell’Io.

Anche ciò che è diverso dall’Io (il non-Io) è conosciuto partendo dall’Io.

Il solo limite della conoscenza è la "finitudine", che si manifesta in due modi:

1. nella pluralità degli Io (volgarmente: la libertà dell’Io non può essere assoluta perché ha come confine il limite posto dalla libertà degli altri Io)
2. nell’esistenza di Dio (la libertà umana ha per fondamento Dio, perciò è situata all’interno della libertà di Dio).

Questa posizione di F. è chiamata "idealismo soggettivo".

F. espone queste tesi in due libri: Sul concetto della dottrina della scienza (1794) e Fondamenti dell’intera dottrina della scienza (1798). Da tempo è in uso presentarli in singolo volume col titolo Dottrina della scienza.

SCHELLING (1775-1854) condivide la radicalizzazione inizialmente fatta da Fichte sul sistema di Kant: tutta la realtà è una rappresentazione dell’uomo (Io). Poi prova a spingersi più avanti e avanza questa tesi: attraverso la visione intellettuale l’uomo può conoscere la realtà nella sua totalità.

Cosa cambia? Bene, per Fichte la natura esisteva solamente come creazione dell’uomo, non aveva base oggettiva (era solo una scena per l’uomo). Invece, S. riconosce una autonomia oggettiva alla natura. La natura è costituita sulla base di polarità: l’es. essenziale è il respingersi e l’attrarsi dei fenomeni magnetici ed elettrici. Questa polarità è dinamica, per cui la natura è un divenire. Ma natura e spirito sono identici perché il divenire di entrambi è prodotto dall’agire della divinità (ovvero, dall’ontologia fondamentale di costituzione del mondo).

Il divenire è contraddittorio e le contraddizioni si ricompongono nell’identità assoluta di Dio.

Queste idee vengono espresse nelle seguenti opere: Idee per una filosofia della natura (1797), Sull’anima del mondo (1798), Primo abbozzo di un sistema della filosofia della natura (1799), Sistema dell’idealismo trascendentale (1800).

Il primo libro importante di Hegel si intitola proprio Differenza del sistema di Fichte e di quello di Schelling (1801). Hegel si schiera con Schelling: è necessario superare il soggettivismo puro e quindi attribuire autonomia al Non-Io. Resta però poco convinto della "visione intellettuale" con la quale Schelling riconosce la natura. La Fenomenologia dello spirito nasce dallo sviluppo di questa insoddisfazione.

Le principali opere di Hegel (1770-1831) sono:

Fenomenologia dello spirito (1806-7)
Scienza della logica (1812)
Enciclopedia delle scienze filosofiche (1817)
Lineamenti di filosofia del diritto (1821)

__________________

Seguiremo ora, capitolo per capitolo, il testo. Io ho la classica traduzione di Enrico De Negri, nell’edizione de La Nuova Italia del 1960. Il numero delle pagine si riferisce a questa edizione.

Nel 1995 è uscita, presso Rusconi, una nuova traduzione a cura di V. Cicero. Le novità sono due: a) scompare il termine "alienazione", sostituito con "esternazione"; 2) il linguaggio è più moderno, più vicino all’attuale modo di parlare.

Il testo inizia con una lunga Prefazione (pp.1-61). Ti interesserebbe moltissimo, dato che tratta Del conoscere scientifico, solo che, per apprezzarla, devi leggerla alla fine del libro. Perciò la saltiamo.

Entriamo direttamente nella prima parte, Scienza dell’esperienza della coscienza, che si apre con una Introduzione (pp. 65-78). Eccoci quindi al primo capitolo (pp.81-92).

Siamo qui per capire, quindi è bene semplificare quanto più è possibile, non scimmiottare il linguaggio colto, evitare i tecnicismi, non giocare con atteggiamenti forbiti, col solo limite di non travisare i concetti di Hegel: la semplificazione è un onesto metodo didattico, il riduzionismo sostituzionista è una scorrettezza ermeneutica e scientifica. Non è facile, ma proviamo…

1° capitolo dunque: La certezza sensibile.

Leggi attentamente la prima pagina ("Il sapere che da prima o immediatamente…"), fino a "l’oggetto similmente soltanto come puro questo" (primo rigo di p. 82). Il linguaggio è quello che è, ma siamo di fronte ad una stoccata storica.

Parafrasiamo: se ogni filosofo metafisico ha dovuto riempire centinaia di pagine per dire alla fine che cos’è la realtà, Hegel invece inizia subito dando per scontata l’esistenza della realtà e della sua conoscibilità. E’ semplicemente un fatto: la realtà esiste e l’uomo ha sempre appreso dalla realtà. Hegel assume come punto di partenza la forma di conoscenza dell’uomo comune: la forma più immediata di relazione tra l’uomo e l’oggetto avviene attraverso i cinque sensi —immediatamente perché non abbisogna di alcuna teoria e riflessione. E’, appunto, una conoscenza sensibile (dipendente dai sensi).

Attenzione. Hegel uso spesso il termine puro (p.es. "puro essere" all’inizio del capoverso di p. 82), ma con un significato diverso da quello della tradizione. P. es. in Kant ("la ragione pura") indica quanto di più alto possa esserci; invece in Hegel "puro" è sinonimo di "semplice": l’essere puro è il semplice essere, il mero essere.

Tenendo conto di questa precisazione leggi a p. 82 il brano che va da "Ma nel puro essere, che, costituendo l’essenza di questa certezza…" fino a "ossia mediante Io" (fine p. 82).

La conoscenza sensibile è un fatto, ma non è sufficiente, perché l’oggetto non è così immediato come sembra. C’è una relazione tra chi guarda ("questo come Io", "questo Io") e ciò che viene visto ("questo come oggetto").

Punto importante, da capire bene. Facciamo il famoso es. dell’albero (famoso perché più avanti sarà fatto da Hegel e poi sarà ripreso da Engels).

Dunque, io ho qui davanti un albero.

Però l’albero non dice "io sono un albero". Non c’è neppure un cartello appeso all’albero con su scritto "questo è un albero".

Sono io a dire "questo è un albero".

Dall’es. puro (semplice) dell’albero vengono fuori due questo:

1. io che dico — che sono un semplice io, un Io puro, un questo
2. questo oggetto, l’albero.

La certezza sensibile non è più immediata perché vive non presso di me, ma presso qualcos’altro (l'albero).

Più precisamente: l’essere dell’albero, che è pur indiscutibile, ha bisogno dell’Io per la sua certezza ("per il suo divenir cosciente").

Siamo qui nel cuore della teoria di Hegel —in uno di quei punti alti, ripresi problematicamente da Marx.

L’es. dell’albero conduce a due categorie fondamentali della teoria di Hegel: l’in-sé e il per-altro.

L’albero è in sé un albero, indipendentemente da chi crea qualche tipo di idea intorno all’albero. Però il suo essere-per-sé non completa il processo conoscitivo. Necessariamente l’albero (l’oggetto) è anche un essere-per-un-altro.

Guardando le cose da questo punto di vista, comprendiamo l’insufficienza della conoscenza sensibile.

Leggi p. 83, da "Proprio a lei devisi chiedere: che cosa è il questo?", fino a "l’universale è dunque in effetti il vero della certezza sensibile" (p. 84).

E’ un passo parecchio difficile. Hegel vuol dire: quando dico "questo albero" rinvio a un qui e ad un ora.

Qui: l’albero che vedo passeggiando con Amadeo (cane) non è necessariamente lo stesso che vedo dalla finestra del mio studio.

Ora: l’albero che vedo alle 8 di mattina non è necessariamente lo stesso che vedo alle 8 di sera.

In generale: il sapere è legato al tempo e allo spazio.

Le formulette questo, ora e qui indicano un senso universale che assicura che la conoscenza sensibile non si basa sulle mere impressioni individuali.

La conoscenza sensibile è dunque vera, però possiede "la verità più povera".

Insistiamo. Ora, mentre scrivo, è notte. "Ora è notte" è vero, ma tra poco non sarà più vero. Anzi, appena dico "ora" non è già più vero. La verità è superata (aufheben). Ma aufheben vuol dire anche sollevare (da terra). Quindi significa un superare-sollevando.

Finisci di leggere p. 84 (da "Anche il sensibile…" a "quell’essere sensibile che noi opiniamo").

Il brano contiene una tesi importante: il linguaggio non può esprimere in modo corretto la certezza sensibile.

Il primo capitolo è finito.

Ricapitoliamo:

1. La prima forma di coscienza si basa sulla conoscenza sensibile.
2. Ma la presunta immediatezza della conoscenza sensibile è fittizia: già in essa ciò che conta è l’universale: questo, ora, qui e il linguaggio smascherano il singolare come universale.

2° capitolo. La percezione (pp. 92-108)

Scoprire l’universale è approdare al concetto. Il concetto di una mela è più universale di "questa cosa con il gambo che si trova qui ed ora".

Allora si può dire così: la coscienza si rapporta alla cosa cogliendo la sua verità universale, e agisce percependo.

Si faccia attenzione al brano che inizia a p. 93 con "Ora, questo oggetto deve venir determinato più da vicino…" e termina a p. 94 con "la differenza o la verità del molteplice".

Nel brano appare la parola negazione, che rappresenta una nozione importante in Hegel, per questo è opportuno dire subito che il senso con il quale è usata da Hegel è equivalente, in italiano, del termine distinzione.

Se Tizio percepisce Caio, Caio è ciò che nella percezione si distingue da Tizio, e non vuol dire che Caio sia la "negazione" di Tizio. E’ una osservazione a prima vista banale, eppure rilevante nelle interpretazioni italiane di Hegel e di Marx. Aufheben indica in tedesco sollevare, conservare, distinguere, rifiutare, negare. Non è facile restituire ogni volta il senso esatto con cui è via via usato da Hegel. Quindi attenzione: dire che Caio è la negazione di Tizio è una cosa, dire che Caio si distingue da Tizio è un’altra…

Riprendiamo il filo: la coscienza, percependo, individua nell’oggetto determinazioni e differenze, cioè le proprietà dell’oggetto. Differenziando, il pensiero si pone tra l’oggetto e le sue proprietà.

Attenzione al prossimo passo. Ogni cosa della percezione soffre per una contraddizione.

Cerchiamo di capire bene. Se prendo una mela, essa è una, nel senso che si differenzia dalle altre cose —ma è anche un universale. Questa contraddizione (che Hegel chiama: il negativo) tra l’uno e l’universale è il tema di fondo del libro.

Leggi il brano che inizia a p. 94 con "Ma l’essere è un universale…" e finisce con "si rapporta solo mediante un indifferente anche" a metà della p. 95.

In pratica, c’è scritto: le proprietà sono una universalità positiva.

Prosegui leggendo il brano che avvia con "In questa relazione…", a p. 95, e termina con "la cosalità è determinata come cosa", all’inizio di p. 96.

In pratica dice: le proprietà hanno anche una universalità negativa.

Conclusione importante: la percezione è il risultato del rapporto tra cosa e proprietà e del reciproco rapporto tra le proprietà, a seconda che siano positive o negative, ovvero indifferenti o esclusive.

Così, la percezione è posta di fronte a due ipotesi diverse:

- Prima ipotesi: l’essenza di un oggetto è il suo essere uno e quindi l’oggetto appare scomposto in molte proprietà solo nella coscienza
- Seconda ipotesi: l’essenza dell’oggetto risiede nelle sue molteplici proprietà, e questa molteplicità è unificata dalla coscienza che percepisce.

L’oggetto viene percepito in questa ambiguità. Hegel definisce illusoria ogni opzione sulle due ipotesi perché la contraddizione unità/universalità fa parte della cosa stessa.

E’ un passo importantissimo. In termini diversi, lo stesso ragionamento può essere espresso così: gli oggetti in quanto in-sé possono avere una vita autonoma, ma l’in-sé diventa il per-sé quando diventa un concetto. Quindi, senza l’in-sé non c’è nulla, ma la pensabilità della cosa (concetto) è possibile solo nel suo essere-per-sé. Quindi:

"Sotto un unico e medesimo riguardo l’oggetto è piuttosto il contrario di se stesso: è per sé in quanto è per altro, ed è per altro in quanto è per sé" (p.104).

Ovvero: ciò che distingue/caratterizza l’oggetto dagli altri è in realtà la relazione di questo oggetto con gli altri.

Ma la percezione non domina la contraddizione unità/universalità, passa da un errore all’altro, alimentando una girandola di "vuote astrazioni" (cfr. pp. 106-7).

Merita di essere letto il brano che inizia con "Tale decorso…" a p. 107, fino alla conclusione del capitolo a p. 108.

Il secondo capitolo si conclude così:

1. tramite il concetto, la percezione coglie l’universalità degli oggetti
2. ma individuando le proprietà degli oggetti, si dimena senza soluzione nella contraddizione tra unità ed universalità.

Facendo una sintesi estrema dei primi due capitoli, possiamo schematizzare così:

1. la conoscenza sensibile scopre nella sua immediatezza il singolare, e non è più sufficiente per capire l’universale;
2. la percezione coglie l’universale, tramite il concetto, ma si imbatte nella contraddizione tra unità e universalità, producendo solo vuote astrazioni
3. perché la contraddizione unità/universalità è propria dell’oggetto, ed è quindi affrontabile esclusivamente da un pensiero adeguato a queste caratteristiche dell’oggetto.

3° capitolo. Forza e intelletto, fenomeno e mondo ultrasensibile (pp. 108-140)

Il tema del capitolo è questo: la percezione rappresenta un gradino più alto rispetto alla conoscenza sensibile, però conduce a vortici di astrazioni da cui bisogna uscire.

La sintesi di questo vortice è la domanda: sono gli oggetti ad essere condizionati dalla proprietà o sono le proprietà ad essere condizionate dagli oggetti?

Il nuovo grado di conoscenza, che Hegel mostra nel capitolo, è da lui chiamato "incondizionatamente universale".

La coscienza percettiva ha trovato il concetto, ma non vi ha riflettuto sopra. Comprendere il concetto come concetto è, per Hegel, superare Kant: è possibile osservare dall’interno la cosa in sé.

L’intelletto deve pensare insieme la frantumazione dell’in-sé nelle diverse molteplicità e la singolarità dell’essere-uno dell’oggetto.

Ciò è possibile attraverso una categoria che Hegel chiama forza, e che ha due facce:

a. una esterna: una forza opera sempre e opera verso l’esterno
b. una interna: la forza deve stare da qualche parte, deve esistere anche quando non è estrinsecata.

Es.: Newton si accorge della forza di gravità quando la mela cade sulla sua testa (forza esterna), ma la forza di gravità c’era anche prima e c’è anche dopo che la mela è caduta (forza interna).

"La forza è l’incondizionatamente universale che ciò che è per un altro lo è anche in se stesso, o che ha in lui la differenza" (p.112).

"Ha in lui la differenza" significa che l’essere-per-un-altro della forza coincide con l’essere-per-sé della forza.

Seguono molte pagine, forse non proprio ben riuscite. Hegel si aggroviglia e ci annoia per dimostrare che una forza è in realtà formata da due forze unite fra loro….

In poche parole credo che volesse dire questo: c’è una forza sia dietro la resistenza dell’oggetto che subisce, sia dietro la forza che agisce. Le estrinsecazioni della forza costituiscono un gioco di forze opposte.

La forza non è un oggetto che si manifesta ai sensi.

I sensi di Newton sentono solo il dolore provocato dalla mela. La forza è comprensibile solo dall’intelletto. Solo l’intelletto coglie il fatto che la forza dei fenomeni poggia su qualcosa di interno e nascosto. Ecco perché l’intelletto è vero sapere (ha il concetto come concetto).

E’ caduta la "cortina" del noumeno kantiano. Naturalmente, dietro la cortina non c’è nulla che possa essere colto dai sensi, perché siamo in un territorio formato dal contratto tra il sensibile e l’ultrasensibile. Questo territorio può essere conosciuto esclusivamente dalla conoscenza intellettuale, quella che possiede il concetto in quanto concetto.

Ma possedere il concetto in quanto concetto è anche essere consapevoli del proprio sapere, quindi possedere autocoscienza (vd. il prossimo capitolo).

Riassunto generale:

1. la conoscenza sensibile conosce solo il singolare
2. la percezione coglie l’universale ma non risolve la contraddizione tra unità e universale
3. questa contraddizione è superata dalla conoscenza intellettuale che scopre, nella cosa stessa, la categoria della forza, e si costruisce come concetto di concetto (vero sapere).

4° capitolo. La verità della certezza di se stesso (pp. 143-152)

Si entra nella parte dedicato all’autocoscienza.

Che cos’è l’autocoscienza? Non una "immota tautologia" (cioè non è il semplice conoscere se stessa da parte della coscienza): affermando "Io sono Io" non si è ottenuto niente. Nell’autocoscienza l’Io si oppone al saputo. Cioè: l’identità riconosce se stessa venendo a conoscenza dall’esterno, arrivando a sé da un essere-fuori-di-sé.

Leggi il passo che inizia a p. 144 con "Con l’autocoscienza noi siamo entrati nel peculiare regno…" e termina al primo rigo di p. 145 con "essa non è autocoscienza".

Lo stile è ampolloso, ma il contenuto è chiaro: grazie al riconoscimento dell’identità delle proprietà, della loro forza e regolarità, l’intelletto ci dà un sapere che va al di là dei fenomeni sensibili. Ma accanto a questo sapere, c’è anche un sapere di questo sapere.

Esempio: l’uomo e l’animale possono conoscere la fame, ma l’animale solo nella forma dell’essere affamato, mentre l’uomo anche nella forma del sapere della fame.

Ora, dice Hegel, il sapere non deve fermarsi al sapere, ma deve rapportarsi alla vita. Si apre qui la parte sulla concupiscenza o appetito. Questi due termini indicano il "volere" di chi desidera agire praticamente, insomma indicano il lato pratico dell’autocoscienza.

Ci si imbatte spesso, tra queste pagine, in frasi criptiche: P.es.: "L’autocoscienza raggiunge il suo appagamento solo in un’altra autocoscienza" (p. 151). Credo che voglia dire semplicemente questo: come la coscienza ha avuto modo di fare esperienza con le cose, ora l’autocoscienza deve fare esperienza con se stessa, quindi essere pratica, agire nella vita. Ma la vita non è qualcosa di singolare, bensì di universale, un tutto complesso. Il vivente non esiste semplicemente, ma deve essere inteso nel rapporto con il resto, e quindi nella limitazione o nella negazione rispetto all’altro.

La natura ha una autocoscienza separata (nel senso sostenuto da Schelling contro Fichte), ma la sua autocoscienza non ha reale autonomia, perché non sa nulla di sé e si è perduta nell’oggettività del mondo.

A questa autocoscienza della natura si oppone l’autocoscienza umana, che sa di sé e desidera cogliere l’altra autocoscienza.

Hegel sostiene questa tesi: esistono due autocoscienze separate, con le differenze già dette.

Ma se l’autocoscienza è sapere di sapere, in realtà le due autocoscienze non sono altro che la duplicazione interna alla stessa autocoscienza —quindi sono due figure diverse in relazione reciproca:

- autocoscienza come identità assoluta dell’Io (è certa di sé come se stessa)
- quella che è certa di sé solo perché c’è altro di differente da sé (gli oggetti, la natura ecc.)

Riassunto generale:

1. cogliendo l’universale, la percezione supera il primo gradino del sapere, rappresentato dalla conoscenza sensibile (conoscenza del singolare), ma apre una nuova contraddizione tra unità e universalità

2. questa contraddizione è risolta dalla conoscenza intellettuale che è vero sapere (concetto di concetto)
3. il vero sapere è autocoscienza, che vuole agire praticamente

A. Indipendenza e dipendenza dell’autocoscienza; signoria e servitù (pp. 153-164)

Siamo nel cuore della Fenomenologia, alcune pagine-capolavoro di Hegel: la parte merita di essere letta interamente.

Qui seguirò con stretta fedeltà al testo il discorso che Hegel svolge riferendolo al problema segnalato nelle pagine precedenti, ovvero la duplicazione dell’autocoscienza.

Tutto ciò che è, è in principio autocoscienza, perché è una parte della mia autocoscienza.

L’oggetto è l’intera natura, nella quale la vita, nella sua infinitezza, si fa strada lottando nel processo dialettico.

Se l’autocoscienza è lotta, allora è lotta anche in me.

Lo scontro è tra due figure dell’autocoscienza:

- quella che vive la propria concupiscenza come volontà di potenza: pensa a sé, nega l’altro

- quella che si perde nel mondo oggettivo, perché la sua concupiscenza vuole unirsi al mondo

Nessuna delle due figure può vivere senza l’altra ed è importante che questo riconoscimento avvenga, cioè che "si riconoscano come reciprocamente riconoscentisi" (p. 155).

Ma il riconoscimento non è un dono del cielo —è guerra.

A questo punto Hegel scrive la famosa metafora del servo e del signore.

Il signore si pone come pura identità, non vuol farsi determinare da nessuna cosa, si pone come identità assoluta, infinita indeterminatezza. Di fatto, si limita al puro essere-per-sé, totale indipendenza apparente. Resta soffocato nella miseria dell’Io=Io.

Il servo si presenta come sé finito, è affascinato e catturato dagli oggetti, dall’essere-altro rispetto all’indipendenza.

All’inizio, il rapporto signore-servo è caratterizzato da un riconoscimento unilaterale e ineguale, ma in realtà il signore diventa sempre più dipendente dal servo, cioè l’arrogante essere-per-sé del signore si trasforma in un essere-per-il-servo.

Grazie al lavoro, il servo sviluppa la propria indipendenza e supera la paura della morte (della assoluta negatività). Il lavoro plasma e dà forma: non è solo un agire sull’oggetto ma è anche un agire sul lavoratore.

Alla fine il servo potrà riconoscersi nel signore, e il signore nel servo.

La sezione può essere riassunta così: la concupiscenza dell’autocoscienza si mostra in due figure che, attraverso una lotta per la sopravvivenza, raggiungono il riconoscimento reciproco.

A. Libertà dell’autocoscienza; stoicismo, scetticismo e la coscienza infelice (pp. 164-190)

L’autocoscienza ha raggiunto un grado più elevato attraverso il riconoscimento delle due parti che la compongono.

Ma ora il problema è: come arrivare all’effettiva unità?

Nel pensiero la coscienza è libera sia da condizionamenti esistenziali che dai condizionamenti posti dalla situazioni complessiva del mondo. Da qui lo stile stoico: non si perde la pazienza, si sopportano impassibili le circostanze della vita, si cura la propria forza interiore. Una volta stabilità in questa impassibilità la libertà interiore, è davvero indifferente essere schiavo o signore. Ma questo modo di pensare blocca tutto, diventa assolutamente incapace si smuovere qualcosa. Resta sempre tranquillo nella sua presunta autosufficienza. Lo stoicismo offre insomma un orizzonte falso alle esigenze di unità dell’autocoscienza, perché dice: pensa alla tua libertà interiore, non curarti del mondo. Ma una libertà senza mondo è al massimo una libertà astratta.

Nello sforzo di superare questa libertà astratta e per prendere contatto col mondo, la coscienza si incontra con lo scetticismo: il dubbio diventa lo strumento privilegiato del pensiero, e l’azione diventa semplice negazione dell’esistente. Il primo passo per trasformare la realtà è certamente il negare l’esistente, ma non può farlo compiutamente chi dubito di tutto, perché sia il pensiero che l’azione finiranno per girare a vuoto.

Dunque, né gli stoici né gli scettici portano l’autocoscienza all’unità.

Il dissidio interiore, il senso di lacerazione prodotto dall’esperienza di questa unità desiderata e mai raggiunta, è chiamata da Hegel coscienza infelice.

Dopo un quadro così malinconico, Hegel si prepara la sua soluzione, che svilupperà nel prossimo capitolo: la coscienza infelice si eleva cominciando a capire che il conflitto è già una forma di unità.

Riassumiamo il tutto fin qui:

1. la conoscenza sensibile (conoscenza del singolare) è superata dalla percezione, la quale però vive la contraddizione tra unità e universalità;
2. questa contraddizione è risolta dalla conoscenza intellettuale, che è vero sapere;
3. ma il vero sapere è autocoscienza, e l’autocoscienza è azione, è pratica reale nel mondo;
4. nella pratica, l’autocoscienza si è scissa (servo/signore): superare la scissione è raggiungere il riconoscimento reciproco;
5. la mancata unità dell’autocoscienza (dovuta allo stoicismo e allo scetticismo) produce la coscienza infelice.

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Rivista n°55, luglio 2024

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