Gramsci e la coerenza dell'incoerenza - Riunione sbobinata

Relazione registrata il 29 settembre 2012 a Pesaro durante il 49° Incontro Redazionale.

Introduzione

Se consideriamo Antonio Gramsci in tutta la sua parabola esistenziale, emerge nettamente come il suo percorso storico-ideologico sia perfettamente coerente. Egli ha una formazione di tipo idealista, volontarista e concretista, e la mantiene per tutta la sua militanza politica restando sempre coerente rispetto a questi presupposti di tipo ideologico e filosofico.

Se invece consideriamo nel dettaglio la militanza di Gramsci, possiamo suddividerla in tre grandi momenti: il periodo torinese, quello in cui confluisce nel PCd'I e il periodo della prigionia fascista.

Nel primo, Gramsci è militante del PSI ed entra a far parte del gruppo che poi verrà storicamente detto dell'Ordine Nuovo; nel secondo, v'è la militanza attiva nel PCd'I che culmina nella sua elezione ufficiale a segretario generale del partito nel congresso di Lione (1926), carica che Gramsci stesso aveva introdotto nel PCd'I sulla scorta di quanto era avvenuto nel partito comunista russo in via di stalinizzazione. Infine nel terzo periodo Gramsci, sempre più isolato nelle carceri fasciste, riflette e ripensa un pò a tutta la sua parabola politica alla luce della "mancata" rivoluzione e dell'avvento del fascismo.

Fatta questa suddivisione, possiamo notare che le costruzioni teoriche di Gramsci cambiano di conserva a queste tre grandi fasi della sua esperienza politica, e cambiano profondamente in un punto decisivo per una teoria che voglia dirsi rivoluzionaria, vale a dire in che modo la classe subalterna può diventare classe dirigente.

Vedremo che il Gramsci ordinovista delinea un certo percorso affinché questo avvenga; il Gramsci segretario del PCd'I ne delinea un altro e il Gramsci dei Quaderni del carcere ne delinea un terzo che è completamente diverso dagli altri due. Insomma Gramsci rimaneggia profondamente fase per fase la propria costruzione teorica. Ciò d'altra parte non è incoerente rispetto al suo fondo filosofico, dato che Gramsci aveva accettato, fin dai suoi primi anni di studio e formazione culturale e filosofica, un tipo di teoria che prevede espressamente che i fatti storici rompano gli schemi teorici precedentemente costruiti e che esige necessariamente quello che potremmo definire un continuo aggiustamento di tiro teorico rispetto ai fatti storici in continua mutazione.

Evidentemente in questa prospettiva non è più possibile fare, lo vedremo meglio più avanti, alcun tipo di previsione scientifica. Sono proprio i suoi presupposti filosofici che gli impediscono la possibilità di fare previsione scientifica nei fatti sociali, e che gli impongono tutto il tentativo di "correggere" il marxismo su questo punto. Quindi, da una parte si ha una perfetta coerenza con la propria formazione filosofica; dall'altra, proprio per questo tipo di formazione filosofica, sull'onda di alcuni fatti specifici e contingenti che accadono durante la militanza gramsciana, si ha questo continuo rimaneggiamento delle costruzioni teoriche che Gramsci faceva sulla base della sua filosofia.

Formazione e coerenza ideologica

Vediamo anzitutto questa sua formazione filosofica che sta a fondamento delle sue differenti teorizzazioni. Gramsci si forma, quando era ancora un giovane liceale, nell'arretrata Sardegna (che non sarà solo una nota meramente biografica) soprattutto su quelle che sono le grandi riviste borghesi del Primo Novecento in Italia. I nomi sono quelli che leggiamo in qualunque antologia scolastica: La Voce di Giuseppe Prezzolini e di Gaetano Salvemini, L'Unità di Salvemini dopo la rottura con La Voce e infine la rivista del neoidealismo militante italiano, La Critica di Benedetto Croce e Giovanni Gentile.

Queste riviste, di cui Gramsci è lettore appassionato, sono accomunate da un approccio polemico con la generazione precedente e le sue filosofie e dottrine cosiddette positiviste, considerate di tipo economicistico – con termini che non a caso Gramsci riprenderà ampiamente –, deterministico, evoluzionistico, naturalistico, meccanicistico, ecc. Insomma queste dottrine avevano, secondo queste riviste, il torto di trattare la storia umana alla stregua della storia naturale: la storia umana è invece diversa perché in essa c'è l'intervento creativo dell'uomo, della sua volontà, della sua coscienza, e quindi non è affatto prevedibile, diversamente dalla storia naturale.

D'altronde, queste dottrine positiviste erano considerate come il corrispettivo culturale dell'arretratezza economica dell'Italia rispetto ai paesi europei più avanzati, dove invece sarebbero state abbandonate. Bisognava dunque svecchiare e sprovincializzare il clima culturale italiano se si voleva colmare il divario anche economico e di potenza politica rispetto ai vicini europei. Tradotto politicamente, significava che bisognava formare una nuova classe dirigente borghese animata nella sua azione politica da queste nuove filosofie della volontà.

Gramsci, in base a queste letture, fa completamente sua questa necessità di sprovincializzarsi, di svecchiare la cultura, cioè, di fatto, di abbracciare queste filosofie idealistiche e volontaristiche e di abbandonare il "vecchio e superato" determinismo. In un passo dei Quaderni del carcere Gramsci mostra, ritornando sulla sua formazione giovanile, di condividere appieno l'intento che leggeva nelle riviste borghesi:

"Se è vero che una delle necessità più forti della cultura italiana era quella di sprovincializzarsi, anche nei centri urbani più avanzati e moderni, tanto più evidente dovrebbe apparire il processo in quanto sperimentato da un 'triplice o quadruplice provinciale' come certo era un giovane sardo del principio del se­colo." (Passato e presente)

A maggior ragione egli sentiva questa necessità perché veniva da una zona d'Italia ancora più arretrata rispetto alla media italiana; e quando pone lo stesso problema culturalista rispetto alla classe proletaria, non fa altro che trasporre questa esigenza nata all'interno del dibattito borghese nel movimento socialista.

Anche i proletari, da un certo punto di vista, avevano bisogno di sprovincializzarsi, di svecchiarsi, di superare le vecchie dottrine a cui erano legati e di passare a nuove, che altro non erano che l'idealismo e il volontarismo in salsa primonovecentesca (cioè volgare rispetto all'idealismo e volontarismo classico del tempo di Marx). E come quelle già criticate da Marx, anche queste dottrine mettevano la coscienza, la volontà, come fattore primo, determinante della storia. Questo presupposto filosofico antimarxista sarà una costante di fondo presente in tutte le diverse formulazioni teoriche compiute da Gramsci, del quale si può tranquillamente dire che non fu mai, teoricamente, marxista.

Per chiudere il cerchio e dimostrare che il primo Gramsci è del tutto conseguente all'ultimo Gramsci nella formazione filosofica e ideologica, le citazioni che potremmo fare sono sterminate. Anzi, si può dire che tutte le citazioni che ci capiterà di fare nella relazione sono altrettanti esempi dimostrativi di questa continuità teorica. Ma vogliamo farne una estrapolata dai Quaderni del carcere, scelta appositamente per due motivi: uno, perché si fa il nome di Croce e Croce si dimostra essere punto fisso non solo di polemica ma anche di contiguità con la filosofia gramsciana; l'altro, perché in questo particolare passo dei Quaderni Gramsci cerca volutamente una continuità con la teoria marxista. Ma proprio lì dove cerca questa continuità, si può vedere la rottura netta con la teoria comunista. Lo citiamo secondo i volumi dell'edizione curata sotto la direzione di Togliatti:

"Si potrebbe scrivere un nuovo Anti-Dühring che potrebbe essere un 'Anti-Croce' da questo punto di vista, riassumendo non solo la polemica contro la filosofia speculativa, ma anche quella contro il positivismo e il meccanicismo e le forme deteriori della filosofia della prassi." (Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce)

Quando Gramsci scrive filosofia della prassi si riferisce bene o male al marxismo, mentre essa in realtà è un'interpretazione idealistica del marxismo e l'espressione stessa è presa da Giovanni Gentile. Chi volesse approfondire questo argomento può leggere il bel libro di Christian Riechers, Gramsci e le ideologie del suo tempo, dove si trova esposto tutto il retroterra borghese del pensiero gramsciano e i rapporti di questo con le dottrine borghesi del suo tempo.

Ma torniamo al passo. Gramsci qui afferma che sarebbe il caso di fare, circa cinquant'anni dopo, un "Anticroce" come Engels fece al suo tempo un Antiduhring per una ulteriore messa a punto della teoria marxista. In realtà, l'intento di Gramsci è ben diverso da quello di Engels poichè quest'ultimo non criticò affatto la teoria di Duhring per coglierne il nucleo positivo e utilizzare quanto di valido per correggere Marx. Tutt'altro. L'operazione di Engels fu quella che spesso utilizzò anche Amadeo Bordiga, e cioè di prendere la controtesi sbagliata dal punto di vista marxista, metterle accanto l'esatta tesi comunista, porre quindi l'aut aut: o l'una o l'altra, senza alcuna commistione possibile tra le due teorie.

Per Gramsci la questione era veramente in tutto diversa. Per lui si trattava di fare un "Anticroce": da una parte per criticare Croce come teorico della borghesia italiana, e dall'altra per prendere il nucleo idealistico volontaristico crociano e con quello correggere le parti marxiste "deteriori", cioè il meccanicismo, l'economicismo, il determinismo e via di seguito.

Come si vede la polemica è sempre quella: si deve negare una parte del marxismo, il quale va quindi a farsi benedire, e con esso l'unità tra scienza naturale e sociale per cui è possibile usare anche per la scienza sociale i metodi e la previsione delle scienze naturali. Ma la previsione scientifica non è più possibile una volta che si "corregge" Marx in questo modo.

Gramsci lo dice chiaro e tondo. In un passo dei Quaderni sempre nel volume anzidetto, egli parla di previsione "scientifica", ma scientifica la mette tra virgolette perché ritiene non sia possibile fare previsione scientifica dei fatti sociali:

"In realtà si può prevedere 'scientificamente' solo la lotta umana ma non i momenti concreti di essa, che non possono non essere risultati di forze contrastanti in continuo movimento, non riducibili mai a quantità fisse, perché in esse la quantità diventa continuamente qualità. Realmente si 'prevede' nella misura in cui si opera, in cui si applica uno sforzo volontario e quindi si contribuisce concretamente a creare il risultato 'preveduto' ." (Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce)

Notata la spia idealistica dell'avverbio "concretamente", qui Gramsci afferma che l'unica previsione possibile è quella di un gruppo organizzato che nella lotta politica vince e fa valere la sua volontà: a quel punto i fini per cui ha lottato possono diventare concrete realizzazioni politiche e storiche; ma finché una volontà viene tenuta a freno da altre volontà, non potrà mai fare quello che vuole e quindi non realizzerà mai le previsioni volute.

Siamo nell'ambito, per usare un termine marxiano, della sovrastruttura, delle lotte politiche tra gruppi più o meno organizzati, dove effettivamente si lotta senza piena certezza, ci sono alti e bassi e la previsione non è possibile.

Nell'ambito della struttura economica, il famoso "movimento reale che abolisce lo stato di cose presente", la previsione scientifica è invece possibile. È lì che c'è la previsione scientifica del marxismo, è lì che la teoria sa già cogliere non solo la dinamica, cioè le leggi del movimento di questo modo di produzione, ma anche la meta, lo sbocco di questo movimento, cioè la nuova società che rispetto alla vecchia società ha rapporti completamente diversi.

Nella filosofia gramsciana questo tipo di previsione è impossibile, perché la cosa più importante rimane tutta nell'ambito della sovrastruttura dove ci sono lotte politiche e scontro di volontà. La previsione diventa semplicemente la volontà realizzata di chi ha saputo imporre la propria rispetto alle altre volontà.

Per dirlo in altro modo, in Gramsci ci sono solo gli scontri del partito formale, la famosa linea spezzata del partito formale con i suoi alti e bassi, mentre manca completamente l'orizzonte del partito storico, la linea continua del programma comunista che si proietta verso il futuro della nuova società per cui si lotta. E se manca questa linea continua alla quale ricondurre le lotte del partito formale, è chiaro che restano solo gli alti e bassi delle varie peripezie che attraversa il partito formale nelle lotte politiche. Tutta la polemica del 1921-26 sulla tattica, che doveva essere all'interno di limiti ben precisi stabiliti previamente dalla teoria o invece dettata dai fini immediati della situazione contingente, verteva proprio in questo. Per Gramsci contava solo la lotta politica del partito formale. Per la Sinistra Comunista "italiana" contava il partito storico, la sua linea continua, alla quale la linea (tattica) del partito formale doveva sempre essere collegata.

Questo tipo di teorizzazione è stata una delle dannazioni per i comunisti all'indomani della rivoluzione russa. Infatti, se ciò che conta veramente è il momento della lotta politica perché quello è il momento della volontà, della coscienza, ecc. ecc., allora se vince la volontà organizzata d'un gruppo comunista, più nulla impedisce di costruire la società comunista laddove i comunisti hanno vinto.

Applicata alla Russia, vuol dire: una volta che hanno vinto i bolscevichi, in Russia si poteva andare verso il comunismo. Tutto il mito della Russia come patria del socialismo nasce da qui, dalla convinzione che non ci fosse più nulla che impediva ai russi di costruire la società comunista. Le condizioni materiali potevano certo opporre passivamente un pò di resistenza, ma non potevano mai fermare la volontà dei bolscevichi. Vedremo più avanti che tutta la interpretazione della rivoluzione russa in Gramsci segue questo schema teorico.

Quindi, non solo possiamo cogliere la perfetta continuità di filosofia del Gramsci giovane e poi del Gramsci maturo dei Quaderni del carcere, ma anche i guasti che questa filosofia ha portato poi a tutto il movimento comunista.

Svolto questo primo punto, andiamo a vedere il secondo e cioè come cambia la costruzione teorica di Gramsci, a seconda dei diversi momenti politici che attraversa, riguardo alla possibilità per la classe subalterna di arrivare al potere.

Periodo ordinovista e la via "rivoluzionaria" dei consigli

Gramsci arriva a Torino nel 1911 per continuare gli studi universitari. Da buon concretista rimane abbagliato, lui che viene dall'arretrata Sardegna, dalla moderna Torino. E rimane abbagliato soprattutto da due cose: l'organizzazione fortemente razionale dell'apparato produttivo torinese, la Fiat, e la parte di classe operaia che lavora all'interno della fabbrica di automobili. Da lì parte tutta la teorizzazione ordinovista. Ovviamente, oltre alla situazione torinese, anche gli avvenimenti di quegli anni, tra il 1911 e il 1920, hanno la loro importanza.

Incantato da Torino, Gramsci crede di poter vedere in quel segmento di proletariato, la classe operaia che lavora nella fabbrica moderna, la classe rivoluzionaria, diversa dal proletariato di cui parlava Marx che si coglie alla scala dell'intera società e non alla scala ridotta della fabbrica. Quando nel 1919-20 nascono i consigli di fabbrica e avviene la famosa occupazione delle fabbriche da parte dei consigli, Gramsci crede che la storia stia cambiando drasticamente direzione. L'avvenimento contingente lo spinge, sempre, alle sue diverse teorizzazioni. E difatti fa anche l'equazione, sballatissima, per cui i Soviet russi sono uguali ai consigli di fabbrica di Torino. Mica vero. I Soviet russi ponevano la questione leniniana della dualità del potere nella società, i consigli di fabbrica torinesi, tutt'al più, la questione ordinovista di chi dovesse gestire la fabbrica.

Ma vediamo un passo dove Gramsci chiaramente dimostra quanto si lasci sempre influenzare fortemente dagli avvenimenti contingenti, li sopravvaluti e poi teorizzi qualcosa di nuovo non potendo non tenere conto di questi fatti che sopravvengono a cambiare il corso storico. Lo troviamo in un editoriale sull'Ordine nuovo scritto il 5 giugno del 1920 e intitolato I consigli di fabbrica:

"Il periodo attuale è rivoluzionario perché la classe operaia tende con tutte le sue forze, con tutta la sua volontà, a fondare il suo Stato. Ecco perché noi diciamo che la nascita dei Consigli operai di fabbrica rappresenta un grandioso evento storico, rappresenta l'inizio di una nuova èra nella storia del genere umano." (Il consiglio di fabbrica, 5-VI-'20)

Addirittura. E se effettivamente l'avvenimento dei consigli di fabbrica torinesi rappresenta una nuova era nella storia del genere umano, è chiaro che c'è bisogno di una nuova teoria per spiegare una nuova era. Evidentemente è proprio il fondo filosofico di Gramsci a fargli prendere questi abbagli: l'avvenimento contingente diventava questa sconvolgente novità per cui era necessario rimettere mano alla teoria e cambiarla alla luce dei fatti.

In sintesi, la teoria ordinovista è quella per cui la famosa classe operaia che lavora nella fabbrica è semplicemente puro esecutore del processo produttivo. Se la classe operaia diventasse anche l'organizzatore del processo produttivo, a quel punto diventerebbe essa stessa la classe determinante, esautorando la borghesia dal processo produttivo e guadagnando pezzo per pezzo - qui il gradualismo gramsciano - terreno nella fabbrica. Conquistato l'apparato produttivo, di fatto si conquistava lo Stato che sarebbe caduto in mano agli operai come una pera matura. Se a Gramsci fu detto inutilmente che per prendere il potere statale ci voleva il partito rivoluzionario, il suggerimento fu compreso al meglio da un politico abile e realista come Giovanni Giolitti. Egli lascia difatti, nel 1920, occupare le fabbriche. Lascia che il mitico operaio Parodi metta il suo sedere nello scranno che era di Agnelli. Ma tiene però saldamente la piazza. Sappiamo come sono andate le cose: la nuova era iniziata l'anno prima, è finita l'anno dopo. E a questo punto Gramsci abbandonerà totalmente l'ordinovismo e non lo sentiremo più parlare di operai che devono conquistare il processo produttivo.

Gli operaisti di oggi sono più gramsciani di Gramsci, visto che Gramsci stesso ha abbandonato questa teoria mentre loro l'hanno ripresa.

La storia va avanti e tutto quello che succede, come sempre, vede Gramsci al rimorchio. Ricordiamo brevemente i fatti: nel 1915 l'entrata nella guerra mondiale, almeno per l'Italia, preceduta da tutto il dibattito forsennato su interventismo e non interventismo; nel 1917 la rivoluzione in Russia, poi la nascita della III Internazionale e di rimando la formazione dei vari partiti comunisti nazionali legati ad essa. E da qui Gramsci man mano, visti anche come sono andati a finire i consigli di fabbrica, inizia a capire che forse ci voleva il partito rivoluzionario per fare la rivoluzione.

Anche quando Gramsci sembra essere marxista, rimane in realtà un idealista. Quando viene la guerra, egli ha una famosa sbandata interventista (che ebbe anche e più forte il compare Togliatti invero ma qui non ce ne occupiamo), interessante non tanto come pretesto per accusarlo di essere stato per la guerra, ma perché lì si vede chiaramente come dai suoi presupposti filosofici arrivi necessariamente a certe conclusioni teoriche e d'azione.

In risposta all'articolo di Mussolini Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante, Gramsci ne scrive uno sul Grido del popolo, che si intitola appunto Neutralità attiva e operante:

"Più cauto perciò, mi pare, avrebbe dovuto essere a.t. (Angelo Tasca) che sul cosiddetto caso Mussolini ha scritto nel passato numero del Grido. Avrebbe egli dovuto distinguere tra ciò che, nelle dichiarazioni del direttore dell'Avanti! era dovuto a Mussolini uomo, romagnolo (anche di ciò si è parlato), e ciò che era di Mussolini socialista italiano, prendere insomma ciò che di vitale poteva esserci nel suo atteggiamento e su quello rivolgere la propria critica, annientandolo, ovvero trovandoci il piano di conciliazione tra il formalismo dottrinario della rimanente Direzione del partito e il concretismo realistico del direttore dell'Avanti!." (Neutralità attiva e operante)

Gramsci prende le difese di Benito Mussolini perché in lui vede il realista concreto che tiene conto del nuovo fatto che è la guerra, mentre i socialisti, che sono rimasti fermi alla vecchia parola d'ordine, sono dei formalisti dottrinari che vogliono mantenere le vecchie posizioni rispetto al fatto nuovo che è la guerra. Sempre viene fuori l'idealista concretista, per cui arriva il fatto nuovo e si deve cambiare teoria e di conseguenza anche tattica per adeguarla alla nuova visione teorica.

Andiamo invece ai fatti russi. La rivoluzione in Russia è un altro di quegli avvenimenti che hanno abbacinato molti intellettuali. C'è stata tutta una transumanza di intellettuali, chiamiamola così, verso i partiti comunisti in formazione non certo perché essi avessero assimilato il marxismo, ma perché erano stati abbagliati dal grande fatto della rivoluzione. Poi sappiamo che la gran parte se n'è andata via ed è passata armi e bagagli alla critica più feroce verso il comunismo. Anche Gramsci fu uno degli intellettuali che prese parte alla grande transumanza.

Che egli abbia capito ben poco di quello che succedeva in Russia, l'abbiamo nero su bianco nel famoso articolo dell'Avanti del 24 dicembre del 1917 intitolato La rivoluzione contro il Capitale. Nella rivoluzione russa, ancora una volta, il fatto storico ha smentito lo schema teorico, come era stato detto per la guerra.

"I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico. I bolscevichi rinnegano Carlo Marx, affermano con la testimonianza dell'azione esplicata, delle conquiste realizzate, che i canoni del materialismo storico non sono così ferrei come si potrebbe pensare e si è pensato."

Dunque i bolscevichi "rinnegano", testuale, Marx mostrandone la fallacia previsionale. Si capisce a questo punto che la previsione scientifica va a carte quarantotto, se è vera un'affermazione di questo genere. E si capisce anche come Gramsci possa pensare che in Russia si sia aperta la possibilità di costruire comunismo. Secondo il materialismo storico i russi non avevano la possibilità, per l'arretratezza delle condizioni materiali, di costruire il comunismo; hanno invece dimostrato coi fatti che era possibile. A questo punto nulla vieta di costruire la bella patria comunista. La volontà comunista si è imposta nella lotta politica, che cosa impedisce più a questa volontà di costruire nella Russia ciò che vuole, cioè il comunismo? Niente.

E dire che Gramsci fu mandato in Russia ad imparare, ma di tutto quel dibattito sulla doppia rivoluzione, all'esterno sì comunista, all'interno con compiti di tipo borghese, di sviluppo del capitalismo proprio a causa delle condizioni arretrate, non è mai rimasta traccia nelle sue teorizzazioni. Ma era inevitabile, proprio per il tipo di premesse teoriche da cui partiva.

Qui è anche l'origine teorica del mito della Russia grande patria del socialismo, che vedremo spuntare anche dalle pagine del documento presentato al congresso di Lione. Purtroppo sappiamo bene i guasti che questo mito ha fatto; la bussola marxista, per gran parte del movimento comunista, è impazzita, come disse Amadeo Bordiga, e non sa più indicare il nord rivoluzionario. Perché se il nord rivoluzionario era la Russia stalinista, tanti saluti all'orientamento, è chiaro.

Periodo del PCd'I 1921-26 e la via "rivoluzionaria" della bolscevizzazione

I fatti russi spingono Gramsci, come tanti altri, verso il partito comunista. Non è il caso di analizzare minutamente il suo ruolo nel partito di quegli anni, ci limiteremo a brevi considerazioni sul documento teorico (le (contro)Tesi di Lione) in cui egli sintetizza l'esperienza di militante mostrando un ottimismo rivoluzionario di facciata poco credibile per un gradualista come lui. Lo era difatti nelle teorizzazioni ordinoviste, lo sarà nuovamente in un altro senso nei Quaderni del carcere.

Ma nel 1926, per motivi di lotta politica contingente, si mostra ottimista rivoluzionario. Per vincere la Sinistra Comunista del partito doveva avere l'appoggio dell'Internazionale e ne accettò la tesi per cui la rivoluzione è l'assalto diretto del partito rivoluzionario allo Stato borghese. Sembrerebbe perciò che Gramsci sia più marxista in queste controtesi, invece è il solito idealista. Infatti sostiene che la storia ci dimostra che la rivoluzione comunista si può fare dato che l'hanno fatta i russi; se copiamo in Italia cosa hanno fatto i russi, faremo anche noi la rivoluzione. Cioè, il modo di fare la rivoluzione non lo dice la teoria ma viene copiato da un fatto storico contingente. E anzitutto copiamo il partito russo, quella famosa volontà organizzata che è riuscita a vincere tutte le altre volontà organizzate nella lotta politica: la famigerata bolscevizzazione.

Inutilmente gli si diceva che la rivoluzione non è questione di forme di organizzazione, come è scritto nero su bianco nelle Tesi di Lione (Progetto di tesi presentato dalla Sinistra per il III Congresso del Partito Comunista d'Italia) della Sinistra Comunista, proprio per andare contro questo tipo di teorizzazione. E inutilmente gli fu detto che non è possibile copiare il modello russo di rivoluzione perché l'Italia non è la Russia. Non per i motivi che, ricredutosi, Gramsci accamperà nei Quaderni dal carcere. Ma perché in Russia i bolscevichi dovevano fare una rivoluzione doppia, borghese e comunista nello stesso tempo, mentre in Italia, dove la rivoluzione borghese era avvenuta da molto tempo, il partito aveva compiti esclusivi di rivoluzione comunista. In quel frangente Gramsci, idealista della più bell'acqua, replicava che la storia ha dimostrato che la rivoluzione in Russia l'hanno fatta, quindi bisognava utilizzare la stessa forma di partito ed utilizzare la stessa tattica:

"E' propria dell'estremismo la concezione che le deviazioni dai principi della politica comunista non vengono evitate con la costruzione di partiti "bolscevichi" i quali siano capaci di compiere, senza deviare, ogni azione politica che è richiesta per la mobilitazione delle masse e per la vittoria rivoluzionaria, ma possono essere evitate soltanto col porre alla tattica limiti rigidi e formali di carattere esteriore." (le (Contro)Tesi di Lione, tesi 27)

Qui l'"estremismo" indica le posizioni della Sinistra Comunista "italiana", contraria alla bolscevizzazione in atto. Insomma, abbiamo la forma organizzativa di partito che concretamente ci ha dato la storia, cioè il partito bolscevico, perciò, invece di muovere obiezioni formalistiche e teoricamente astratte, bisogna adeguare il PCd'I al concreto modello storico del partito bolscevico. Grazie a questa forma di partito si possono mobilitare le masse e fare la rivoluzione, poche storie. Rischi di deviazione, costruito il partito perfetto, non ce n'è.

Siamo all'idolatria dei "fatti compiuti" della storia, propria di ogni idealismo. Idolatria che ritroviamo anche in quest'altro passo della controtesi 28, cumulo impressionante di tesi staliniste:

"Alcune delle tesi di estrema sinistra a questo proposito si collegano a tesi abituali dei partiti controrivoluzionari. Esse devono venir combattute con estremo vigore, con una propaganda che dimostri come storicamente spetti al partito russo una funzione predominante e direttiva nella costruzione di una Internazionale comunista e quale è la posizione dello Stato operaio russo - prima ed unica reale conquista della classe operaia nella lotta al potere - nei confronti del movimento operaio internazionale." (Tesi sulla situazione internazionale)

Per il fatto che la Sinistra Comunista "italiana" in quel momento stava giustamente criticando alcune posizioni della III Internazionale e del partito russo, il più importante tra gli aderenti, essa diventava (un classico dello stalinismo) oggettivamente alleato e complice della borghesia poichè queste polemiche erano usate pro domo sua anche dai partiti borghesi. Le rozze giustificazioni della repressione politica venivano così "nobilitate" teoricamente e trovavano spazio nei documenti teorici di partito.

Per l'idolatra dei fatti compiuti i russi hanno un diritto e un privilegio storico da usare, che non si può mettere in discussione con le astrattezze teoriche. Perché i fatti nuovi e rivoluzionari sono, nella visione idealista di Gramsci, lo strappo che la volontà umana fa sulle avverse condizioni oggettive piuttosto che la capacità di assecondare il movimento oggettivo, avendolo teoricamente previsto, della realtà.

Ma non solo il partito non si discute teoricamente, persino lo Stato russo ha questa posizione di preminenza concretamente storica. Quello Stato operaio russo che in realtà, secondo una giusta visione marxista, era lo strumento amministrativo per costruire capitalismo. Il mito del Paese dove si costruisce socialismo è molto vecchio, come si vede.

Dunque, la storia ha dimostrato che la Russia ha fatto la rivoluzione, che lì ci sono il partito e lo Stato rivoluzionario, pertanto tutte le critiche teoriche formalistiche vanno contro la grande realizzazione storica dello Stato operaio russo. Grande sì, ma dal punto di vista della rivoluzione borghese. Stalin ha effettivamente costruito lo Stato borghese russo. La questione è che teoricamente ci si doveva rendere conto che quello non era uno Stato proletario. Ma non è il caso, ovviamente, di chi parta da questi presupposti teorici di tipo gramsciano.

In conclusione, nelle controtesi di Lione la differenza rispetto all'ordinovismo nel modo di arrivare al potere sta nel credere che la via rivoluzionaria non è più quella di conquistare gradualmente l'apparato produttivo, ma di andare allo scontro diretto con il partito che la storia contingente ha rivelato. Questo è puro idealismo e con la teoria marxista non c'entra nulla. Prendi il modello dernier cri di partito che la storia contingente ti ha dato, copialo pari pari e fai la rivoluzione anche in Italia. Questo è lo schemino teorico usato da Gramsci nelle controtesi di Lione.

Nel 1922 prende piede il fascismo, che nel 1924-25 entrerà in una crisi piuttosto pesante dopo l'affaire Matteotti. Il regime ha traballato e se la corona, l'esercito e la grande borghesia evessero scelto i partiti antifascisti, il fascismo sarebbe caduto. Ma furbescamente, in maniera mirata, quelle forze scelsero la continuità fascista.

Così il fascismo si salva, si rafforza, e a quel punto interviene come un rullo contro tutti i suoi nemici. Ovviamente in primo piano, come bersaglio, ci sono comunisti e antifascisti. E anche Gramsci finisce nelle galere fasciste. E avviene tutto un ripensamento che ancora una volta nasce sull'onda dei fatti senza intaccare i presupposti teorici. La teoria è sempre quella idealistica: noi volevamo fare la rivoluzione, avevamo tutto, anche il partito organizzato come la storia ci ha detto doveva essere organizzato. Come mai il fascismo ha avuto il sopravvento? Questo è il ragionamento da cui parte Gramsci. Ancora una volta non è una chiara visione teorica di che cosa è la rivoluzione comunista, ma sono i fatti contingenti che lo spingono a rimaneggiare le costruzione teoriche fatte in precedenza.

Periodo del carcere e dei Quaderni e la via "rivoluzionaria" dell'egemonia

Dice Gramsci: in Italia non potevamo fare come hanno fatto i russi, cioè un attacco diretto alla Stato da parte delle masse guidate dal partito rivoluzionario, perché nelle società arretrate lo Stato è tutto, mentre nelle società più avanzate lo Stato non è tutto; anzi, l'ostacolo maggiore, quello che tiene, è la società civile molto più sviluppata. Pertanto se prima non si conquista la società civile, non si potrà mai conquistare lo Stato.

Lo schemino però è poco consistente. Come aveva benissimo teorizzato Hobbes, il grande leviatano è proprio lo Stato borghese, al cui confronto gli Stati precedenti erano poca cosa. Ma per Gramsci non funziona più così. Egli afferma invece che è la società civile la parte forte dell'assetto borghese, come afferma in questo passo molto significativo:

"In Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell'Occidente tra Stato e società civile c'era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte; piú o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un'accurata ricognizione di carattere nazionale." (Note su Machiavelli, Guerra di posizione e guerra manovrata o frontale)

Quindi, se si conquista solo la trincea avanzata e non si conquistano le fortezze e le casematte della società civile, non si ottiene nulla. Nella visione di Lenin, qui completamente ribaltato, era relativamente facile conquistare lo Stato russo costituito dalla fradicia impalcatura zarista. Terribilmente lunga e difficile era la transizione al comunismo, data l'arretratezza della società civile russa, perché si doveva passare per una fase di costruzione di capitalismo. Tutto l'opposto era per i paesi avanzati. La conquista del leviatano borghese era terribilmente difficile. Ma una volta avvenuta, era relativamente facile la transizione al comunismo partendo da una società civile pienamente capitalista.

Quanto alla trincea di cui Gramsci parla, l'accenno non è casuale. Perché rimanda a un parallelo che lui istituisce tra le teoria e le strategie della guerra e le teorie e le strategie rivoluzionarie.

In esso vi si afferma che anche in campo militare si è avuta la conferma che non vale più la guerra di movimento, l'attacco diretto per conquistare il cuore del nemico. Tant'è vero che la prima guerra mondiale, la grande guerra, ha usato la strategia della guerra di posizione. Cioè quella sorta di massacro insensato, altro che strategia, che era stata la conquista di trincea in trincea per avanzare. Gramsci continua dicendo che nelle società moderne, come la guerra moderna è ormai una guerra di posizione, così anche la rivoluzione non può che essere una guerra di posizione. Cioè, deve trasformarsi da attacco diretto allo Stato (guerra di movimento) a guerra di posizione per conquistare queste benedette fortezze e casematte della società civile.

Gramsci scrive queste cose tra il 1928 e il 1935, gli anni in cui scrive i Quaderni del carcere. La storia, la famosa storia tanto mitizzata, invece aveva già dimostrato che la strategia vincente anche in campo militare era la guerra di movimento.

La difesa dell'Armata rossa contro gli eserciti bianchi e controrivoluzionari, che venivano da tutte le parti, era stata possibile proprio perché si fece uso della guerra di movimento; Tukhachevsky con la famosa marcia su Varsavia aveva dimostrato la superiorità della guerra di movimento su quella di posizione. Poi il "gramsciano" Stalin, rimasto fermo alla guerra di posizione, fece un disastro. Quel tipo di guerra di movimento non a caso è stato poi studiato e copiato da tutti i grandi eserciti moderni, e la seconda guerra mondiale è stata tutto fuorché guerra di posizione. Quindi quando Gramsci fa questo parallelo e afferma che anche anche la rivoluzione deve essere condotta come guerra di posizione perché è ormai l'unica strategia bellica possibile, i fatti avevano già chiaramente e tranquillamente superato questa teorizzazione. Achille corre dietro alla tartaruga senza mai raggiungerla.

Ma cosa intende Gramsci per società civile? Qui egli addirittura cade al di sotto delle classiche teorie borghesi. Ma è logico, perché la teorizzazione borghese, quando la borghesia era ancora una classe rivoluzionaria, è nettamente superiore alla teorizzazione borghese successiva. Quindi Croce non è un miglioramento di Marx, ma un peggioramento di Hegel.

Invero la società civile di cui parla Gramsci non è la società civile classicamente definita. Se andiamo agli economisti classici inglesi, allo stesso Hegel che da questi ultimi prende questo concetto, la società civile è la sfera dei rapporti economico-sociali. E anche per Marx sarà questo la società civile, contrapposta allo Stato che è la sfera politica e dei diritti-doveri del cittadino. Era quella che poi Marx, nella sua teorizzazione, definirà come la struttura. La società civile, nelle classiche teorie borghesi, equivaleva alla struttura di Marx.

Ora ci possiamo rendere bene conto perché Gramsci abbia ribaltato Lenin nel paragone tra la Russia arretrata e l'Europa avanzata economicamente. La società civile in Gramsci non è più la sfera dei rapporti economici. Gramsci, avendo questo mito della volontà e della coscienza, nella sua teorizzazione ha sempre di mira la sovrastruttura politica, perché è lì che per lui si gioca tutto, è lì che si decidono i destini della storia. È nella sovrastruttura politica che si decide tutto. Pertanto anche la società civile gramsciana, così importante a suo modo di vedere, è dentro la sovrastruttura. Sicché la parte essenziale e più importante della società civile diventa quella dove si elabora e si diffonde l'ideologia delle classi, o più precisamente dei partiti legati alle classi.

Quindi a questo punto la società civile non è più la sfera dei rapporti economico-sociali, ma diventa la rete di scuole, la rete universitaria, la rete dei giornali, la rete delle riviste, la rete delle case editrici, cioè tutti quegli istituti dove effettivamente l'ideologia si elabora e si diffonde attraverso questi mezzi.

È lì che bisogna conquistare le famose fortezze e casematte palmo a palmo, grado a grado, ritornando al gradualismo, seppure declinato diversamente dal periodo ordinovista. Prima c'è bisogno di una lunga guerra di posizione per conquistare queste postazioni ideologiche a difesa dello Stato, poi semmai si potrà pensare all'assalto dello stesso, passare alla guerra di movimento. Siamo al ribaltamento della giusta posizione materialista per cui le idee dominanti d'una società sono le idee della classe dominante. Per l'idealista, invece, è possibile, in una data società, anzi, necessario per la rivoluzione far diventare dominanti le idee della classe subalterna.

Ma a questo punto consegue naturalmente l'altra famosa tesi della teorizzazione gramsciana dei Quaderni, cioè quella dell'intellettuale organico: esso non è nient'altro che il combattente in prima fila di questa lunga guerra di posizione, perché se si devono conquistare alla propria ideologia le scuole, le università, i giornali, ciò che oggi si direbbero i mass media, è chiaro che a questo punto il soldato più importante non è più il produttore dentro la fabbrica, ma diventa l'intellettuale nella società, che lotta all'interno di queste istituzioni e riesce a portare queste istituzioni dalla parte del suo partito e dell'ideologia del suo partito. Questa ideologia che diventa dominante non è nient'altro che la famosa egemonia. L'egemonia si ha nella società civile quando una certa ideologia diventa l'ideologia dominante grazie proprio a questo lavoro degli intellettuali organici all'interno di questa rete istituzionale di scuole, giornali, università, mezzi di comunicazione di massa, ecc.

È questa la nuova trovata gramsciana per arrivare al potere. Conquista lenta dell'egemonia ideologica nella società e poi attacco allo Stato privato delle sue difese ideologiche, e dunque del consenso sufficiente a tenerlo in piedi. Ma bastava vedere come si era imposta la controrivoluzione fascista per confutare questo schemino idealistico. I fascisti non avevano conquistato prima l'egemonia ideologica e poi il potere politico, ma viceversa.

Questa relazione vuole mettere in rilievo la differenza delle posizioni assunte dal pensiero gramsciano nel tempo, piuttosto che analizzare partitamente le tesi di volta in volta sostenute. Ma è il caso di ricordare che la teorizzazione dell'egemonia da conquistare diventa poi nel dopoguerra, con il famoso partito nuovo di Togliatti, applicazione pratica da parte del PCI. Per sua fortuna, Togliatti si trova la "teoria" già pronta. D'altronde il teorico non poteva che essere Gramsci. Togliatti non aveva dignità teorica di nessun tipo. L'egemonia esercitata prima dal PCI, ora da qualunque cosa sia diventato nasce tutta dall'applicazione, anche con una certa abilità, della teoria gramsciana: il partito deve andare a conquistare i luoghi dove si fa ideologia e attirare gli intellettuali, che sono quelli capaci di fare ideologia e di farla diventare ideologia dominante.

Sappiamo bene i risultati a cui si è giunti attraverso questo seppur lento processo rivoluzionario teorizzato da Gramsci, della conquista della società civile da parte del partito della classe subalterna per mezzo dei suoi intellettuali organici. Non è stata neppure una lenta avanzata verso la possibilità della rivoluzione, ma è stata una neppure troppo lenta ritirata da qualunque possibilità rivoluzionaria, ormai rinnegata anche solo in via ipotetica come astratta possibilità, dai nipotini e dagli eredi di Gramsci e del PCI togliattiano.

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