[…] Ma siccome per l’uomo socialista tutta la cosiddetta storia del mondo non è altro che la generazione dell’uomo mediante il lavoro umano, null’altro che il divenire della natura per l’uomo, egli ha la prova evidente, irresistibile, della sua nascita mediante se stesso, del processo della sua origine. Dal momento che la essenzialità dell’uomo e della natura è diventata praticamente sensibile e visibile, dal momento che è diventato praticamente sensibile e visibile l’uomo per l’uomo come esistenza della natura, e la natura per l’uomo come esistenza dell’uomo, è diventato praticamente improponibile il problema di un essere estraneo, di un essere superiore alla natura e all’uomo, dato che questo problema implica l’ammissione della inessenzialità della natura e dell’uomo. L’ateismo, in quanto negazione di questa inessenzialità, non ha più alcun senso; infatti l’ateismo è, sì, una negazione di Dio e pone attraverso questa negazione l’esistenza dell’uomo, ma il socialismo in quanto tale non ha più bisogno di questa mediazione.
Engels: critica del finalismo hegeliano (Antidühring):
Il passaggio concettuale al mondo organico viene fornito a Dühring dal concetto di finalità. Questo concetto è a sua volta preso a prestito da Hegel che nella "Logica", Dottrina del concetto, passa dal chimismo alla vita mediante la teleologia o dottrina della finalità. Dovunque gettiamo lo sguardo, in Dühring ci imbattiamo sempre in una "credenza" hegeliana che disinvoltamente spaccia per quella sua propria scienza che va alle radici. Andremmo troppo in là se indagassimo qui in che misura sia giustificata ed opportuna l'applicazione delle idee di finalità e di mezzo al mondo organico. In ogni caso, anche l'applicazione della "finalità interna" hegeliana, cioè di una finalità che non è introdotta nella natura mediante un terzo che agisce intenzionalmente, come sarebbe la saggezza della provvidenza, ma invece è insita nella necessità della cosa stessa, porta costantemente in gente non perfettamente ferrata in filosofia, all'interpolazione inconsiderata di azione cosciente e intenzionale. Lo stesso Dühring che, di fronte al più piccolo moto "spiritistico" altrui, cade in un'indignazione morale smisurata, assicura "con decisione che le sensazioni istintive (...) essenzialmente sono state create per la soddisfazione che è legata alla loro attività". E ci racconta che la povera natura "deve sempre ricominciare da capo a mantenere in ordine il mondo oggettivo", e che inoltre ha anche da sbrigare più di un affare "che esige da parte della natura una sottigliezza maggiore di quella che di solito le si concede". Ma la natura non solo sa perché fa or questa or quella cosa, non solo deve sbrigare i servizi di una domestica tuttofare, non solo ha della sottigliezza, ciò che è già un simpatico grado di perfezione nel pensiero soggettivo consapevole, ma ha anche una volontà. Infatti l'ulteriore attributo degli istinti, cioè che essi compiano inoltre reali funzioni naturali, nutrizione, propagazione, ecc., questo ulteriore attributo "dobbiamo ritenere che sia voluto non direttamente, ma solo indirettamente".
Bordiga, stralcio dagli appunti del 1928 (tanto per dare un'idea degli argomenti trattati ai "corsi per prigionieri" a Ustica e constatare la presenza di "entropia" (teoria della termodinamica), "teleologia" (finalismo) e "trapasso da un gruppo all'altro di fenomeni"):
[…]
6) - Origine dell'universo, teoria di Kant.
Accennare le più recenti ipotesi cosmogoniche che tengono conto non solo della gravitanza e del calore, ma delle energie intra-atomiche e della teoria elettrica della materia.
Relatività del movimento, della quiete e dell'equilibrio.
Energia di movimenti e di posizioni.
Perché la relatività è dialettica.
Teoria di Einstein.
Teoria della termodinamica.
Dati moderni sulla conservazione della materia e dell'energia e sugli elementi chimici.
7) - Mondo organico.
Carattere del trapasso da un gruppo all'altro di fenomeni.
Teleologia nel mondo organico (vitalismo e meccanismo).
Darwin e la trasformazione della specie.
Adattamento, lotta per l'esistenza, selezione naturale, ereditarietà.
Origine della specie.
Confini tra mondo animale e vegetale, organico e inorganico; origine della vita.
[…]
RECENTI
Dalla prefazione di:
Principi di una teoria unitaria del mondo fisico e biologico
Luigi Fantappié
Invitato poi dal Prof. Canini a partecipare al Convegno di Scienza e Filosofia (organizzato da lui e dal Prof. Castelli presso la Scuola Normale Superiore di Pisa nei giorni 31 maggio, I e 2 giugno 1943), mi è stato possibile presentare questa mia teoria in un ambiente scientifico-filosofico ricco delle più svariate tendenze ed orientamenti di ricerca, e di dibatterne moltissimi punti con quasi tutti gli illustri colleghi presenti e cioè, oltre che con lo stesso Presidente Prof. Canini, coi Proff. Severi, Rondoni, Carrelli, Puccianti, Persico, Guzzo, Abbagnano e Banfi. Essi stessi potranno constatare come le loro osservazioni, obiezioni, domande di chiarimenti e le nuove questioni poste, a cui potei rispondere solo in modo più o meno sommario nel pomeriggio concesso alla discussione della mia teoria, abbiano contribuito in modo essenziale all’ arricchimento e al completamento della teoria stessa, quale ora viene esposta nel presente lavoro.
Riguardo ai suoi risultati fondamentali, ritengo utile richiamare fin d’ora l’attenzione del lettore sui punti seguenti:
1) Dimostrazione della validità del principio di causalità e del secondo principio della termodinamica, o principio dell’entropia, per tutti i fenomeni detti appunto "entropici" e cioè per la quasi totalità dei fenomeni finora studiati (quelli riproducibili nei laboratori scientifici), come conseguenza necessaria della natura corpuscolare-ondulatoria di tutti i fenomeni naturali e della teoria della relatività ristretta, che vengono oramai ammesse dalla generalità dei fisici, come postulati sperimentalmente provati. Con ciò quei due principi fondamentalissimi, che venivano finora ammessi come altrettanti postulati accanto agli ultimi, vengono ora invece dedotti necessariamente da questi, come teoremi, e quindi spiegati, precisandone esattamente i limiti di validità. In particolare, il principio di causalità, opportunamente precisato, risulta così, invece di una categoria della nostra mente, una legge generalissima dei fenomeni entropici, aventi una effettiva realtà obiettiva.
2) Scoperta di una nuova immensa categoria di fenomeni, quelli "sintropici", del tutto diversi dai precedenti, e identificazione di una parte di essi coi fenomeni più tipici e finora più misteriosi della vita (di cui si viene così ad intravvedere la vera essenza), quali ad esempio la formazione dell’occhio e di tanti complicatissimi apparati degli esseri viventi, il processo clorofilliano, l’ascesa della linfa nelle piante, i fenomeni psichici della personalità umana, ecc.
Tali fenomeni vengono rappresentati e spiegati nel modo più naturale da certe soluzioni delle stesse equazioni ondulatorie fondamentali, che reggono i fenomeni entropici, però di tipo essenzialmente diverso da quello delle soluzioni che rappresentano questi ultimi. È lecito anzi prevedere che questa nuova categoria dei fenomeni sintropici sia molto più estesa, varia e importante di quella dei fenomeni entropici finora principalmente studiati, potendo questi essere prodotti dai primi, ma non viceversa.
3) Dimostrazione della validità, per tutti i fenomeni sintropici (e quindi anche, direttamente, per quelli entropici da essi prodotti), di un principio di finalità, che segue pure ineluttabilmente dagli stessi postulati iniziali sperimentalmente accertati (natura corpuscolare-ondulatoria dei fenomeni, relatività ristretta), con la stessa necessità logica con cui il principio di causalità segue da essi per i fenomeni entropici. Viene con ciò definitivamente eliminata la possibilità (finora sostenuta da molti scienziati, che ritenevano la causalità meccanica unica legge fondamentale dell’universo) che i caratteri finalistici evidentissimi in molti fenomeni (come quelli della vita sopra ricordati) siano soltanto un’apparenza, un’illusione dei nostri sensi, e non una realtà obiettiva, poiché ora il dato evidente dei sensi viene corroborato dalla teoria, acquistando la sicurezza di una necessità matematica.
4) Infine, un altro risultato importantissimo consiste in ciò: mentre finora si era ammesso senz’altro, senza nemmeno postularlo chiaramente (in modo implicito veniva postulato attraverso il principio di causalità) che tutti i fenomeni naturali fossero da noi riproducibili, con difficoltà di solo ordine tecnico, ma non di principio, con la presente teoria invece ci si rende conto della possibilità, anzi della effettiva esistenza in natura, accanto ai fenomeni riproducibili, causabili (entropici), di fenomeni di un’altra specie del tutto diversa (fenomeni sintropici), che possiamo osservare, ma non riprodurre a nostro piacimento. Ciò comporta evidentemente un cambiamento radicale dell’idea che si aveva finora dell’uomo, del suo sapere e della sua effettiva potenza, nel complesso dei fenomeni dell’universo. Risulta infatti che tutta l’immensa mole del nostro sapere scientifico, accumulato nei tre secoli da Galilei ad oggi, riguarda principalmente i fenomeni da noi riprodotti nei laboratori (in base al "metodo sperimentale" di Galilei, che è stato finora il fondamento della ricerca scientifica), e quindi i soli fenomeni entropici, cioè una parte limitata dei fenomeni effettivamente esistenti, mentre per quanto riguarda l’altra parte, ben più importante, dei fenomeni sintropici, con la presente teoria si deve constatare non solo che la nostra conoscenza inizia solo ora, ma che su essi, né gli uomini, né alcun altro agente naturale non hanno né potranno mai avere un potere diretto di produzione o di modificazione. Questi ultimi fenomeni, infatti, possono al più essere influenzati solo indirettamente dai fenomeni entropici concomitanti, da noi opportunamente disposti, ma nel loro complesso costituiscono una parte importantissima dell’universo che è sottratta al nostro dominio e al nostro arbitrio, il quale dunque non è affatto limitato dalle sole difficoltà tecniche e possibilità materiali, ma è limitato, per principio, alla sola parte entropica dell’universo, la quale è ben lungi dal costituirne la totalità, come si era finora creduto.
Per rendere accessibile il lavoro anche ai non matematici (biologi, filosofi, ecc.), e in generale a ogni persona che abbia soltanto una buona cultura generale, ho cercato di tradurre in termini correnti anche la parte più strettamente matematica (paragrafi 3 e 4 soltanto), rimandando le poche formule nelle note a piè di pagina. È però da osservare che tale parte matematica, se è necessaria per la dimostrazione rigorosa e veramente persuasiva di tutte le conclusioni che si vengono poi a trarre dai postulati sperimentali, generalmente ammessi dai fisici, non è affatto indispensabile per la sola comprensione di quanto segue. Essa potrà quindi essere tralasciata dal lettore, se egli la troverà un po’ pesante, qualora ne accetti senz’altro le conclusioni, che sono poi molto semplici, cioè che tutte le vere leggi della natura sono simmetriche rispetto ai due versi del tempo e che tutti i fenomeni dell’universo sono costituiti da onde sferiche, le quali, per la detta simmetria, possono essere non solo divergenti (fenomeni "entropici"), come quelle comunemente osservate, ma anche "convergenti" (fenomeni "sintropici"), e sono anzi i fenomeni di questo secondo tipo quelli sostanzialmente nuovi che si vengono a scoprire, e che sono particolarmente studiati nel 2° e nel 3° capitolo.
Da Conferenze scelte di Luigi Fantappié
SINTESI DI UN FINALISMO FISICO INTEGRALE
(1956)
Comincio col leggere una lettera di S.E. Severi, che era stato invitato a questo convegno e che non vi ha potuto partecipare, perché attualmente in Russia per un congresso scientifico.
Egli scrive:
«Circa il problema del finalismo sono molto imbarazzato a portare un giudizio sopra questo, che qualcheduno, anche a me molto vicino, chiama la scoperta del finalismo scientifico. La scienza cessa di essere scienza quando i suoi risultati non esprimono risultati causali. Di finalismo si può parlare anche nella scienza, ma soltanto nel senso metafisico, non avendo la pretesa di dimostrare alcunché di positivo in proposito. E ciò perché: 1) nell’ordine logico si possono bensì dedurre conseguenze dall’ipotesi che certi fatti siano subordinati a un finalismo, ma questa subordinazione resta pur sempre un’ipotesi non scientificamente dimostrabile fuori del terreno puramente logico; e d’altronde questo terreno non è dimostrabile per la contraddizione che non lo consente, essendo essa medesima nulla più che una ipotesi; 2) tanto meno poi è dimostrabile il finalismo sul terreno sperimentale, perché istituire una esperienza qualsiasi non ha senso, se non si fissano a priori le premesse dell’esperienza, le cause, e non si attendono dall’esperienza gli effetti di tali cause. Si tratta di un atteggiamento mentale, che corrisponde comunque alla mia profonda convinzione che non è di oggi. Il finalismo è insomma, secondo me, un atto di fede, non un atto di scienza».
Il prof. Severi, dunque, si riferisce principalmente alle mie opinioni ed io gli sono grato per avere espresso così chiaramente quello che pensa al riguardo; giacché mi dà la possibilità di potergli rispondere adeguatamente.
Ritengo opportuno distinguere quello che dirò, in due punti. Prima di esporre più dettagliatamente quello che si possa intendere anche nelle scienze come fine, intendo precisare sia il concetto di fine, sia poi come questo concetto, così precisato, abbia un grande valore per l’uomo. Quindi cercherò di chiarire i due concetti fondamentali: concetto di fine e concetto di valore di questa finalità.
Intendo così rispondere personalmente ai colleghi fisici e matematici; gli altri colleghi, specialmente i filosofi e i giuristi, mi perdoneranno se cercherò di rispondere sia pure senza formule, soltanto alle osservazioni che sono state mosse nel terreno fisico.
Esaminiamo un po’ come si è sviluppata la fisica classica: credo che si possa dire e senz’altro avrò consenzienti su questo punto i colleghi fisici che, in fondo, nella meccanica dei corpi rigidi o, più generalmente, in quella che i fisici chiamano la meccanica dei sistemi ad un numero finito di gradi di libertà, la fisica classica riesce a descrivere l’evoluzione di un sistema senza parlare, in sostanza, né di causa né di fine. Credo di poter sfidare chiunque a trovare un trattato di meccanica nel quale si usi questo concetto e questa parola.
Ciò è abbastanza naturale, perché in questa parte della scienza fisica la descrizione dei fenomeni viene fatta da certe equazioni differenziali «ordinarie» come si chiamano (prego i non competenti di volenm scusare per questi termini tecnici), le cui soluzioni sono determinate dal valore di certi numeri, e precisamente da quelle che si chiamano le costanti arbitrarie: per esempio i valori che determinano le posizioni e le velocità dei corpi che formano il sistema. Ora, noti questi valori (che sono in numero finito, perché il sistema ha un numero finito digradi di libertà), resta determinato da dette equazioni sia l’andamento futuro, sia l’andamento passato.
Quindi, se si volesse introdurre il concetto di causa e il concetto di fine, si potrebbe dire che l’uno è perfettamente equivalente all’altro; si può dire che la situazione iniziale determina le situazioni future oppure che la situazione iniziale è così, perché dal passato si è già costruita in questa maniera, cosa questa equivalente ad affermare: «i fatti passati si sono svolti in vista di questo fatto futuro».
Una finalità vien fatto di trovarla nelle considerazioni che ha svolto così bene il nostro collega Danusso e vien fatto di ritrovarla anche nella pratica. Cioè si può parlare eventualmente di finalità nell’ultima parte della meccanica, quando si tratta di pome i princìpi sotto una forma particolarmente agile, e precisamente sotto la forma cosiddetta variazionale.
Si vede allora che questi princìpi si possono tradurre con un’espressione matematica la quale può interpretarsi così: tutto si svolge in natura come se questa cerchi di rendere minima, stazionaria, una certa espressione. E’ l’interpretazione diJacobi, ed è opportuno ricordare che tali considerazioni sono state soggette a quella stessa critica che viene ora mossa alla finalità. Si diceva infatti che tale interpretazione è una formulazione finalistica estranea alla scienza. Ora è vero che tale formulazione (che ha una data abbastanza lontana) può forse, con ragione, considerarsi come una finalità soggettiva, cioè come una finalità che noi inseriamo nella formulazione delle leggi naturali; ciò però non vuol dire che non sia importante, perché, come io credo, essa ha un significato di conoscenza e sapienza.
L’uomo non si limita a descrivere ed a conoscere; l’uomo si inserisce anche nell’universo, anzi ha già addosso l’universo. Ora per la descrizione tutto è bivalente, e quindi possiamo usare sia la descrizione della meccanica dove non c’è né fine né causa, sia la formulazione variazionale. Per
l’azione invece l’avere una formulazione così concisa, così pregnante delle leggi della natura ci rende possibile usame in modo abbreviato e in modo che direi anche di urgenza.
Quindi il fatto che la conoscenza della natura venga tradotta in un linguaggio o in un altro e «versata» in certe categorie o in certe altre (come la finalità delle formulazioni variazionali), non è indifferente per l’agire umano. Si presentano qui le due facce della conoscenza: quella dell’atteggiamento passivo dell’uomo, che riceve le informazioni della natura, e quella dell’azione che ne costituisce l’atteggiamento attivo.
Ritengo che i fisici non ne disconoscerarino l’importanza, perché tra i nostri allievi ci sono anche gli ingegneri, i quali, un po’ come i clinici nella medicina, useranno di questa conoscenza per certi fini che si presentano nel campo dell’azione umana.
Quando passiamo dalla meccanica dei corpi rigidi o dai sistemi con un numero finito di gradi di libertà, alla meccanica, o meglio, alla dinamica dei mezzi continui - cioè dei sistemi che sono determinati da infiniti valori (per esempio il moto di un liquido o di un gas, il quale è definito assegnando il moto delle infinite particelle infinitesime che compongono quel liquido o quel gas) - si intuisce che il problema è molto più complesso.
Non possiamo dare, per fissare lo stato, un numero finito di costanti, ma dobbiamo dare quelle che si dicono funzioni arbitrarie, cioè un complesso di infiniti valori: ossia gli infiniti valori che le costanti arbitrarie (in numero infinito) assumono ad una certa distanza iniziale. C’è qui, anche concettualmente, una differenza sostanziale in confronto con la meccanica dei sistemi con un numero finito di gradi di libertà. Vediamo meglio in che consiste questa differenza.
Si può dire che la descrizione di un sistema continuo nella fisica (dinamica) classica viene data da equazioni differenziali, che non sono più ordinarie, ma a derivate parziali. La differenza può essere apprezzata in pieno solo dai tecnici, ma anche gli altri possono rendersene conto. Se io disponessi dei valori iniziali, potrei dire che essi determinano l’evoluzione del sistema futuro ed anche quella del passato; ora invece, poiché si tratta di funzioni arbitrarie, l’assegnare i valori iniziali non è così facile come per un sistema ad un numero finito di gradi di libertà, perché questi valori iniziali non sono in numero finito, ma infinito.
A questo punto si introduce naturalmente una causalità (causa od eventualmente fine) non più in senso soggettivo, come potrebbe essere la formulazione variazionale, ma in senso oggettivo, cioè come qualche cosa che si potrà distinguere dalla formula stessa del fenomeno.
Prendiamo un esempio: quello del moto continuo che si ha nella perturbazione ondosa. Se butto un sasso in uno specchio d’acqua e l’acqua si perturba, questo fenomeno fisico viene descritto dalla cosiddetta equazio
ne a derivate parziali delle onde, la quale rappresenta anche il moto delle onde sonore, delle onde elastiche ed anche di quelle elettromagnetiche; si può dire che nei corpi omogenei questa equazione è sempre la stessa. In essa c’è una certa espressione derivata, come si dice, la quale è uguagliata ad un termine detto termine noto, che rappresenta la perturbazione.
Qui si distinguono subito due tipi di soluzioni. Se manca la perturbazione, il movimento dell’acqua era nullo prima, resta nullo anche dopo, e le equazioni ce lo dimostrano. Se invece il termine noto ad un certo momento è diverso da zero, cioè rappresenta l’intervento di una perturbazione (per esempio quella dovuta ad un sasso che cade), anche la soluzione, prima nulla, cessa di essere nulla in una zona di spazio e di tempo che parte dal punto e dal tempo in cui si trovava a zero.
Questo fatto si esprime nel tempo dicendo che, in sostanza, la soluzione è diversa da zero nel cono del futuro: se facciamo le successive sezioni spaziali ne vengono tante sfere, sempre più larghe; queste sfere non ci danno altro che il fronte d’onda, cioè il confine che separa la zona perturbata dalla zona perturbabile.
Se potessi ora disporre di valori iniziali, cioè se potessi creare ad un certo momento una soluzione che assuma con le sue derivate prime certi valori dentro una certa sfera, conoscerei l’andamento del fenomeno, cioè l’andamento della soluzione delle onde, anche quando queste si dilatano ovvero si propagano; ma potrei sempre interpretare il fenomeno ritenendo che queste onde siano partite da un certo punto, cioè da una certa sorgente.
Ci sono quindi due sole possibilità: o la sorgente c’è o non c’è (se non c’è, deve esserci un’altra onda compensatrice che arriva). In realtà è difficilissimo far vibrare un’onda così fatta ad un certo istante, perché se prima non c’era niente, io non posso correggere questo stato di cose; dunque non posso creare dei valori iniziali: quello che posso fare è creare delle sorgenti. Posso, per esempio, buttare un sassolino, accendere un fiammifero, ecc.
Esiste dunque qualche cosa che dipende dal nostro intervento, con cui possiamo in certo qual modo spiegare il fenomeno che segue. Se si introduce una sorgente, la soluzione che c’era prima, e che era nulla, diventa diversa da zero e rappresenta un’onda divergente. Se invece questa sorgente non viene introdotta, allora la soluzione resta sempre nulla. Quindi, per esempio, se l’acqua era calma, resta calma; allora possiamo dire che questa sorgente è la causa del fenomeno, perché se si pone questa sorgente segue il fenomeno, se non si pone non segue. Riprendiamo allora qui la definizione classica di Galilei che definisce così la causa: causa è quella che posta segue l’effetto e levata manca l’effetto.
Quello che si può porre e levare, è la sorgente dalla quale, se posta, segue l’onda, ed in caso contrario l’onda non segue; quindi è naturale, e giusto secondo la definizione di Galilei e secondo senso comune della parola causa,
chiamare questa sorgente la causa delle onde che si sono formate. E’ una causa che precede l’onda. L’onda che arriva in un certo punto, arriva con un certo ritardo, e quindi questa soluzione si chiama dei potenziali ritardati. Il ritardo è dovuto al tempo che la velocità di propagazione ha voluto per percorrere il tratto di distanza dalla posizione in cui c’era la sorgente alla posizione prescelta.
Quindi la definizione di causa si presenta anche nella meccanica classica in modo plausibile, ed è qualche cosa di obbiettivo: è la sorgente. Possiamo individuare la sorgente, perché non è più, come nelle formulazioni variazionali, un qualche cosa che inseguiamo, un’interpretazione che non vediamo, ma è un qualche cosa che possiamo leggere, non tanto nella equazione, bensì nella particolare soluzione di quell’equazione.
Accanto a queste soluzioni, che chiamiamo dei potenziali ritardati e che rappresentano onde divergenti, si possono considerare matematicamente (si tratta soltanto di possibilità) altre soluzioni che sono state considerate già da tempo a cominciare da Bonitelli.
Tali soluzioni sono individuate matematicamente assegnando i valori iniziali non prima, ma dopo la sorgente. Si ha cioè una sorgente, un termine noto diverso da zero nello spazio-tempo che rappresenta una perturbazione proveniente dal mezzo. Consideriamo allora quelle soluzioni, se esistono, che sono nulle (con le derivate prime) dopo la sorgente.
Ora si vede che esse esistono e sono diverse da zero (è quello che si chiama il cono del passato nello spazio-tempo e che sono date, nello spazio, da sfere nel cui interno c’è il mezzo perturbante). Invece di dilatarsi, queste sfere si contraggono; quindi, in sostanza, queste soluzioni, se rappresentassero un fenomeno, rappresenterebbero una perturbazione ondosa, la quale, invece di propagarsi per onde divergenti, si propagherebbe per onde convergenti, fino ad arrivare alla sorgente, e questa, invece di emettere le onde, le riassorbirebbe e pertanto sarebbe una sorgente negativa.
In questo caso la sorgente si presenterebbe dopo il fenomeno, ovvero il fenomeno si presenterebbe con un certo anticipo rispetto alla sorgente. Perciò queste soluzioni si dicono dei potenziali anticipati. Se non ci fosse il termine noto, la soluzione, che è nulla ad un certo istante, sarebbe nulla anche prima e dopo.
Quindi, se queste onde convergenti esistono (si tratterà di vedere se ci sono o no), la loro esistenza è dovuta al fatto che è presente questo termine noto, che viene dopo rispetto al fenomeno. Avremmo allora qui veramente fenomeni di struttura piuttosto diversa.
L’esistenza di potenziali anticipati era già nota da tempo; tali potenziali furono però sempre scartati dai fisici, perché si diceva che questi fenomeni non si presentano mai.
Ciò si può giustificare in un certo senso, perché queste equazioni rappresentano una parte veramente piccola della fisica classica, e perciò lo scandalo di soluzioni come queste avrebbe sempre avuto un interesse limitato.
Quando, invece, si fa la meccanica ondulatoria, lo scandalo diventa generale; quindi valeva la pena di indagarlo in proposito e ho indagato. Quello che ho aggiunto è l’interpretazione di queste onde, cioè il leggere nelle formule la struttura del fenomeno. Perché altro è leggere semplicemente delle formule matematiche, altro è interpretarle al di là della pura tecnica matematica.
Poincaré non aveva analizzato questi fenomeni; diceva soltanto che queste onde non ci sono e che non ce ne possono essere: io ritengo che questo sia un pregiudizio. Anche molti colleghi di oggi, matematici e fisici, compreso Severi, hanno l’idea che questi fenomeni non esistono. Senonché quando si formulano i fenomeni della fisica usando di tutte le nostre conoscenze, e non ci si limita ad una descrizione approssimata, si arriva alla conclusione che sono vere allo stesso tempo la struttura ondulatoria e quella corpuscolare e che è vera la relatività, almeno quella ristretta. (Queste scoperte ci hanno già dato molti frutti: il microscopio elettronico ne è la miglior prova).
Ora, se si tiene conto di questi due elementi, si vede che tutte le equazioni rappresentanti le leggi dell’universo debbono avere questa struttura ondulatoria, debbono cioè possedere il carattere matematico di avere due tipi di soluzioni: uno che rappresenta onde divergenti e uno che rappresenta onde convergenti. A questo punto io mi sono domandato: è possibile che questo fatto, che adesso è generale in tutta la fisica da noi conosciuta, non celi effettivamente qualche altro fenomeno? Storicamente sappiamo che tutte le volte che la matematica ha previsto la possibilità di entità nuove a coloro che ne ricercavano l’esistenza, queste si sono poi rivelate corrispondenti a quelle previste dalla matematica.
Vedremo ora, in risposta a Puppi e padre Galli, come si identificano tali fenomeni. La prima questione, diceva padre Galli, è che «non basta provare la possibilità, bisogna provare la realtà». Credo che da un secolo a questa parte il mestiere normale dei fisici sia stato proprio quello di provare la realtà di cose che sono state prima «previste» dall’analisi matematica, facendo vedere cioè che ci sono fenomeni che presentano i connotati già delineati dall’analisi.
Il mio contributo consiste nell’interpretare i potenziali anticipati, cioè nel far vedere quali connotati dovrebbe avere un fenomeno che fosse rappresentato da una di quelle soluzioni strambe e difficili che i fisici volevano rigettare. Qui l’analisi matematica non dice niente; perciò sono ricorso ad un artificio. Ho osservato che nella relatività, se si cambia il verso del tempo sia nella equazione che nella soluzione, tutto resta inalterato, cioè questa nuova soluzione soddisfa non ad una equazione diversa ma alla stessa; quindi essa rappresenta pure una soluzione. Ma, rovesciando il tempo, quella soluzione che era diversa da zero nel cono del futuro, si ribalta ed è, ora, diversa da zero nel cono del passato. Quindi questa è una soluzione dei potenziali anticipati. Viceversa, se si cambia il segno del tempo, una tale soluzione si muta in una soluzione dei potenziali ritardati.
Consideriamo allora un fenomeno di quelli noti che rappresentano onde divergenti e che io chiamo fenomeni entropici e immaginiamo di cinematografarlo, e poi di proiettarlo a rovescio. Così facendo, avremmo l’immagine di un fenomeno pazzesco, ma offrirebbe tutti i connotati di un fenomeno dell’altro tipo, cioè di quelli che io chiamo sintropici. Esaminiamo il sassolino che cade: se lo proiettiamo a rovescio, vedremo le onde, che non sono più divergenti ma convergenti, spingere il sassolino fino a riportarcelo in mano.
Ora sfido chiunque a negare che, se un fenomeno di questo tipo esistesse, ognuno di noi direbbe che il fenomeno si è svolto proprio in modo da far risalire il sassolino in mano nostra. Nell’equazione il sassolino che risale sarebbe la sorgente negativa. Ora questa sorgente negativa, che segue il fenomeno nel tempo, si presenterebbe come un qualche cosa che provoca il fenomeno, come la sua ragione, ma non in qualità di causa, bensì di fine verso cui tende il fenomeno: il fenomeno esisterebbe in vista di qualche cosa che è dopo di lui. Mi pare naturale indicare la sorgente negativa come il fine del fenomeno, ed il fine di questo fenomeno come finalità. La descrizione precisa viene fatta dalle equazioni; però pur nella complicazione degli argomenti matematici ci sono dei punti di riferimento abbastanza semplici e abbastanza facili da afferrare, che possono ricondursi alle nozioni di causa e fine.
Come è naturale chiamare nel primo caso il sassolino che cade causa dell’onda che si propaga, così mi sembrerebbe naturale dire, nel secondo caso, che l’onda tende al fine di far risalire il sassolino. Forse i filosofi vorranno chiamarla causa finale ecc.: ma non voglio aggiungere altro in merito.
DANUSSO:
L’invito del prof. Fantappiè ai Colleghi perché concorrano a sviluppare l’ordine generale di pensieri che egli persegue, trova riscontro nella mia analoga sollecitazione perché collaborino alla comparazione delle scienze. Comprendo quindi il suo desiderio, ed intervengo brevemente sulla questione del fine considerato come stimolo susseguente che attrae a sé lo svolgersi del fenomeno, in contrapposto allo stimolo causale che lo precede e lo sospinge e in ordine alla grave obbiezione di principio qui proposta: come possa il fine futuro, quindi non ancora esistente, influire sul fenomeno già in atto nel suo divenire.
A me pare che l’invarianza delle equazioni fondamentali rispetto al segno del tempo, proposta da Fantappiè alla nostra considerazione, autorizzi a concludere soltanto per un’armonica convivenza di elementi iniziali, intermedii e terminali senza attribuzione motrice ai primi piuttosto che agli ultimi; e che, se si vuol discriminare fra causalità e finalità, la questione si semplifichi ritenendo tutti i fenomeni come causati, ma da cause per legge di natura ordinate al fine.
CARNELUTTI:
In fondo il modo è circolare e non si sa mica se il fine sia davanti o di dietro, vale a dire se il fine raggiunga la causa o la spinga. Il fine agisce come principio.
FANTAPPIÉ:
Le nozioni che ho esposto nascono in modo assolutamente preciso dalle formulazioni matematiche e da quello che ci dice la fisica: quindi hanno un carattere assolutamente obbiettivo, nel senso che possiamo chiamare fenomeni entropici, cioè prodotti da una causa, quelli rappresentati dalle onde divergenti (ed in questo caso chiamiamo causa la sorgente positiva delle onde divergenti), e fenomeni sintropici quelli rappresentati da onde convergenti dopo le quali il fenomeno cessa; il fenomeno ha un passato, ma si esaurisce quando ha raggiunto il segno.
Questi fenomeni sintropici, rappresentati dalle onde convergenti e quindi individuati da potenziali anticipati, si presentano sotto il principio di finalità, e quindi il fine viene definito in modo obbiettivo dalla sorgente che adesso è una sorgente negativa, è cioè quel termine noto per cui il fenomeno è diverso dallo zero.
L’accostamento tra causa da un lato e fine dall’altro risponde abbastanza all’uso delle parole, perché le cause che così vengono definite rispondono alla definizione di Galilei, e i fini rispondono abbastanza bene alla nozione di fine riscontrata nello spazio tempo, cioè a quella dei fini materiali.
Consideriamo ora il punto a cui è arrivato Polvani. La fisica di oggi - ha detto - è condotta a ritenere che la legge più generale sia proprio la legge del caso. Ora che cosa è questa legge del caso? In fondo, la scoperta della meccanica ondulatoria consiste nell’indicarci come misurare, come legalizzare il caso. Quindi il punto di arrivo di Polvani coincide precisamente col punto di partenza delle mie considerazioni.
La legge del caso è stata formulata nella fisica recentissima dal ‘25 in poi, anzi un po’ prima da De Broglie. Prima De Broglie, poi Schròdinger, Dirac e tutti gli altri ci hanno fatto vedere che la legge del caso si formula assegnando una funzione di stato che soddisfi a certe equazioni di carattere
ondulatorio. Ora, quando si tenga conto della relatività, necessariamente le equazioni che nascono formulando la legge del caso per i vari fenomeni, hanno sempre il carattere di equazioni di tipo iperbolico, cioè equazioni con i due tipi di soluzioni. Il fatto di essere di tipo iperbolico dipende soltanto dalla struttura di quello che si chiama il cono caratteristico. (Così il cono caratteristico della mia equazione è esattamente lo stesso dell’equazione di Ampère). Quindi la propagazione delle onde di un sistema come quello da me considerato, è esattamente la stessa di quello di detta equazione.
CARNELUTTI:
Prof. Fantappiè, naturalmente questo è un dialogo tra te e alcuni; perché io per esempio appartengo alla fanteria e non volo a queste altezze. Vorrei domandare solo questo: la legge del caso, quella che voi chiamate del caso e della quale forse noi abbiamo qualche sentore sotto un nome diverso, èuna legge come le altre, nel senso che tende a esprimere o a rappresentare una regolarità?
FANTAPPIÈ:
Sì.
CARNELUTTI:
Allora va bene! Perché Polvani ha fatto i funerali del caso.
FANTAPPIÈ:
Tengo a precisare. C’è una differenza notevole e metterla in evidenza è a vantaggio anche di una regolarità della probabilità, cioè della frequenza: quindi quello che essa prevede e dà con regolarità, è la densità di probabilità. Questo è sufficiente per conoscere tutto quello che è stato detto macroscopico.
Nella fisica classica tutte le leggi erano ferreamente deterministiche; quindi ogni intervento dell’uomo per cui si riconoscesse il libero arbitrio, doveva necessariamente violare le leggi fisiche. Ora invece, allo stato attuale delle conoscenze, il fatto che la legge non sia più ferrea, ma che nell’elemento minimo ci dia una probabilità, spiega come ci possa essere un libero arbitrio umano, perché questo si traduce nel mondo fisico con un gioco di relais (nel cervello avviene qualche cosa, per cui si sceglie una via o l’altra), senza prender di mira nessuna legge fisica.
In altri termini, mentre nella fisica classica la possibilità del libero arbitrio doveva postulare una sospensione delle leggi fisiche e quindi verificarsi attraverso un miracolo continuo, nella fisica moderna essa non viene considerata più come violazione di legge, ma, se volete, come una eccezione alla legge, ad una legge che vale generalmente, ma non nel caso particolare.
In sostanza il crescere dell’entropia è legato, quando si parla di probabilità, al fatto che nei potenziali ritardati queste onde si dilatano, e in un ambiente chiuso tendono a dar luogo ad una perturbazione pressoché uniforme, quindi si va verso un eguagliamento generale.
Questo si può esprimere nel fatto che cresce l’entropia, che dà la misura, in sostanza, del livellamento. Invece per i potenziali anticipati, in cui le onde si contraggono, l’ampiezza della perturbazione si condensa attorno a certe figurazioni eccezionali che esprimono proprio quell’anticaso di cui parlava Lecomte de Noùy e che sembra proprio verificarsi nella vita.
Esistono in realtà i potenziali anticipati? Sì: sono questi i fenomeni sintropici. Ritengo quindi di aver risposto così a Severi, a padre Galli, a Puppi e a tanti altri. I fisici hanno sempre provato la realtà di certe entità previste. Quando Maxwell previde l’esistenza di onde elettromagnetiche, nessuno le aveva mai sperimentate. E si trovò poi che certi fenomeni fisici avevano i connotati previsti. Dato che questi connotati coincidevano con quelli previsti, si disse: ecco i fenomeni elettromagnetici! Qualcuno potrebbe dire che i fenomeni, pur avendo gli stessi connotati, non erano quelli che si ricercavano. Ma il fisico ha da vedere solo se i connotati coincidono o no.
I connotati dei fenomeni sintropici sono i seguenti: a) obbediscono ad un principio di finalità, cioè si evolvono secondo una finalità; b) invece di andare verso il livellamento vanno verso una differenziazione sempre più spinta; c) non sono riproducibili in laboratorio perché non sono causabili. Poiché in laboratorio si osservano soltanto i fenomeni dei potenziali ritardati e i fenomeni della vita non sono producibili in laboratorio, è venuto ben naturale di dire: ecco dei fenomeni che potrebbero essere sintropici!
Consideriamo l’embrione: esso è relativamente semplice, poi diventa un essere molto complicato, dove si nota una differenziazione estremamente spinta. A me sembra che questi connotati, comunque li vogliate interpretare, corrispondano esattamente a quelli che si prevedevano.
Questa identificazione è stata valida quando si sono prese in considerazione le onde elettromagnetiche, i raggi catodici e l’elettrone positivo; anche l’esistenza dell’elettrone positivo è stata prevista mediante i potenziali anticipati. Sono infatti proprio i potenziali anticipati che hanno permesso di giustificare la presenza di una particella con energia negativa e carica positiva.
Dico di più. De Broglie, a cui io avevo sottoposto la cosa, mi ha scritto una bella lettera dove mi dice che il fisico americano Feynman introduce quasi sistematicamente i potenziali anticipati; quindi si vede che anche in fisica questi fatti sono stati accertati. E’ significativo che un fisico della fama di De Broglie, come anche i più grandi fisici della Germania, non si siano
scandalizzati per questi potenziali anticipati. Ritengo quindi che anche i fatti ci presentino i fenomeni della vita come fenomeni che hanno questi connotati, per cui si possa dire che nella vita vi sono effettivamente questi fenomeni sintropici, senza voler escludere che nei fenomeni vitali ci sia un groviglio estremo di fenomeni entropici e sintropici.
Anche in America c’è stato uno sviluppo notevole di tentativi per spiegare la vita con espressioni matematiche mediante la cibernetica, che studia la costruzione di apparati che risolvono il problema per raggiungere automaticamente un fine già predisposto. Ora molti degli istinti degli animali, per esempio tutti i sistemi automatici di reazione, hanno un carattere finalistico, ma analogo a quello degli apparati cibernetici (i quali nelle loro varie parti sono esattamente tutti entropici), che è lo scatto di un meccanismo. Però l’intero meccanismo presuppone un costruttore e qui andiamo nell’Universo.
La difficoltà sta in questo, che negli esseri viventi questi fenomeni entropici e sintropici si intrecciano l’un l’altro e che l’uomo vuol raggiungere dei fini e li può raggiungere producendo delle cause; da questo intersecarsi di cause e fini viene fuori la meraviglia dell’Universo. Perciò nello studio di questo complesso meraviglioso conviene avere ambedue questi strumenti, queste categorie di fenomeni entro cui versare la realtà; perché la descrizione completa, data dalla matematica, sarebbe troppo complicata: per una sola cellula risulterebbe spaventosamente complessa.
Veniamo all’altra parte: il valore del fine.
CARNELUTTI:
Vorrei darti atto, come tu sei andato in cerca di conferme fisiche in quella che è la tua intuizione, la tua espressione matematica; dovrei darti atto che c’è almeno un congressista, e credo che ce ne siano anche degli altri, i quali mi confermano l’esistenza nel campo sociale dei fenomeni sintropici, e vorrei ripetere qui la mia ferma convinzione che il diritto non sia altro che un sistema di potenziali anticipati.
FANTAPPIÈ:
Sento ciò con tanto piacere e aggiungo solo questo. Quando si passa nel piano umano, ritengo che la parola valore non abbia senso se non in uno schema finalistico. Un qualche cosa ha valore in quanto c’è un fine; se non ci sono fini, non ci sono valori. Il problema che si pone è questo: come trasportare queste considerazioni matematiche sul piano dell’uomo. Evidentemente qui le equazioni non ci dicono niente. Se l’uomo lo consideriamo soltanto come animale, con quelli che sono i suoi appetiti, allora si può pensare che tutti i fini presenti nello spaziotempo possano considerarsi in questo schema; ma noi sappiamo che l’uomo ha anche altri fini non localizzabili nello spazio e nel tempo. La conclusione a cui si arriva èquesta: lo schema a cui ho accennato non basta per l’uomo; dunque l’uomo è attratto anche da fini che non ci sono nello spazio-tempo.
Approfondiamo ora questo punto. Si deve intanto constatare che il modo di funzionare dell’uomo ha appunto tutti i caratteri dei fenomeni sintropici, perché nell’uomo esiste una finalità, e perché in esso si va verso la differenziazione, dato che anche nel mondo dello spirito non si va verso la moltiplicazione quantitativa, ma verso la ricchezza dei motivi. Di più, il fatto che i fenomeni sintropici non siano producibili ci dice che queste attrazioni dell’uomo verso un fine non sono prodotte da noi, ma ci vengono dal di fuori. Da dove? Evidentemente da entità reali. Se queste entità sono materiali, si possono descrivere con le equazioni; se però definiamo in generale fenomeni sintropici i fenomeni di ogni carattere, anche spirituale, che soddisfano a queste caratteristiche di finalità, differenziazione e non producibiità, è necessario che questi fini esistano non solo nel passato e nel futuro, ma occorre ampliare ancora la considerazione della realtà. I finì che muovono l’uomo sono al di fuori dello spazio-tempo: bisogna quindi andare verso l’extratemporale e l’extraspaziale e quindi occorre considerare la realtà come un universo più ampio di quello sensibile.
Da cinque o sei anni sto sviluppando, in prosecuzione alla mia teoria sui fenomeni sintropici, una teoria generale degli universi possibili. Con i mezzi matematici è possibile descrivere abbastanza bene questi universi che si presentano in catena via via più ampi. Si può così pensare di arrivare ad un universo della realtà totale. Sono convinto che questi universi esistono effettivamente: sono gli universi dove esistono i fini dell’uomo: fini di eguaglianza, di libertà, filantropici e poi il fine ultimo, Dio, che è il fine per eccellenza.
Allora si presenta spontaneo un allargamento del nostro panorama, per cui la realtà si estende non soltanto al presente, al passato e al futuro, cioè non è più limitata allo spazio-tempo, ma si estende anche agli universi dove ci sono tutti gli altri fini e dove quindi è situato l’uomo. E’ infine da osservare, per quanto riguarda il mondo sociale, che il problema della felicità umana non ha senso se non in uno schema finalistico. Si può dimostrare scientificamente che in questo caso la legge generale della finalità è la legge dell’amore.
Confesso che questa è stata per me una ragione determinante per confermarmi in quel cristianesimo in cui sono credente, appunto perché ho avuto modo di trovarne attraverso la scienza una completa giustificazione, sostanziale e profonda. Mi pare che così si delinei un quadro di unificazione completa, per cui mi permetto di richiedere l’aiuto dei colleghi, giacché in questo mondo di dispersione, di frantumazione e, direi, di scheggiamento del sapere, queste considerazioni che nascono dalla scienza possono dare l’imbastitura del quadro stesso.
Questo è quello che sto tentando di fare, naturalmente con infinite mende che bisognerà correggere, per poi indicare forse in seguito un abbozzo di un’opera di riunificazione che non sia però soltanto una raccolta enciclopedica di nozioni: queste ci serviranno come spunto per portarci ad una visione unitaria, che anche oggi io ritengo assolutamente possibile. Se prendiamo le cose essenzialissime, noi potremo rmunirle in un tutto organico e coerente. F con questo credo di aver finito.
Da L’informazione dal futuro
(Un capitolo di L'evoluzione dopo Darwin, di S. Arcidiacono)
Il famoso astronomo britannico Hoyle (1) si chiede da dove provengano le sequenze di informazioni codificate dal DNA e, per cercare di comprendere ciò, ritiene che occorra riferirsi al concetto del senso del tempo. Di solito, egli dice, si considera il senso del tempo dal passato verso il futuro, ma occorre dire che c’è un senso del tempo opposto, che va dal futuro verso il passato. Questo senso del tempo è valido quanto il primo, ma è stato fino ad oggi rifiutato dagli scienziati. Per Hoyle tale rifiuto è ingiustificato: la meccanica quantistica è basata sulla propagazione delle radiazioni dal passato al futuro e porta solo a medie statistiche e non a previsioni sulla natura di eventi quantistici individuali. Essa, quindi, conduce inevitabilmente alla degradazione, alla senescenza, alla perdita di informazione nella propagazione delle radiazioni. In biologia questa situazione è capovolta, poiché quanto più gli organismi viventi si sviluppano, tanto più diventano complessi, guadagnando informazione piuttosto che perderla. Se il consueto senso del tempo dal passato al futuro fosse alla radice della biologia, la materia vivente sarebbe portata verso la disintegrazione e la rovina. Poiché questo non succede, dobbiamo concludere che i sistemi biologici sono capaci in qualche modo di utilizzare il senso del tempo opposto, in cui le radiazioni si propagano dal futuro verso il passato.
Se gli eventi possono operare non solo dal passato al futuro, ma anche dal futuro al passato, la materia vivente, conclude Hoyle, invece di diventare sempre più disorganizzata, potrebbe reagire a segnali quantistici provenienti dal futuro, cioè all’informazione necessaria per lo sviluppo della vita. E quanto all’universo, invece di essere destinato ad un disordine e ad una decadenza sempre più grande, tenderebbe, al contrario, ad uno stato sempre più ordinato e complesso. Su scala cosmica l’introduzione dell’informazione dal futuro permetterebbe l’accumulo di informazione, senza la quale l’evoluzione della vita e dello stesso universo non avrebbe un senso logico.
In definitiva, per Hoyle, è più facile affrontare l’argomento dell’evoluzione nel senso del tempo che va dal futuro al passato, perché così ci avviciniamo alla causa finale, invece di allontanarcene. Questa causa finale sarebbe una sorgente di informazione, un’Intelligenza situata nel remoto futuro, un futuro la cui sorgente è nell’eternità.
Hoyle pertanto giunge alle stesse conclusioni cui era giunto Fantappiè, quando, nel 1942, utilizzò il senso del tempo opposto, dal futuro al passato, per spiegare i fenomeni della vita e mediante la sua teoria unitaria introdusse nella scienza i fenomeni sìntropìci, retti dal principio di finalità.
(1) F. HOYLE, L‘Universo intelligente, creazione ed evoluzione in una nuova prospettiva, Mondadori, Milano, 1984.
Voce di enciclopedia (Europea Garzanti)
Finalismo
Particolare modo di comprendere e spiegare la realtà, nella sua totalità o in alcune sue forme particolari: alla luce di questa concezione, la realtà viene intesa come attuazione di un certo fine da parte di qualche intelligenza o forma di razionalità (esistente a Il interno della realtà stessa o al di fuori di essa). In questo modo, per esempio, la struttura e l’ordine del mondo fisico possono essere spiegati riferendoli a qualche fine realizzato dalla forza che domina e regola l’universo; oppure la forma di un organismo o di una qualsiasi delle sue parti può venire spiegata facendo riferimento allo scopo o alla funzione cui essa assolve. L’essenza del finalismo consiste nel postulare l’esistenza, nel mondo, di scopi o fini intelligibili e nell’interpretare i vari fenomeni naturali mettendoli in relazione con tali fini. Si tratta dunque di una spiegazione in termini di cause finali piuttosto che in termini di cause efficienti. Il finalismo si contrappone così al meccanicismo: il finalismo cerca di rendere intelligibili le cose mostrandone il rapporto con lo scopo da realizzare, ossia cerca di rispondere alla domanda "perché?" o "per quale scopo?" nelle concezioni meccanicistiche, invece, si danno spiegazioni basate su cause efficienti, non si riconosce nessuna finalità, e si cerca semplicemente di mostrare in che modo un certo risultato è stato effettivamente prodotto per mezzo di cause naturali operanti secondo leggi invariabili, ossia si cerca di rispondere alla domanda "come?"
L’intero sviluppo storico del pensiero scientifico occidentale è attraversato dal costante conflitto tra i modi di spiegazione finalistici e meccanicistici. Nell’ambito della filosofia greca dell’antichità erano state sviluppate sia la concezione meccanicistica, sia quella finalistica, la prima soprattutto a opera degli atomisti, la seconda prevalentemente a opera di Platone e di Aristotele. Aristotele sostenne che, per dare una spiegazione completa ed esauriente di qualsiasi cosa, era necessario tener conto non solo della causa materiale, di quella formale e di quella "efficiente", ma anche dello scopo per il quale la cosa esisteva o veniva prodotta, ossia della sua causa finale.
Aristotele, in particolare, cercò di fondare una scienza finalistica della natura, definendo ogni sostanza, accidente e cambiamento mediante il passaggio dalla potenza all’atto, dall’incompiuto al compiuto, ossia mediante l’idea della realizzazione di un fine. L’enorme influenza esercitata da Aristotele, in accordo con lo spirito generale del cristianesimo, fece sì che nel medioevo il finalismo diventasse la forma di spiegazione privilegiata sia in fisica sia in etica. In contrasto con l’intellettualismo roprio del finalismo aristotelico, le filosofie della natura del rinascimento rappresentarono il ritorno a un finalismo di tipo magico ed estetico. La natura era immaginata come un immenso organismo vivente, ribelle sia alle forme fisse del pensiero aristotelico, sia alle leggi rigorose e quantitative che verranno elaborate dai meccanicisti del sec. xvii. Per Campanella la Terra parla, starnuta e pensa. Per Keplero un pianeta è intelligente perché sa trovare la sua strada nel cielo. L’universo infinito di Bruno è dovunque animato da un dio artista interiore.
Con l’affermarsi dello spirito scientifico moderno nel sec. xvii, 1 interesse dei filosofi si volse prevalentemente verso spiegazioni meccanicistiche dei fenomeni naturali, che facevano riferimento esclusivamente a cause materiali ed efficienti.
Leibniz fu forse il primo pensatore dell’età moderna a intravedere la possibilità di conciliare il meccanicismo con il finalismo, distinguendo opportunamente le rispettive sfere di applicazione di ciascuno dei due principi esplicativi. La discussione e analisi del finalismo fatta da Kant costituisce un punto di arrivo fondamentale del pensiero moderno. Per Kant, il meccanicismo rappresenta l’unico principio che possa trovare sicura applicazione nella scienza, in quanto esso determina i fenomeni in maniera obiettiva; il finalismo, invece, sebbene rappresenti una forma necessaria del pensiero soggettivo quando questo considera fenomeni di natura organica, non può avere applicazione oggettiva. Gli esseri viventi appaiono, al pensiero soggettivo, come se fossero determinati da qualche fine; tuttavia non possiamo a fermare con certezza che questo fine o scopo sia effettivamente presente nei fenomeni oggettivi stessi, al di fuori e indipendentemente dalla nostra ragione. Tuttavia, se è vero che il meccanicismo è l’unico principio di determinazione del mondo fenomenico, Kant riconosce l’esigenza di postulare un mondo del « noumeno «, ossia una realtà più fondamentale, dove il finalismo, riconoscendo uno scopo etico nel mondo, diventa il principio determinante ultimo.
Il finalismo inteso come principio di spiegazione scientifica dei fenomeni naturali fece la sua ricomparsa nel corso del sec. XIX. Alcuni scienziati misero in dubbio la possibilità di spiegare in termini puramente meccanicistici i fenomeni di crescita, rigenerazione e riproduzione, caratteristici degli organismi viventi. H. Driesch elaborò una dottrina finalistica, nota col nome di vitalismo «, che postulava l’esistenza, nell’organismo, di un principio operativo non meccanicistico, ossia di un « fattore elementare sui generis che agisce teleologicamente «, cui diede il nome di entelechia. Tale teoria incontrò, però, scarso seguito; nondimeno, essa sollevò la questione, che è ancor oggi aperta, se sia possibile spie~are integralmente i processi biologici in termini fisico-eh imici (spiegazione « meccanicistica «), oppure se i problemi della struttura, della funzione e dell’organizzazione di organismi viventi richiedano il ricorso a una sorta di finalismo.
LAVORO NOSTRO
Dalla "Lettera ai compagni n. 39"
Dall'idealismo al materialismo.
[…] Per i borghesi il comunismo è invece morto e sepolto. Che cosa secondo loro è morto? Ma ovvio: l'idea che loro avevano del comunismo, dato che credevano fermamente che questo consistesse in una utopia o in qualche specie di dottrina finalista. Invece di essere un cadavere, il comunismo è più arzillo che mai. Ma da dovearriva? Sono esistiti, nella storia dell'umanità, esempi di comunismo? Oppure vi è un momento a partire dal quale possiamo cominciare a parlare di comunismo? Se accettiamo la definizione che ne dà Marx, quella secondo cui il comunismo è un movimento reale che abolisce lo stato di cose presente, esso è il movimento dell'intera storia dell'umanità dalle origini fino... possiamo dire fino alla sua realizzazione completa? Ma forse è vero, nel termine "realizzazione" c'è ancora un po' di utopismo. Vediamo se ci riesce di essere precisi.
Tutti ricordano la definizione di militante che citammo più volte nel corso della nostra tribolata sopravvivenza: è militante comunista chi si strappa di dosso le caratteristiche segnate all'anagrafe di questa società e si confonde con tutto l'arco millenario che va dall'uomo-primate all'uomo veramente sociale. Tante volte abbiamo sottolineato quanto sia durato il "comunismo primitivo" in confronto ai pochi millenni di trapasso verso quello "superiore". Le virgolette sono d'obbligo perché la definizione di Marx vieterebbe di chiamare comunismo uno degli specifici stadi della società umana. Se datiamo la preistoria a partire dai primi manufatti costruiti e riprodotti secondo uno schema di conoscenza sociale memorizzata in modo differente dagli schemi animali, quelli che chiamiamo "istinti", abbiamo un tre milioni di anni contro appena diecimila di storia. Tre millenni di produzione primitiva contro appena dieci millenni di sviluppo a progressione geometrica, cioè di rivoluzione produttiva e sociale. Siamo adesso in quest'ultimo periodo, vale a dire che da meno di tre millenni siamo nella civiltà divisa in classi.
Ricordiamo che però per noi la preistoria comprende tutto l'arco, perché la vera storia umana deve ancora venire. Marx giovane, a proposito di questo percorso, dice che tutta la storia del mondo non è altro che la generazione dell'uomo mediante il suo lavoro, il divenire della natura per l'uomo stesso. Questo passo, con altre affermazioni scritte con impeto giovanile in appunti non destinati alla pubblicazione, è stato spesso tacciato di finalismo da avversari che vogliono fare i furbi e, da idealisti, danno dell'idealista a Marx. Stralciato dal significato di tutto il contesto il passo in sé esprime un concetto finalista. E allora? D'accordo, il materialismo storico è contro il finalismo metafisico, ma se noi intendiamo l'uomo come parte della natura ed elemento determinante della trasformazione di quest'ultime mediante il lavoro, la frase di Marx non è più tanto misteriosa. In effetti il progetto, la capacità di ottenere risultati voluti e previsti, il controllo dei processi, tutto ciò che abbiamo chiamato rovesciamento della prassi, rappresenta l'innesco di una sorta di finalismo rispetto agli svolgimenti futuri della storia. A volte le parole turbano, specie quando dal mondo in subbuglio piombano nelle accademie sonnolente e autoreferenti, ma ci sembra che qualsiasi ragazzino capisca benissimo che il passaggio attraverso un fiume è la causa finale per cui vengono deliberati fondi, viene eseguito un progetto e vengono gettate le arcate di un ponte. E quando il ponte è gettato, quando il traffico si farà intenso, nascerà un nuovo quartiere, che richiederà semafori, cavalcavia, organizzazione e lavoro sociale e così via, in un misto di finalismo (espressione di volontà, rovesciamento della prassi) e giungla capitalistica anarchica e a-finalista.
Tutt'altra cosa sarebbe dire, come qualcuno dice, che l'universo è così perché altrimenti l'uomo, causa finale nel disegno della natura o di Dio, non ci sarebbe potuto essere. Il finalismo, cioè l'insieme delle dottrine delle cause finali, quelle che spiegano un fatto in quanto mezzo di un fine, in filosofia è decisamente in disuso, dato che nell'epoca della scienza applicata c'è giustamente diffidenza verso concetti ambigui che, come abbiamo visto, possono essere utilizzati per dire una banalità (il ponte) o per formulare una pretenziosa proposizione (il disegno divino per l'uomo).
Superando la terminologia filosofica, opinabile e incerta, col concetto di rovesciamento della prassi noi delimitiamo il problema e riusciamo a discernere tra la metafisica e lo svolgersi dei processi materiali. Il rovesciamento della prassi è il presupposto necessario del comunismo da quando l'uomo scheggiò la prima pietra fino a quando incominciò a progettare alcuni aspetti del proprio futuro e soprattutto a farlo in modo sociale. Non si può parlare di comunismo nel mondo animale, neppure dove vi sia produzione e altissimo livello di organizzazione sociale (api, termiti, formiche), perché qui vi è solo ripetizione e conservazione, mentre il comunismo è il processo reale di demolizione del vecchio e trapasso verso sempre nuove conquiste.
Come è stato detto all'inizio, i comunisti non possono soltanto ipotizzare un futuro, che sarebbe ben poca cosa rispetto ai loro compiti, e nemmeno possono volere un futuro già modellato, che sarebbe troppo, ma vedono nel processo capitalistico una effettiva demolizione di rapporti esistenti e quindi una effettiva transizione verso nuovi rapporti. In questa transizione dalla preistoria alla storia, come spiega Marx, devono poter essere individuati degli elementi della società sviluppata, cioè deve essere individuato il nuovo "mondo della libertà" che lotta contro il vecchio "mondo della necessità". Se non fosse possibile fare questa operazione, diciamolo francamente, non ci resterebbe che chiudere baracca e andare a farci i fatti nostri, perché avrebbero ragione quelli che parlano di morte del comunismo, anzi, diciamo che il comunismo si sarebbe rivelato una fantasia in mezzo a tante altre.
Invece no. Il comunismo esiste. Non in qualche nascosto recesso della società; non in qualche oculatissimo meccanismo di distribuzione egualitaria; non in qualche rappresentazione formale di future potenzialità: esiste nel motore stesso di tutta la società capitalistica, il mondo della produzione, quello che ha portato ai più alti vertici il rovesciamento della prassi trasformando la natura in arte, nel senso di finalità progettata, organizzata, costruita secondo una conoscenza sociale registrata in una rete di relazioni tra uomini, memorizzata e continuamente elaborata per ancora più progredite realizzazioni future. […]
Un tentativo mai arrivato in porto
Caro F.
[…] Vorremmo farti una domanda, visto che hai frequentazioni matematiche. Nel documento allegato dell'altro giorno citi Enriques e Severi, due matematici cui Bordiga si riferiva; ci viene in mente una nostra ricerca di qualche tempo fa, con la quale eravamo riusciti a ricostruire alcune letture del Nostro, che comprendevano, appunto, i due matematici citati e Segre. Manca Castelnuovo per elencare la completa scuola di geometria algebrica (ma alcune tue battute sulla conoscenza intuitiva ci fanno pensare anche a lui). Lo zio paterno di Bordiga, Giovanni, era docente di geometria proiettiva (cultore d'arte, fondò la biennale do Venezia). Il Nostro inoltre conosceva e aveva frequentato a Napoli il matematico Caccioppoli, cita Poincaré (n+1) e il suo concetto di invarianza è sicuramente radicato nella geometria proiettiva (Klein, gruppi di trasformazione, programma di Erlangen e conseguenze).
Leggendo alcuni lavori del matematico Fantappié, che abbiamo scoperto durante il lavoro "spaziale", ci siamo imbattuti in alcune frasi che sembrano di Bordiga (concezione dinamica del determinismo, "potenziali anticipati", concetto organico di programma; comunque Fantappié sfociò nel finalismo mistico).
Ne sai per caso qualcosa? Noi, non-matematici, abbiamo qualche difficoltà a districarci.
Un caro saluto.
Cari compagni,
"giro" la Vs. richiesta di "lumi", circa la conoscenza geometrico-proiettiva e simili, a maggiori "conoscitori" della materia, a cominciare da alcuni napoletani. Penso che gli argomenti siano abbastanza noti per averne dettagli a volontà, sul ruolo dei singoli. La c.d. "geometria algebrica", da qualche decennio è diventata così parossisticamente e follemente "algebrica", e così poco "geometrica", che io, a nome della semplice umanità dei non-super-dèi ho abbandonato l'impresa di addentrarmici.
Emma Castelnuovo, nipote di Guido, è una straordinaria "matematica" alla lettera greco-originaria, e penso che mantenga atteggiamenti simili ai miei, nei confronti dei nuovi arrivati e ultra-presuntuosi. Anche F. Severi, in una conferenza su "Intuito e rigore", al convegno UMI a Pisa, nel primissimo dopoguerra, ebbe a esprimersi similmente.
Sulla dignità scientifica del finalismo ho sentito parlare di "retrocause", bisognerebbe vedere…
A suo tempo proposi di tenere le tesi di laurea, su similia in cinese. Così si eviterebbe automaticamente l'equivoco, talora accaduto, che qualcuno "rompa", chiedendo di "capire"... Il solo verbo "capire" è ritenuto "sconveniènte"... Giusto, no? Inutile dire che i Nostri erano d'avviso esattamente opposto.
Di F. Severi un livornese (certo F. Lazzeri), "titolare" giusto di geometria, un tipo con "bandana" al G8 di Genova ecc. si sorprese assi quando lo interpellai a proposito: "Ma lo sai che era un fascista?" Poverino: non ha capito nemmeno di non capire...
Anche R. Cacciòppoli, pianista ed estroso quanto mai, mi "deluse" assai: per quanto rigorose, le sue lezioni litografate dalla nota "Liguori", via Mezzacannone (sede del Dipartimento) sono pedanti, banalmente fuorviànti e riduttive come il 90% (di più?... ) dei corsi italiani...
Pazienza.
F.
Studio cagliaritano
Domanda: La teoria del materialismo storico e dialettico contiene al suo interno una sorta di finalismo? Se la risposta è positiva, non vi sembra di accogliere l’idea che l'intero mondo sia il prodotto di una entità che mira ad un certo fine (o fini) e quindi che esista un Dio individuale, creatore e dominatore del mondo? E questo non sarebbe in contraddizione con la stessa teoria del determinismo?
Risposta: Il determinismo non è estraneo al concetto del finalismo, sebbene il senso del nostro finalismo sta agli antipodi rispetto a quanto intendono i filistei borghesi e piccolo borghesi che vorrebbero Marx e la sua scuola costretti in un abbraccio mortale con l’idealismo di Hegel. Prima di spiegare il significato del nostro finalismo è necessario precisare in che senso lo rifiutiamo:
Quando ci troviamo a rispondere ad una domanda che contiene un qualsiasi "ismo" è molto frequente che veniamo fraintesi e spesso ci sentiamo attribuite cose che non abbiamo mai detto.
Anche rispetto allo stesso concetto di ‘comunismo’, qualcuno, orecchiante dei luoghi comuni che circolano tra i marxisti-leninisti, ci ha attribuito l’affermazione che noi intendiamo il comunismo come una "generalizzazione del dispotismo di fabbrica", un "estensione della fabbrica a tutta la società" e aberrazioni di questo genere.
È anche per queste ragioni che diffidiamo, e preferiremmo non utilizzare, vocaboli con desinenza -ismo. Tuttavia, questi vocaboli fanno parte del linguaggio corrente e non è possibile per il momento rinunciarci completamente, ci resta una cosa da fare: spiegare il problema, ovvero delimitarlo. Il termine finalismo ha fermentato nella filosofia per secoli assumendo nei differenti contesti e nelle diverse scuole, significati diversi e lontani tra loro, il concetto è quindi denso di ambiguità e confusione. Le espressioni "teleologia" e "finalismo" derivano rispettivamente dalla parola greca telos e da quella latina finis che corrispondono all'italiano "scopo", "fine". La cosiddetta posizionefinalistica o teleologica assume che il mondo sia ordinato in modo finalistico, in contrapposizione con la concezione meccanicista che invece lo nega.
Aristotele parlava dei cosiddetti "principi o cause dell'essere" ne distingueva quattro tipi, e tra queste v'erano la cosiddetta causa efficiente e quella finale. La causa efficiente è, in definitiva, lo stesso concetto che è comunemente inteso per "causa". La causa finale era intesa come la "forma" che si concreta nell'oggetto che si sviluppa. Per il filosofo, la causa efficiente non bastava da sola a spiegare l’evoluzione dei fenomeni, necessitava di un integrazione fondamentale che era data dalla causa finale. L’insetto che diventa larva, quindi crisalide, verrà condizionato nel processo del suo divenire dalla sua forma perfetta che è quella della farfalla. Dunque è la forma finale, il perfetto aspetto che viene realizzato, in circostanze favorevoli, alla fine del processo di sviluppo, ad influenzare il corso di questo processo, a dirigerlo e guidarlo. Per Aristotele questa ultima fase del processo, che compare normalmente alla fine del suo sviluppo, "agisce" come se attirasse l'organismo verso se stessa. La causa finale del mondo è, così come in un organismo, la sua forma. Questa forma finale, ovvero il potenziale e reale futuro che guida il passato, quello stesso futuro che a sua volta è inscritto nelle cause efficienti del passato, è chiamato da Aristotele Dio.
A prescindere dal nome "Dio" attribuito dal filosofo, è evidente che il suo Dio non ha niente a che vedere con la figura di un entità "propulsore" (hos kinoumenos), ma bensì come oggetto di amore (hos eromenos), come il fine di un tendere. Per ragioni storiche che sono già state trattate in molti testi della nostra scuola, i risultati aristotelici furono immobilizzati dalla scolastica medievale e interpretati in una chiave religiosa e spiritualista, il finalismo diviene così antropocentrico. Il finalismo antropocentrico, nel sostenere che il mondo è organizzato in modo finalistico, intende con ciò che esso è opera intenzionale di una qualche entità spirituale capace di pensare, di volere e di realizzare la sua volontà e quindi è da essa costruito per un determinato fine. Secondo questa scuola tutti gli elementi presenti in natura sono così perché altrimenti non sarebbe potuto esistere l’uomo, fine ultimo di un progetto di un qualche creatore. Un argomento a sostegno della tesi, per loro decisivo, è che in natura non è possibile trovare ovunque le condizioni che rendono possibile la vita organica, condizioni che invece troviamo esclusivamente sulla terra. Nella terra ci imbattiamo in delle deviazioni dalle regolarità dominanti in natura senza le quali la vita, o almeno una qualche sua forma, sarebbe impossibile. Si riportano diversi esempi di deviazioni dalla regolarità come ad esempio il fatto che tutti i liquidi, ad eccezione dell'acqua, diventano più densi se raffreddati, ma solo l'acqua diventa più densa alla temperatura di 4 gradi centigradi e meno densa sia quando è più calda che più fredda. Dobbiamo a questa straordinaria caratteristica il fatto che l'acqua dei laghi e dei fiumi non congeli interamente e che sotto uno strato superficiale di ghiaccio essa si mantenga alla temperatura di 4 gradi centigradi. In quest'acqua i pesci e gli altri organismi possono sopravvivere, mentre invece sarebbero morti se tutta l'acqua si fosse trasformata in ghiaccio. Secondo i finalisti idealisti, ogniqualvolta ci imbattiamo in fenomeni che non rispondono a delle regolarità ( bisognerebbe anche ricordare che l’universo osservabile su cui misuriamo delle regolarità è una misera porzione dell’intero universo esistente, il calcolo delle probabilità gioca a favore dell’esistenza di altre forme di vita sparse in luoghi lontanissimi) sarebbe l’evidenza sufficiente che il Creatore del mondo ha organizzato la terra finalisticamente ed ha appositamente stabilito certe deviazioni dalle regolarità naturali in modo che su di essa la vita potesse emergere e sopravvivere. Il Principio Antropico, in alcune formulazioni "forti" considera l’uomo, in particolare la coscienza umana, come punto di arrivo di una storia cosmica che tendeva proprio verso questo fine. L’universo, cioè, si è andato costituendo nel modo in cui attualmente lo conosciamo proprio perché ciò ha permesso il sorgere della coscienza.
Ma il semplice fatto di imbattersi in una qualche eccezionale organizzazione ( che per noi è autorganizzazione), di per sé vantaggiosa, non costituisce una base per inferire che questa organizzazione è stata finalisticamente creata da qualcuno allo scopo di perseguire tale vantaggio. Sono false le premesse di questi ragionamenti, non possono essere che false anche le conclusioni.
Il Principio Antropico vorrebbe dare una conferma "scientifica" di idee e credenze religiose tradizionali. Si è arrivati al punto di utilizzare tale principio in trattati di teologia per giustificare antiche cosmologie in una miscela di religione e scienza, nella quale quest’ultima risulta subordinata alla prima; implicitamente (ed in alcuni casi esplicitamente) si sostiene che i modelli elaborati in fisica, soprattutto se riguardano la genesi dell’universo, devono essere compatibili con gli schemi teologici.
È chiaro che consideriamo queste teorie come vere e proprie scorie di un modo di produzione che ha fatto il suo tempo, che ogni tanto riemergono come cadaveri decomposti, una volta che l’agire umano (nel senso del rovesciamento praxis) le ha determinate come inservibili, eliminandole di fatto. E questo lo vedremo. È importante per ora sottolineare che la nostra critica radicale a questo finalismo metafisico non è di tipo meccanicista, ovvero la tendenza opposta che considera il corso di tutti fenomeni del mondo come se facesse parte di un qualche meccanismo e non fosse diretto a nessun fine.
Il nostro è un finalismo di tipo determinista che considera valido l’assunto della bidirezionalità, ovvero della reversibilità dei processi (inclusi quelli caotici) nel loro passato come nel loro futuro e quindi la possibilità teorica di conoscerne l’andamento nel tempo. In uno schema semplice possiamo dire: quello che precede è causa di ciò che segue, viceversa, ciò che segue è il progetto di ciò che è passato.
Il problema del finalismo, dal nostro punto di vista si può ridurre a quello dell’esistenza del futuro. È questa la linea Maginot che separa i deterministi dialettici dagli indeterministi, non si scappa. Nel mondo reale tutto accade contemporaneamente, non c’è differenza tra il modo di esistenza di ciò che è ora, di ciò che è stato prima e di ciò che sarà in futuro, la differenza che immaginiamo nella loro esistenza è una differenza solo soggettiva, connessa alla organizzazione del nostro intelletto.1 Chi assume che il futuro è inscritto nel percorso necessario per giungervi, allo stesso modo in cui il percorso è stabilito dal futuro possibile sta nel campo determinista, coloro i quali assumono che il futuro non è stato ancora "preparato" e che solo il tempo lo crea, stanno nell’opposta sponda dell'indeterminismo. Ad esempio, i sostenitori dell’indeterminismo statistico sostengono che solo il tempo ( inteso qui come entità metafisica) è creatore del mondo reale e la storia del mondo è una evoluzione creativa (Bergson).L'indeterminazione statistica ha le sue solide basi, specie quando si intersecano molte catene di eventi, ma non scalfisce il determinismo, il quale ci mostra ogni dinamica come fenomeno bidirezionale, cioè teoreticamente conoscibile in avanti e all'indietro nel tempo (cfr. rivista. articolo - Il crogiuolo bio(tecno)logico).
Abbiamo detto che il determinismo considera i fenomeni come conoscibili in avanti ed indietro nel loro processo di sviluppo. Se ammettiamo la conoscibilità significa che possiamo fare una previsione degli eventi futuri. Se un fenomeno, o un insieme di condizioni generali, è prevedibile significa che è finalizzato.
In natura riscontriamo una serie di fenomeni che rispondono ad un principio di finalità ( Fantappiè) che sono detti fenomeni sintropici o neg-entropici. La caratteristica principale di questi sistemi è che essi non disperdono la loro materia-energia nell’ambiente esterno, non tendono alla disorganizzazione ( come accade per i sistemi isolati) bensì si sviluppano secondo una crescente complessità ed organizzazione, o meglio, conservando l’informazione in essi contenuta tendono continuamente a guadagnarne di nuova( proprietà dei sistemi aperti). Un esempio eccellente di fenomeni sintropici è quello degli organismi biologici che possono essere considerati una sorta di processori neg-entropici in grado di fornirsi di flussi di informazione provenienti dal futuro2. Una proprietà comune a tutti gli organismi biologici è la loro capacità di autorganizzazione, ovvero l’evoluzione che un sistema è in grado di assumere spontaneamente sulla base di una previsione implicita rispetto al proprio futuro. Il concetto di previsione implicita ( Santa Fe) deriva dal fatto che gli organismi biologici nel loro processo evolutivo "imparano", attraverso l’analisi delle perturbazioni al loro interno, a conoscere l’ambiente in cui vivono e a comportarsi di conseguenza. L’autorganizzazione come previsione implicita di condizioni future avviene generalmente in modo inconsapevole per tutti gli organismi biologici, ad eccezione che per l’uomo che ha imparato a conoscere se stesso ed a mettere in moto processi autoreferenziali che gli permettono di accedere a nuove fonti di energia-informazione, modificando la propria organizzazione in funzione dell’evoluzione del rapporto sistema-ambiente.
Facciamo un esempio: I geni contengono il Dna, programma invariante che contiene il codice della vita. Per trasmettere il programma occorre che i geni codifichino un organismo adatto a sopravvivere secondo le aspettative che essi prevedono (implicitamente ed inconsapevolmente) di trovare. Tuttavia, dire che il programma è invariante non significa che esso è immobile e non subisce trasformazioni. A livello delle interazioni tra i suoi elementi costitutivi vi sono delle perturbazioni ( mutazioni genetiche) che consentono all’organismo di esplorare le diverse configurazioni possibili. La selezione naturale ( futuro possibile) determina la scelta di un organizzazione piuttosto che un'altra mettendo alla prova la previsione implicita nell’organizzazione primitiva. Come nota giustamente Kauffmann ( Santa Fe) queste perturbazioni, fluttuazioni o mutazioni non provocano negli organismi biologici effetti "a cascata", non stravolgono la stabilità strutturale e morfogenetica dell’organismo. Le mutazioni veicolano delle differenze utili nelle diverse fasi del processo evolutivo stesso, il manifestarsi di tali variazioni ( nuova informazione nel sistema) non è, come credono gli indeterministi, casuale, ma ferramente determinata dal percorso necessario per giungervi, allo stesso modo in cui il percorso è stabilito dal futuro possibile.
Conclusioni:
La secolare disputa tra finalismo e meccanicismo può essere risolta ( ed è già stata risolta) non sul terreno della filosofia ma su quello della prassi umana. Il problema si risolve riferendoci al noto concetto del rovesciamento della prassi, gravida sintesi tra il procedimento causale e quello finalistico. L’attuazione della volontà secondo un progetto implica che si conoscano in partenza sia i meccanismi causali che determineranno l’oggetto, sia il fine, lo scopo per cui esso è stato progettato. L’uomo inteso come Uomo Sociale, processore neg-entropico per eccellenza, è in grado, e lo sarà ancor di più e meglio nella società comunista, di risolvere i problemi potendo scegliere se partire rispondendo alla domanda "come?" ( causalità) oppure a quella "perché?"(finalismo). Questo dipenderà dal problema che si ha davanti. Si può costruire una macchina per un certo scopo, si dovrà in questo caso partire dal "come". Ma, di fronte a certi fenomeni complessi ( come ad esempio la struttura dell’occhio, la psiche umana ecc.) si sarà pienamente in grado anche di capire per quale scopo una macchina si è formata. D’altronde, questo accade nello spionaggio industriale tra le grandi multinazionali. Si compra l’ultimo prodotto uscito sul mercato, lo si porta in laboratorio, si smonta cercando di capire a cosa serve ognuno dei suoi pezzi, perché sono sistemati proprio in quella posizione per farlo funzionare ecc. ecc. Esistono al mondo oggetti talmente complicati che se non si conoscesse in anticipo per quale fine sono stati costruiti, resterebbero quasi completamente oscuri. Il fatto di conoscere la funzione, lo scopo, il fine della loro esistenza, ci permette di spiegare attraverso un ingegneria inversa, la funzione delle loro parti costituenti.
La proprietà bidirezionale del rovesciamento della prassi esiste ed è già operante oggi, sebbene in misura infinitamente piccola rispetto alle possibilità future. Ad ogni modo è questo futuro comunista possibile, reale a guidare finalisticamente " la storia della preparazione a che l’"uomo" diventi oggetto della coscienza sensibile e il bisogno dell’"uomo in quanto uomo" diventi bisogno".
Caro M.
complimenti per il lavoro sul "principio di finalità materialista" (o qualsiasi nome decideremo di dargli definitivamente). Il materiale è ottimo anche se ovviamente il lavoro da fare è ancora molto: nessuno finora ha mai ribattuto alle accuse neopositivistiche (credo, ma in filosofia oggi chi ci capisce più?) sul "finalismo marxista" e d'altronde è una bella gatta da pelare, perché si viaggia di continuo sul filo del rasoio.
Si nota anche da come affronti l'argomento: mentre la prima parte degli appunti fila liscia, nella seconda si avvertono difficoltà, che non sono certo solo tue, ma di tutti noi. La materia è oggettivamente difficile e soprattutto sfuggente. Comunque gli appunti sono la cosa più chiara detta finora sull'argomento, li faremo circolare.
Bisognerà pensare forse a un nome diverso da "finalità" o "teleologia" seguiti da un aggettivo tipo "materialista": è certo che Amadeo l'avrebbe trovato, con una di quelle uscite che tappavano la bocca a tutti. Noi invece rischiamo di alimentare ulteriori leggende sul nostro conto, come del resto hai ricordato proprio nel testo.
Certo che stiamo accumulando un bel po' di lavoro, speriamo di farcela. Qui i compagni sono durissimi e motivati, ne parlavamo venerdì sera in riunione, mentre si aspetta di essere di nuovo tutti "svacanzati" e riprendere l'attività solita.
Un caro saluto.
W..
Caro W.
torvare riscontri nel lavoro collettivo è un piacere, indica che stiamo lavorando nella strada giusta e da ossigeno alla nostra militanza.
Prima di approcciare all'argomento sul "principio di finalità materialista" ho fatto una breve ricerca nel motore interno del nostro sito.
Nella Lettera 39 si trova già svolta la traccia di lavoro, in risposta all'accusa di misticismo proveniente dal neopositivismo, che ha ispirato il semilavorato. Lo stesso discorso è ripreso nei due articoli sulle biotecnologie. In "A proposito di scienza e rivoluzione" nella rubrica doppia direzione un compagno critica i risultati di Fantappiè "perchè si sostiene il finalismo", un' altra buona ragione per tentare di affrontare il problema.
Hai ragione. La seconda parte del lavoro arranca sicuramente, si è cercato di seguire il filo che collega gli organismi biologici-neg-entropia-finalismo, la linea che sembra seguire Fantappiè. Altri riscontri li ho trovati in Kaffmann e più in generale negli studi di Santa Fe sui sistemi complessi adattivi. Le conclusioni, come si evince dal testo, punto sull'elemento del rovesciamento della prassi, attività consapevole indirizzata secondo uno scopo. Il problema, come dici anche tu, è quello di eliminare dal nostro linguaggio frasi come "finalismo mistico" "finalismo determinista" "finalismo probabilista" ecc. ecc. Questi Ismi hanno rotto le scatole, non ne possiamo più....
Un abbraccio fraterno.
M.
Caro M.
la seconda parte "arranca" (ma non sarei stato così drastico) per la semplice ragione che è terreno di confine col lavoro futuro, ancora da svolgere, e qui non ci aiuta neppure la buonanima di Amadeo. Forse leggendo fra le righe, chissà.
In effetti tutti questi "ismi" rompono davvero. Al posto di "finalismo materialista" ci sarebbe "teleonomia", se non l'avesse già utilizzato Monod in campo biologico e non avesse già assunto un significato particolare (e già prima non è che fossero tutti d'accordo su ciò che voleva dire).
Gli americani sono da tenere d'occhio, specie quelli di Santa Fe (che hanno tra l'altro un sito con materiale ricchissimo di spunti, presente da sempre sulla nostra directory). Ci sono "capitolazioni ideologiche di fronte al marxismo" a carrettate.
Ho prelevato materiale sul finalismo di Kant che, come diceva il vecchio, era un buon meccanismo del cervello collettivo. Chissà se potrò anche leggerlo.
Un abbraccio.
W.
Lette e meditate le note dell’ottimo isolano su finalità e determinismo. Qui di sèguito, miei marginalia.
Abbracci.
V.
1) Aristotele parlava dei cosiddetti "principi o cause dell'essere", ne distingueva quattro tipi, e tra queste v'erano la cosiddetta causa efficiente e quella finale. La causa efficiente è, in definitiva, lo stesso concetto che è comunemente inteso per "causa". La causa finale era intesa come la "forma" che si concreta nell'oggetto che si sviluppa. Per il filosofo, la causa efficiente non bastava da sola a spiegare l’evoluzione dei fenomeni, necessitava di un'integrazione fondamentale che era data dalla causa finale. L’insetto che diventa larva, quindi crisalide, verrà condizionato nel processo del suo divenire dalla sua forma perfetta che è quella della farfalla.
A lampante riprova (màlista phaneròn) della finalità naturale, Aristotele adduce la serie dei processi biologici — nutrizione, riproduzione — disposti al "fine" pratico della sopravvivenza (conservazione dell’organismo e sviluppo della specie).
2) Dunque è la forma finale, il perfetto aspetto che viene realizzato, in circostanze favorevoli, alla fine del processo di sviluppo, ad influenzare il corso di questo processo, a dirigerlo e guidarlo. Per Aristotele questa ultima fase del processo, che compare normalmente alla fine del suo sviluppo, "agisce" come se attirasse l'organismo verso se stessa.
Nella Fisica, libro II, leggiamo anche di tale "ipotetica" necessità, subordinata, nell’etimo d’origine, al compiersi della forma (ex hypothèseos = ipotetico = legato al verificarsi d’una condizione preliminare). Esempi aristotelici ne sono 1) tutte le costruzioni erette dall’uomo per abitarvi, edificate, proprio al fine della massima stabilità, su fondamenta di pietra e con tetto di travi e terriccio; 2) la sega, strumento destinato alla recisione e perciò costituito da lama d’acciaio dentata. E allora, udite: se il fine è hypòthesis (presupposto, principio essenziale) che orienta la scelta stessa dei mezzi atti alla propria realizzazione, il sapiente di Stagira è, 350 a. C., primo enunciatore di ciò che chiamiamo "rovesciamento della prassi" — senza pretenderne formula omologa nel greco classico (adistrophé pràxis?).
3) La causa finale del mondo è, così come in un organismo, la sua forma. Questa forma finale, ovvero il potenziale e reale futuro che guida il passato, quello stesso futuro che a sua volta è inscritto nelle cause efficienti del passato, è chiamato da Aristotele Dio. A prescindere dal nome "Dio" attribuito dal filosofo, è evidente che il suo Dio non ha niente a che vedere con la figura di un entità "propulsore" (hos kinoumenos), ma come oggetto di amore (hos eromenos), come il fine di un tendere.
Più volte e risolutamente, Aristotele avoca a sé la scoperta della causa finale, inassimilabile alle generiche "cause del bene" poste dai predecessori Empedocle, Anassagora, Platone, Senofane. Il suo Dio — egli intende — non è "principio razionale a governo dell’universo", ma "scopo per il quale tutto esiste o si genera", finalità interna alle cose.
4) Il nostro è un finalismo di tipo determinista che considera valido l’assunto della bidirezionalità, ovvero della reversibilità dei processi (inclusi quelli caotici) nel loro passato come nel loro futuro e quindi la possibilità teorica di conoscerne l’andamento nel tempo. In uno schema semplice possiamo dire: quello che precede è causa di ciò che segue, viceversa, ciò che segue è il progetto di ciò che è passato.
Vi attiene il brano celebre di P. S. de Laplace, Saggio filosofico sulle probabilità (1814), che non varrebbe citare di nuovo, se non ne incuriosisse il raffronto con un passo ciceroniano, casualmente rinvenuto nel De divinatione (44 a. C.). Laplace: «Dobbiamo considerare […] lo stato presente dell’universo come effetto del suo stato anteriore e come causa di quello che seguirà. Un’intelligenza che, per un istante dato, potesse conoscere tutte le forze che animano la natura e la posizione rispettiva degli esseri che la compongono, se fosse abbastanza vasta da sottoporre questi dati all’analisi, comprenderebbe in una stessa formula i movimenti dei corpi più grandi dell’universo e quelli dell’atomo più leggero; per essa, nulla sarebbe incerto, e l’avvenire come il passato sarebbero presenti ai suoi occhi. Lo spirito umano offre, nella perfezione che ha saputo dare all’astronomia, un debole abbozzo di questa intelligenza». Cicerone, nel riferire concezioni stoiche: «Se mai esistesse un uomo che sapesse con la sua mente cogliere l’intera serie delle cause, nulla sfuggirebbe alla sua conoscenza, perché chi conosce le cause degli eventi futuri, necessariamente conosce il futuro […] Gli eventi futuri, infatti, non vengono in esistenza all’improvviso, perché la successione del tempo, come lo sdipanarsi di una gomena, non inventa nulla di nuovo, ma sviluppa quello che c’era prima». Poi che all'antica Stoà di Zenone e Crisippo non fu estraneo certo "determinismo finalistico", la somiglianza, persino terminologica, tra lo scritto francese e quello latino stabilisce buon modello di millenaria invarianza dottrinale.
5) Nel mondo reale tutto accade contemporaneamente, non c’è differenza tra il modo di esistenza di ciò che è ora, di ciò che è stato prima e di ciò che sarà in futuro, la differenza che immaginiamo nella loro esistenza è una differenza solo soggettiva, connessa alla organizzazione del nostro intelletto. (Questa affermazione è un azzardo teorico, non dimostrabile. Ad ogni modo sembra coerente con l’affermazione dell’esistenza reale del futuro).
Seppure lontane dall’evidenza fisica, si portano a sostegno le ricerche di G. Lakoff, M. Johnson e H. H. Clark sul trasferimento analogico dalla cognizione spaziale a quella temporale. «Nelle metafore in cui il tempo viene rappresentato in movimento relativo, rispetto al tempo concepito come in quiete, è probabilmente riflessa l’esperienza fondamentale del movimento del nostro corpo nello spazio e dell’andare consapevolmente verso un obiettivo compreso nel campo visivo» (M. Dorato,Il tempo analizzato: origine e significato della metafora del flusso del tempo, in "Nuova civiltà delle macchine", 1999, n. 1 ).
6) I geni contengono il Dna, programma invariante che contiene il codice della vita. Per trasmettere il programma occorre che i geni codifichino un organismo adatto a sopravvivere secondo le aspettative che essi prevedono (implicitamente ed inconsapevolmente) di trovare. Tuttavia, dire che il programma è invariante non significa che esso è immobile e non subisce trasformazioni. A livello delle interazioni tra i suoi elementi costitutivi vi sono delle perturbazioni (mutazioni genetiche) che consentono all’organismo di esplorare le diverse configurazioni possibili. La selezione naturale (futuro possibile) determina la scelta di un organizzazione piuttosto che un'altra mettendo alla prova la previsione implicita nell’organizzazione primitiva. Come nota giustamente Kauffmann (Santa Fé) queste perturbazioni, fluttuazioni o mutazioni non provocano negli organismi biologici effetti "a cascata", non stravolgono la stabilità strutturale e morfogenetica dell’organismo. Le mutazioni veicolano delle differenze utili nelle diverse fasi del processo evolutivo stesso, il manifestarsi di tali variazioni (nuova informazione nel sistema) non è, come credono gli indeterministi, casuale, ma ferramente determinata dal percorso necessario per giungervi, allo stesso modo in cui il percorso è stabilito dal futuro possibile.
Kauffmann giudica, altresì, che proprio l’auto-organizzazione biologica produca strutture "robuste" — capaci, cioè, di evolvere per gradi, traendo vantaggio dalla selezione naturale (cfr. A casa nell’universo, Roma 2001: «La robustezza è ciò che permette a tali sistemi di essere plasmati dal graduale accumulo di variazioni […] Le strutture e i comportamenti sono stabili se possono essere modellati»). Tesi non priva di valore sperimentale: si è osservato che, nel rimescolo cellulare, taluni enzimi agiscono in maniera programmatica, tanto da far supporre una qualche "intelligenza" del patrimonio ereditario e un ‘cut and paste’ vòlto a precisi risultati morfologici. Le cellule sarebbero, così, «gli ingegneri dei propri genomi» (James Shapiro).
7) Esistono al mondo oggetti talmente complicati che se non si conoscesse in anticipo per quale fine sono stati costruiti, resterebbero quasi completamente oscuri. Il fatto di conoscere la funzione, lo scopo, il fine della loro esistenza, ci permette di spiegare attraverso un’ingegneria inversa, la funzione delle loro parti costituenti.
A rinforzo: in un qualsiasi bacino d’attrazione, regolato da meccanica non lineare, il moto tende, asintoticamente, a un sempre possibile stato d’equilibrio, conosciuto all’analisi già in principio e a prescindere dalle condizioni di partenza.
8) Bisognerà pensare forse a un nome diverso da "finalità" o "teleologia" seguiti da un aggettivo tipo "materialista".
"Teleodinamica"? (télos = fine, scopo + dýnamis = forza in potenza, movimento dei corpi in relazione alle cause che lo determinano).
Caro V,
le tue osservazioni sulla "teleodinamica" sono pregnanti e chiaramente indirizzate all'approfondimento di un argomento che sembra destare molte perplessità tra i compagni.
Le perplessità sono, a mio modo di vedere, determinate principalmente dal fatto che il concetto di "finalismo" è patrimonio storico della scuola idealista e richiama meccanicamente una serie di collegamenti che riportano ad entità sovraordinata creatrice di tutto l'esistente. Occorrerebbe invece discutere il concetto nel senso dell' invariante "finalità interna alle cose" come rilevato da Aristotele, Cicerone, Laplace fino allo sviluppo che ne hanno dato Fantappiè e Bordiga.
Nella secolare disputa tra finalismo e meccanicismo "La filosofia non ha fatto altro che trasmettersi da una scuola all'altra e da un autore all'altro certi enigmi tradizionali, certi problemi tradizionali. Risolvendo questi problemi non ha fatto che palleggiarsi tra un estremo e l'altro della soluzione e questo eterno enigma - se buttarsi di quà o di là tra queste solite antitesi - non è stato mai risolto (...)". Il comunismo, che si considera come soluzione all' enigma della storia, non si schiera da una parte o dall'altra della barricata degli eserciti dei filosofi. Semplicemente distruggendo la domanda sposta l'enigma su un altro livello (Critica alla filosofia, Firenze 1960). Dunque il punto non è quello di decidere se siamo finalisti o meno, siamo senz'altro un' altra cosa. Come "esploratori del domani" abbiamo il compito di investigare quest' "altra cosa", nei limiti in cui è possibile, dato il livello di sviluppo del movimento del reale che si svolge sotto i nostri occhi.
Il contributo di Fantappiè, almeno nel metodo, è in sintonia con Bordiga e la nostra scuola ( cfr riunione luglio 2002 In margine alla passione e l'algebra e scienza e rivoluzione), sebbene le conclusioni a cui perviene il matematico sono mistiche, religiose ecc. non condivisibili affatto. Il fatto è che la scienza fino ad ora ha sempre cercato di spiegare tutti i fenomeni dell'universo, ed in particolare quelli biologici, attraverso un procedimento di tipo meccanico, entropico, mentre altre strade non sono quasi mai state prese seriamente in considerazione. Proprio nel campo dello studio della biologia, dell'evoluzione ecc. (fenomeni sintropici, delle onde convergenti secondo F.) la scienza trova ancora grosse difficoltà a spiegare fenomeni emergenti come appunto quello della vita, puramente in termini di rapporto caso/necessità, mutazione/selezione ( Darwin, Monod). La critica di Kauffmann all'attuale paradigma è densa di conseguenze dal punto di vista dello studio dei sistemi complessi: "Il sorgere della vita non può essere prodotto del caso, vi devono essere delle leggi invarianti che la determinano, nostro compito è imparare a conoscerle" (...) "data una massa critica di molecole diverse e sufficientemente concentrate è inevitabile che la vita insorga come fenomeno emergente dovuto ad autorganizzazione della materia" ( citate a memoria dal libro A casa nell'universo). Ad ogni modo il tema della "teleodinamica" ( personalmente gradisco il neologismo) è piena di collegamenti e va studiata a fondo, ben vengano i contributi in tutte le direzioni.
Personalmente ritengo opportuno far circolare le tue note tra tutti i compagni. Torino provvederà.....
Un abbraccio
Caro W.,
rispondo all'invito per una chiaccherata sul finalismo in occasione della prossima riunione di fine ottobre.
Siccome credo che l'improvvisazione e l'oratione non siano il mio forte, ho ritentuto necessario mettere per iscritto il classico "discorso".
Ho esortato i compagni a far pervenire eventuali domande sullo studio "finalismo" in modo tale si possa riflettere per tempo e preparare le risposte, evitando così imbarazzanti improvvisazioni poco precise. Per il momento non è pervenuto niente di scritto...chissà. Ad ogni modo so che potrò contare almeno sulla collaborazione chiarificativa tua e di Verde.
Nello scritto che troverete in allegato, presunto che tutti i compagni conosceranno il materiale sul finalismo fino ad ora circolato, ho cercato di portare avanti lo studio teleodinamico collegandolo ai vostri sulla dialettica dei processi evolutivi, neodarwinismo ecc.
Spero di aver rispettato il nostro sacrosanto piano di sottoproduzione di fesserie. Consapevole degli urgenti impegni per la rivista che vi attanagliano, vi chiedo comunqe eventuali note, crtiche ed osservazioni.
Un abbraccio.
* * *
Certamente non è un caso che i compagni stiano facendo delle riunioni sui temi della "dialettica dei processi evolutivi" e del "finalismo materialista". Gli argomenti sono molto ben correlati. Tutti i compagni dovrebbero essere a conoscenza della polemica Thom-Prigogine sul determinismo e sul ruolo del caso nei processi dinamici ( semilavorato Rovesciamento della prassi). La scorsa settimana ha telefonato una compagna chiedendo chiarimenti su alcuni passaggi degli appunti "finalismo" ed, en passant, ha fatto una domanda che suonava grosso modo così: esistono le contraddizioni, esistono le biforcazioni, come la mettiamo con il finalismo? ( spero che la domanda venga in seguito formalizzata per iscritto, tanto per evitare incomprensioni e malintesi)
E' vero, esistono le biforcazioni ma il loro esito, come dimostra Thom contro Prigogine, non dipende dall'alea della fluttuazione scatenante, bensì dall'ambiente dinamico che precede la biforcazione, indi per cui la biforcazione può essere, almeno teoricamente prevista a priori1. Thom è stato un sostenitore della teoria del continuum nonché un acerrimo nemico del caso ( entropico - disorganizzatore) e dell'epistemologia indeterminista, affermando l'indispensabilità del concetto di "invariante" ( struttura ordinata - algoritmo) che ci permetta di adoperare sempre allo stesso modo quelle formalizzazioni utili per conoscere in anticipo l'andamento di un sistema. Il concetto di caso (mutazioni geniche) contrapposto alla necessità (selezione naturale) sta alla base del darwinismo e ne costituisce allo stesso tempo il grave limite. L'epistemologia dell'indeterminismo trova il suo principale alimento proprio nel campo biologico dove l'evoluzione è considerata come "un opportunità colta al volo", dove il caso di Monod, il tempo creatore di Bergson e la fluttuazione di Prigogine stringono un ferreo patto d'alleanza contro il determinismo di Thom e di Bordiga.
Ammettendo il caso come elemento organizzatore di una cellula vivente, il paradigma darwiniano si trova in serie difficoltà perché le probabilità che degli aminoacidi vengano selezionati casualmente e strutturati in un determinato ordine per formare un numero sufficiente di molecole enzimatiche per duplicare un batterio, sono scarsissime, nell'ordine di 1 su 10 elevato 40.000, ovvero "paragonabile alle possibilità che un tornado, passando sopra una discarica, fosse in grado di assemblare un Boeing 747 con i materiali lì depositati" ( Kauffmann, A casa nell'universo pag.68). Il tempo creativo di Bergson non funziona, perché "anche 4 miliardi di anni non sono sufficienti per permettere alla vita di emergere dalla pura combinazione". In fondo – dice Thom – piuttosto che appellarsi al caso creativo sarebbe più scientifica la teoria dei creazionisti che si appellano a Dio come causa necessaria di tutto l’esistente.
Non è possibile far nascere il descrivibile, l'ordinato, dal disordine e dal caos, vi deve essere un ordine soggiacente mascherato nei meandri della statistica delle mutazioni genetiche, che definiamo "casuali" poiché non conosciamo ancora i meccanismi che ne influenzano la distribuzione statistica ( ermeneutica determinista).
Nell' articolo Basta con il caso, taccia il rumore Thom sostiene
"la mia obiezione alla visione darwiniana consiste nel fatto che essa Localizza l'attenzione sui meccanismi di variazione del genoma - i quali, secondo Kimura, sono o insignificanti o abortivi - a detrimento di una valutazione dell'adattabilità (fitness) dell'organismo, di una stima delle costrizioni globali attive sulle variazioni globali possibili di una specie in un determinato ambiente. In definitiva è solamente questa adattabilità a dirigere il corso dell'ulteriore evoluzione. Il problema della valutazione delle costrizioni globali in atto sulla regolazione degli organismi (che porta alla problematica del «piano generale dell'organismo», il Bauplan della Naturphilosophie) è la «macchia cieca » della biologia contemporanea, che non vede né più in grande né più lontano della molecola. Solo lavori recenti - tali quelli di S. J. Gould - cominciano ad adombrare un certo interesse per questo problema fondamentale."
Qui è evidente la critica ad uno dei dogmi più diffusi della genetica moderna che consiste nel ritenere che il DNA sia modificabile solo da errori di duplicazione genica, errori ritenuti irriducibilmente casuali. Thom introduce nel suo ragionamento un elemento importante, spesso ignorato dal positivismo neodarwiniano: si tratta del ruolo delle "costrizioni globali attive", ovvero del metabolismo ambientale che circonda e comprende l’organismo, rispetto alle "variazioni globali possibili di una specie in un determinato ambiente", ovvero rispetto alla statistica delle mutazioni possibili. Mutazioni "possibili". È questa la chiave, secondo l’autore, di una concezione finalista dello sviluppo biologico. Infatti non tutte le variazioni genetiche hanno le stesse probabilità di manifestarsi (ovvero sono casuali in senso matematico), bensì l’organismo evolve secondo un percorso che è stabilito dal futuro possibile allo stesso modo in cui questo futuro è inscritto nel percorso necessario per giungervi. Questo punto è importante e va studiato, perché si ricollega alla storica disputa nel campo della teoria evoluzionistica tra il darwinismo ed il lamarckismo. Secondo Darwin le variazioni genetiche non hanno un orientamento adattativo dato che secondo la teoria evoluzionistica darwiniana il primo passaggio consiste in una distribuzione non orientata (casuale) delle variazioni geniche mentre solo in un secondo momento interviene la selezione naturale che, operando su queste variazioni, modifica una determinata popolazione garantendo il successo riproduttivo di quelle variazioni vantaggiose. Viceversa, la concezione lamarckiana dello sviluppo prevede che le variazioni siano in qualche modo "orientate" ovvero influenzate dal metabolismo ambientale che trasmette informazione all’organismo, che di conseguenza si adatta al nuovo contesto ambientale (concetto di previsione implicita). Thom è schierato con i lamarckismo tanto che nella sua opera Stabilità strutturale e morfogenesi dice senza mezzi termini " L’ottica in cui ci poniamo è decisamente lamarckiana, ammetteremo grosso modo che la funzione crea l’organo o, più esattamente, che la formazione dell’organo risulta da un conflitto fra un campo primitivo a vocazione funzionale e una materia prima organica che gli resiste e gli impone cammini di realizzazione (creodi) geneticamente determinati" ( SSM, 228-229 citato in Catastrofi – di T.Tonietti. pag 153).
Il problema è – come ricorda Gould ne Il pollice del panda – che " fino ad oggi, gli studi mendeliani o la biochimica del DNA non offrono nulla che ci incoraggi a credere che l’ambiente o i caratteri adattativi acquisiti possano spingere le cellule sessuali a modificarsi in direzioni particolari. Come è possibile che l’abbassamento della temperatura "dica" ai cromosomi delle cellule uovo e degli spermatozoi di produrre mutazioni che infoltiscano il pelo? Se fosse possibile sarebbe senz’altro bello e semplice. (…) Purtroppo, però, per quanto ne sappiamo, la natura non funziona a questo modo".
Come nei sistemi viventi, il carattere dialettico dello sviluppo storico sociale procede attraverso contraddizioni che costituiscono gli snodi principali attraverso cui si articola ogni processo evolutivo. Tutto l’arco storico delle società, in particolare quella capitalistica, è costellato dalla presenza di due opposti in costante interazione, opposizione che da luogo ad una formazione sociale stabile rispetto alle piccole variazioni, variazioni che vengono normalmente smorzate dai meccanismi di difesa che si sono strutturati. Tuttavia, il carattere antitetico della forma sociale capitalistica implica che al suo interno siano presenti tratti appartenenti alla vecchia formazione (n) e caratteristiche tipiche della forma successiva, dunque evolute (n+1. cfr. La svolta).
Il capitalismo svolge la sua funzione progressiva nella misura in cui permette lo sviluppo delle forze produttive ma nello stesso tempo, a un certo grado di maturità, ne ostacola il successivo aumento. Il capitalismo organizza e disciplina la classe operaia nello stesso tempo in cui ne accresce la degradazione fisica e la miseria delle condizioni di vita. È il capitalismo stesso a produrre il becchino che lo affosserà ed a preparare nel medesimo tempo le strutture emergenti del modo di produzione successivo. Ma come è possibile che un sistema strutturalmente stabile, che evolve perdendo energia, trovi l’informazione nuova in grado di sviluppare la trasformazione nello spazio delle fasi? ( cfr schema a dente di sega Teoria azione nella dottrina marxista 1951) È nella dinamica continuità – rottura che bisogna ricercare la soluzione, o meglio, nella tensione esistente tra il carattere sociale della produzione, ovvero dell’aumento dell’informazione del sistema e delle sue connessioni interne, con quello privato dell’appropriazione del prodotto sociale, ovvero col carattere entropico dell’economia e dei rapporti di produzione capitalistici. Questa tensione è il prodotto continuo di trasformazioni stabili che in particolari svolti storici entra in uno stato critico, e lo spiegamento della singolarità corrispondente genera la catastrofe correttrice.
"Ma abbiamo detto che per noi materialisti la creazione non esiste: da dove scaturisce l'informazione nuova, quella necessaria per descrivere la trasformazione, quindi i caratteri della società nuova? Sono sufficienti le relazioni fra gli elementi che esistono in quella attuale? La risposta è: sì e no, dipende. Non bastano i caratteri della società attuale e non bastano quelli del modello ideale, occorre individuare la dinamica della trasformazione che nega gli elementi presenti e prepara quelli futuri. La rivoluzione è prima di tutto negazione che produce effetti positivi, distruzione di vincoli, abbattimento di barriere. Ci dicono i fisici che ogni modello deterministico, anche il più caotico, presenta delle strutture che prima o poi si è in grado di scoprire. Bene, queste strutture emergenti rappresentano il futuro del sistema" ( La svolta)
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Caro M.,
abbiamo letto la traccia per la riunione. Poi faremo circolare fra i cablati (scrivi se per te va bene o se devi ancora aggiungere qualcosa).
Non preoccuparti per l'esposizione: prima di tutto abbiamo bisogno non di oratori ma di lavoratori, e quelli che ci sono vanno bene così, per adesso. In secondo luogo si può benissimo leggere e integrare a braccio, come fanno diversi compagni di qui. Comunque sei in grado di tenere una riunione non da neofita. In genere le riunioni vengono meglio quando si conosce bene il problema e lo si sviluppa in base ad appunti stringati ed essenziali, in modo da mettere in azione la memoria mentre si parla. Maffi per esempio faceva così.
La riunione sarà sabato in sede e domenica nel solito locale del centro. Dato che vengono dall'estero ospiti con i quali intendiamo parlare, pensavamo di allargare la riunione del primo giorno anche ad altri compagni locali che gravitano intorno alla rivista.
Ma veniamo al contenuto. Il "piano di sottoproduzione di fesserie" è rispettato: ci sembra non ce ne siano. L'integrazione con il materiale precedente, le note di Viride e un po' d'ordine kaufmanniano sarebbero già sufficienti per mettere insieme non solo una riunione ma anche un articolone.
Alcuni problemi restano. Le note che volevamo inviarti dovevano riguardare la concezione "finalista" specificamente nostra, da Marx a Bordiga (e qualcosina pure quaderniana) ma è difficile fissarle per iscritto, troppi impegni incombono, specie a ridosso dell'uscita della rivista.
Non sappiamo se Thom è schierato davvero con il lamarkismo, forse lo dice solo per provocare, ci prova gusto, specie contro i suoi detrattori. Ma quando dice di essere più lamarkiano che darwinista intende dire che è per l'estensione del concetto di Laplace anche ai domini della statistica, la quale non è altro che la rivelazione di un ordine soggiacente che a prima vista sfugge (da Boltzmann in poi questo è comunemente accettato). Il matematico ci piace perché è un tosto che non sopporta le manfrine degli indeterministi e dei pasticcioni, ma dal punto di vista "filosofico" è da prendere con le molle. Qui bisogna fare attenzione, altrimenti per sillogismo diventa lamarkiano anche Gould, cosa che non corrisponde alla realtà. Anche Sandro sta esplorando questi territori e verranno fuori ulteriori chiarificazioni.
Il quesito posto dalla compagna non è peregrino: il meccanismo su cui ci basiamo è quello spiegato nei tuoi appunti, ma occorre precisare la differenza fra ciò che indipendentemente dagli osservatori succede nella realtà e ciò che questi riescono a conoscere. Il determinismo stabilisce che non c'è nulla di inconoscibile per principio, ma sappiamo che sono più numerosi i fenomeni dei quali non riusciamo a prevedere lo sviluppo di quelli che ci permettono la previsione. Poincaré utilizzavava il termine "sbocco fortuito" di certe dinamiche, ma meglio sarebbe dire "sbocco determinato anche se per noi impenetrabile" e magari aggiungere: "al momento". E' la posizione di molti "caotici" attuali.
La genetica moderna si è ormai accorta che la via della mutazione casuale è poco percorribile: al tempo degli articoli sulle biotecnologie avevamo notato che la mutazione del prione, responsabile del morbo "mucca pazza", è ben determinata e che induce riproduzione del fenomeno anche se nella proteina non c'è la memoria che nella cellula è rappresentata dal DNA. Questo, se abbiamo ben capito, potrebbe a maggior ragione succedere a livello di organizzazione superiore della materia, tant'è vero che le stesse ricerche sul prione sono utilizzate nello studio di rimedi per il morbo di Alzheimer.
L'auto-catalisi kauffmanniana è sicuramente plausibile, ma Eigen fa notare che non basta per spiegare la formazione definitiva di un solo virus, forma intermedia fra la materia e la vita: una volta spiegata la formazione di catene molecolari ordinate verso la capacità di vita, occorre spiegare ulteriormente come si fissa l'informazione necessaria affinché il tutto sia replicato in modo stabile e perfetto. Ora, noi aggiungiamo, sembrerebbe normale immaginare che i virus, più semplici dei batteri, si siano formati prima, ma non è così: non avendo DNA, si replicano solo in simbiosi con cellule complete, e quindi sono venuti dopo; allora cosa sono? Batteri regrediti? nega-evoluzione? Una forma si semi-vita parassitaria parallela nata in ritardo? Evidentemente ha ragione Gould quando nega che l'evoluzione dev'essere sempre intesa con segno positivo, a parte le estinzioni. A fianco delle mutazioni e dell'evoluzione c'è "stabilità strutturale" (se è vero che l'alga azzurra ha tre miliardi di anni ed è l'essere più antico) e "morfogenesi" piuttosto capricciosa, altro che "caso e necessità", sembra più facile spiegare l'origine della vita che la sua continuazione. Queste argomentazioni non sono proprio a favore di un finalismo biologico lineare.
Un punto importante, che è già emerso ma che occorre sottolineare, è l'aspetto - diciamo così - meno fisico e più tipicamente umano del finalismo materialista: l'uomo, la cui natura s'è fatta industria (Marx), a differenza degli animali progetta parte della sua vita, soprattutto, per ora, nel campo della produzione di merci e dei mezzi di produzione per le stesse. Se il pensiero è organizzazione della materia, come sostengono d'Holbach, Diderot, Leopardi, Marx e Bordiga, tanto per fare qualche nome, allora il pensiero-progetto è determinato da un fine da raggiungere, perciò è la materia futura, come abbiamo detto, a muovere la materia presente. C'è un'azione reale del futuro sul presente, una retro-causa di tipo diverso, ci sembra, da quello che intendeva un po' ingenuamente anche se in modo matematicamente rigoroso Fantappié. In fondo è quello che diceva anche Tommaso d'Aquino: il fine è il motore dell'azione dell'uomo e quindi è causa efficiente di sé stesso (citato a memoria, non garantita l'esattezza, controllare). Il criterio, spogliato da nebbie filosofiche, potrebbe forse sfociare in qualcosa d'interessante. Se riuscissimo per esempio a dimostrare che si rispetta in qualche modo il principio fisico di simmetria. Da questo punto di vista la riproduzione Viridiana del "cono di luce" è un indizio lampante. Da un altro punto di vista si potrebbe approfondire l'assunto finalistico di Marx per il capitalismo: "produzione per la produzione".
Scopriamo nel frattempo che in campo scientifico si sta parlando assai di questo problema, ci procureremo documentazione e bibliografia.
Tutto questo - qualcuno potrebbe chiedere - a che pro? Non stiamo cadendo nell'intellettualismo? E le masse operaie, che c'entrano con il finalismo? Risposta: il problema è di essere nel cono di "absolute future" e non essere tagliati fuori in "absolute elsewhere". La proposizione della risposta non è scientificmente esatta, ma rende l'idea, c'è già un sacco di gente nell'altrove.
Un caro saluto.