Finora una tesi così azzardata non era mai stata affacciata ma, in epoca di apertura di archivi e di dossier segreti, le novità, per quanto stravanti possano essere, sono ben accette purché siano suffragate da prove documentarie. Purtroppo questo non è il caso dello scritto di Valerio Riva, che assomiglia più ad uno scoop giornalistico alla moda. Non una prova o una seppur minima documentazione viene a suffragare la presunta origine inglese del denaro trovato addosso a Bordiga. Tanto più che lo stesso autore ad un certo punto afferma che la sua tesi è solo un'«ipotesi plausibile». In realtà, si tratta di un ragionamento deduttivo le cui premesse sono completamente errate e dimostrano qualsiasi mancanza di conoscenza della situazione del movimento comunista italiano ed internazionale di quegli anni.
Prima di entrare nel merito dello scritto e della sua tesi di fondo occorre innanzitutto sgombrare il campo da alcuni errori grossolani che riguardano la storia del Partito Comunista d'Italia. Uno è presente già nella prima frase dell'articolo quando si afferma che Bordiga è stato il primo segretario del partito. In realtà egli non ricoprì mai tale carica per il semplice motivo che, fino al 1924, non era contemplata dagli statuti interni. Indubbiamente la sua forte personalità lo aveva posto a svolgere il ruolo di leader, in pratica egli era il primus inter pares di un gruppo dirigente abbastanza agguerrito che componeva il Comitato Esecutivo. Alla costituzione del partito nel 1921 tale organismo comprendeva Bruno Fortichiari, Luigi Repossi, Ruggero Grieco, Umberto Terracini e Amadeo Bordiga; lo stessa composizione venne confermata al II Congresso a Roma nel marzo dell'anno sucessivo.
La carica di "Segretario generale" fu introdotta più tardi (in sintonia con la bolscevizzazione voluta da Mosca) e precisamente nell'estate del 1924, alla riunione del CC del Partito che si tenne a Roma il 13-14 agosto. A ricoprire tale incarico fu chiamato Antonio Gramsci, che la tradizione comunista ha giustamente sempre ricordato come il "primo segretario del partito".
La storiografia italiana non si è mai soffermata abbastanza sull'emergere della figura di Gramsci all'interno del comunismo italiano in rapporto con l'affermarsi dello stalinismo in Russia. Si tratta di un capitolo che andrebbe affrontato per comprendere a fondo, una volta per tutte, quale tipo di legame si sia instaurato tra Mosca e il partito comunista in Italia e quale differenza esistesse tra il primo periodo, con la leadership di Bordiga, e successivamente, quando il partito passò nelle mani di Gramsci prima e di Togliatti poi.
Un altro errore Riva lo commette quando sostiene che Bordiga fu espulso dal partito nel 1926, senza precisare se prima o dopo il Congresso di Lione, se prima o dopo il VI Esecutivo Allargato tenuto a Mosca successivamente. In effetti Bordiga fu sì espulso dal partito, ma quattro anni più tardi, nel marzo 1930, dopo aver scontato più di due anni di confino a Ustica e a Ponza e quasi un anno di carcere a Palermo. L'allontanamento fu decretato, su proposta di Palmiro Togliatti, durante una riunione del CC del P.C.d'I. che si tenne in Germania, a Colonia, il 30 marzo del 1930.
Nella foga di revisionare una vicenda storica di portata internazionale, Valerio Riva tenta anche di modificare un fatto politico acquisito defintivamente da tutte le correnti storiografiche e che nessun documento, anche il più segreto, potrà mai modificare. Si tratta del giudizio relativo ai rapporti intercorsi tra Mussolini e Bordiga nel 1914, quando la Grande guerra, erompendo con la sua carica di violenza sconsiderata, mette i partiti socialisti d'Europa gli uni contro gli altri. Egli sostiene che era stato infatti Bordiga a «tradire» Mussolini quando questi, di fronte alla guerra, era passato all'interventismo. Ora ci sembra ovvio osservare che fu Mussolini ad abbandonare la tradizionale politica del PSI, e non Bordiga, il quale anzi ha sempre rivendicato le tesi difese da Mussolini nel biennio 1912-1914. Riva rovescia completamente le posizioni non vedendo che se vi è stato un "tradimento", questo è da imputare al futuro duce.
Ma veniamo all'arresto di Bordiga. La vicenda è nota e se ne può trovare una minuziosa descrizione in un volume edito ufficialmente dallo stesso Partito Comunista, a vicenda conclusa, e che ripercorre il procedimento giudiziario fino al processo con la conseguente assoluzione nell'ottobre 1923.
In ogni caso nei maggiori quotidiani italiani del 6 febbraio 1923 si poteva leggere la seguente notizia (diffusa dell'agenzia ufficiale Stefani):
«In questi giorni sono stati arrestati qua e là, in diverse città d'Italia, alcune decine di comunisti. Le misure di rigore adottate dal Governo si devono ad un violento ed ignobile manifesto pubblicato dal Comitato Esecutivo dell'Internazionale Comunista sotto la ispirazione di comunisti italiani. (...) In seguito a questo documento tutti gli arrestati di questi giorni saranno deferiti all'autorità giudiziaria per mene ed attentato alla sicurezza dello Stato».
Mentre gli arresti di tutti i militanti comunisti sembra fossero programmati minuziosamente, quello di Bordiga sembra sia stato fortuito: pedinando Grieco, i poliziotti romani avevano individuato uno strano locale situato al n. 35 di via Frattina.
I frequentatori di questa sede clandestina, accortisi di essere seguiti, cercarono di abbandonarla, di renderla cioè "fredda", come si direbbe con un linguaggio odierno, portando con sè i documenti più importanti. «Avemmo sentore - ha confessato Bordiga al processo - che alla porta si trovavano alcuni agenti che ci attendevano».
Quando Bordiga uscì dalla sede con una borsa di pelle si avvide di essere seguito. Si avviò verso Piazza di Spagna, ma venne fermato in via Due Macelli dal vice brigadiere Audino. Alla richiesta delle generalità disse di essere il ragionier Berti ma, mancando di documenti, venne accompagnato in questura. Durante il tragitto, vista impossibile ogni via di fuga, confessò le vere generalità.
In Questura la borsa, zeppa di documenti del partito, in parte cifrati, venne consegnata dal Quagliotti, che aveva diretto tutte le operazioni, al commissario Bellone, che in questi ultimi tempi è assurto a fama per aver funto da tramite con il comunista Ignazio Silone. Solo in un secondo tempo Bordiga venne perquisito e in una tasca interna del gilè gli venne rinvenuta una busta con le famose 2500 sterline. Dopo di che venne inviato in carcere.
La polizia stilò poi un verbale generico, contenente l'elenco del materiale sequestrato, ma non alla presenza dell'imputato, ormai in prigione. È evidente che, in assenza di Bordiga, la questura avrebbe potuto aggiungere nell'elenco del materiale ritrovato tutto ciò che voleva. Al processo, in ottobre, vennero in luce tutta una serie irregolarità a cui si aggiunse il fatto che le famose sterline erano state immediatamente cambiate in lire italiane. Bordiga non negò di essere stato in possesso di quella cifra, anzi disse di averla ricevuta dal Comitato Esecutivo dell'Internazionale e dichiarò che era di proprietà del partito e che pertanto ad esso andava riconsegnata.
Che il Partito Comunista d'Italia (come tutti gli altri partiti comunisti d'altronde) vivesse con i finanziamenti che provenivano da Mosca non solo non è un segreto per nessuno, ma gli stessi comunisti occidentali in quegli anni rivendicarono con forza il legame politico e organizzativo stabilito con l'Internazionale moscovita. Lo stesso Bordiga al processo lo dichiarò apertamente:
«Se mi si domanda quali erano le fonti del finanziamento del partito (...) sono disposto a rispondere in modo esauriente e definitivo. E dirò, come noi abbiamo pubblicamente dichiarato in epoca non sospetta, con comunicati sulla stampa, che le risorse finanziarie per la vita del nostro partito erano insufficienti per quello che veniva dalle organizzazioni italiane. Questo soprattutto in considerazione del fatto che noi avevamo tre giornali quotidiani in tre centri che non davano la possibilità, per la rispettiva posizione, di eliminare e anche solo ridurre il passivo, uno a Torino, uno a Trieste e uno a Roma (...) Ma siccome la nostra non è una organizzazione nazionale ma è internazionale, così agisce nello stesso modo in cui le singole sezioni agiscono per esempio, in Italia. Come in Italia adoperiamo il denaro che viene dalla forte federazione di Torino per dare sussidi alle federazioni deboli di Taranto o Avellino così le sezioni della Internazionale che sono in migliori condizioni danno alle sezioni più deboli, attraverso un centro organizzativo che è il Comitato Esecutivo di Mosca, sovvenzioni in denaro».
Per dare un'idea della scala delle priorità di importanza che Mosca aveva dei paesi europei, si può aggiungere che in una riunione del 3 gennaio 1922 la commissione finanze del Comintern «autorizzò il versamento di 45 milioni di marchi al PC tedesco e di 3 milioni 580mila lire a quello italiano».
Che quei denari fossero effettivamente determinanti per la vita del partito italiano è messo in risalto dalle battute scambiate tra Umberto Terracini e il "fenicottero" Duccio Guermandi, quando questi si recò dal primo, a letto febbricitante, per riferirgli la terribile notizia degli arresti:
«sai che hanno arrestato Bordiga? E Terracini calmo: "Ah, si?" Sai che hanno scoperto l'ufficio? E Terracini: "Ah, si?" Sai che hanno arrestato questo e quello? "Ah, si!, Ah, si!" Ma quando Guermandi arrivò a dire: sai che hanno preso la cassa? Terracini sbottò: "Accidentaccio, questo proprio non ci voleva"».
Anche dalle parole pronunciate da Bordiga in tribunale si può comprendere quale importanza avesse il denaro per la continuità organizzativa del partito: «ci siamo preoccupati di mettere in salvo le cose più interessanti, e la cosa più interessante di tutte era la cassa del partito: si trattava di banconote inglesi per 2.500 sterline e della somma di 39.000 lire italiane. È sembrato a me opportuno tentare di mettere in salvo la somma più importante, cioè le sterline, ed ho messo questo denaro in una busta, mi sono messo la busta in tasca e sono sceso dal locale di via Frattina (...) ».
Molti anni dopo Bordiga, in una lettera al giornalista Oreste Mosca ritornò sulla questione: «Dissi [loro] subito che erano soldi del partito e della Internazionale Comunista (poi li resero) e di stare in gamba. Tremavano a toccarli! [...]. Cambiarono le sterline in vile lire e protestai per l'abuso: il corpo del reato, se vi era, doveva venire presentato tale quale al giudice».
Prima di entrare nel merito della effettiva provenienza del danaro prendiamo in esame l'argomentazione con la quale Valerio Riva ascrive agli inglesi il dono, ovviamente interessato, di tali sterline. «Come mai stavano lì?», si chiede Riva riferendosi ai documenti e al denaro ritrovati in via Frattina. Il PCd'I era un partito del tutto legale, perché dunque affittare di nascosto un locale presso un sarto del centro e far venire a Roma Giuseppe Dozza di Bologna? «Solo per sottrarsi alle attenzioni della polizia e mettersi al riparo da eventuali violenze degli squadristi? O non forse piuttosto (...) per tenere celate agli stessi compagni della federazione comunista romana l'esistenza e l'attività di quel misterioso recapito in una via di negozi di moda e di gioielleri?». Riva salta subito alle conclusioni, sostenendo che l'Inghilterra, «per ritorsione e per rompere le uova nel paniere sia a Krasin che a Mussolini» che stavano trattando il riconoscimento diplomatico dei rispettivi paesi, aveva deciso di finanziare Bordiga per creare disordini in Italia. Solo così si spiegava quello strano ufficio commerciale a Roma tenuto rigorosamente nascosto al resto del partito e i depositi clandestini di armi ritrovate in quel periodo. Ma Riva non è ancora contento, ed allora cerca di interpretare a suo modo il pensiero di Bordiga: «Tornato in Italia, sentendosi "battuto", aveva meditato la rivincita. Che ora, con i soldi degli inglesi in tasca, gli sembrava chissà possibile». Dall'ipotesi «plausibile» si passa alla certezza quasi assoluta.
L'esistenza di sedi e recapiti clandestini non ha in realtà una spiegazione che può essere associata a questo preteso finanziamento inglese. In realtà il PCd'I aveva recepito, e applicato in Italia, il modo di funzionamento del partito bolscevico prerivoluzionario che aveva costituito, accanto ad un apparato legale, una struttura illegale (e militare) che faceva capo all' "Ufficio I", diretto da Milano da Bruno Fortichiari (che agiva con lo pseudonimo di Loris). E questo già nel 1921-22, ancora prima che il fascismo conquistasse il potere, al fine di organizzare la difesa (ed eventualmente di passare all'attacco) dall'apparato dello stato democratico.
Proprio Fortichiari ha ricordato come dopo la retata, Ruggero Grieco, sfuggito all'arresto, ebbe il tempo di avvertirlo «con un telegramma convenzionale», permettendogli così di mettere in salvo sia la sede direttiva illegale che gli aderenti all'Ufficio I.
Le sedi segrete scoperte dalla polizia erano alcune delle basi che costituivano la struttura illegale del partito, conosciuta da Mosca (che ne aveva esortato lo sviluppo). Diretta da un appartenente al CE, era ovviamente tenuta separata dall'attività del Partito svolta alla luce del sole. Ipotizzare che Bordiga conducesse contro l'Internazionale una attività pratica significa non avere la minima conoscenza del partito di quegli anni e della figura di Bordiga e della sua accettazione, anche contro le sue stesse convinzioni, della disciplina proveniente da Mosca. La rivendicazione di una linea politica alternativa avveniva nelle sedi preposte al dibattito, e alla fine vi era l'accettazione delle decisioni prese dalla maggioranza nelle assisi internazionali (cosa che gli fu rimproverata in seguito dai suoi stessi seguaci).
Al momento della "battuta anticomunista" e dell'arresto dei suoi dirigenti, nel febbraio 1923, il P.C.d'I. stava attraversando un momento molto difficile. I contrasti del giovane partito con la casa madre moscovita, presenti fin dall'inizio, si erano inaspriti durante il 1922 per l'opposizione compatta di tutto il PCd'I all'ordine di fusione con il PSI. In una lettera alla delegazione comunista italiana a Mosca del 25 agosto 1922 Bordiga scriveva:
«Non si riuscirà mai a modellarci sullo stampo per la fabbricazione dei fessi in serie, perchè alle nostre opinioni coscienziosamente maturate non rinunciamo non avendole improvvisate a scopi di successo personale o di influenza sulla massa. (...) Sulla questione specifica del PSI ecco quanto: siamo contro per ragioni di principio e pratiche ad ogni noyautage anche "ufficioso" nel PSI e non tratteremo nè coi maffisti nè coi serratisti (...) Una cosa può essere certa che al IV Congresso mondiale porteremo il partito così come è costituito e indirizzato. Poi si vedrà».
Il IV Congresso dell'IC (del novembre-dicembre 1922) aveva però preso una decisione ed aveva anche scelto il nome che doveva assumere il nuovo partito: Partito Comunista d'Italia Unificato. Il CE del partito italiano era di fatto esautorato e l'IC nel giugno 1923 ne creerà "d'uffico" uno nuovo, più ligio alle sue indicazioni.
Ma per comprendere i rapporti che intercorrevano tra Mosca e il gruppo dirigente comunista italiano, e che fanno escludere qualsiasi ipotesi di accettazione di denaro "sporco" da parte del PCd'I nel condurre la sua battaglia ideologica, è utile citare una lettera che l'allora presidente dell'Internazionale Comunista G.?? Zinoviev inviò a Bordiga nelle carceri fasciste nel giugno 1923. Dopo aver lasciato intravedere la possibilità di un accordo con il Vaticano per uno scambio tra Bordiga ed un vescovo russo (il medesimo tentativo sarebbe stato tentato per Gramsci nel 1928) Zinoviev scrive:
«Ed ora la questione italiana. Devi aver sentito dai compagni delle decisioni prese qui. Sono molto dispiaciuto che tu non sia d'accordo con queste decisioni. Ma, caro amico, qui noi contiamo anche sul tuo aiuto. La situazione del Comintern in questa questione non è facile. Noi tutti ti vogliamo bene (a te e ai tuoi amici più vicini) come a dei veri combattenti, come a compagni vicini a noi nello spirito. Non è facile rimproverarti. Ma tu hai fatto parecchi seri errori. (...) Se tu, compagno Bordiga, dalla prigione ti opponi alle nostre decisioni, ci porrai in una situazione disperata. Non è possibile condurre polemiche con un amico quando questo è in prigione, ma nemmeno è possibile rimanere calmi. Devi capire tutto ciò ed aiutarci».
Come è noto Bordiga non intralciò le decisione dell'Internazionale pur continuando ad esprimere la sua avversione a tale politica. Uscito di prigione, in una lettera al CE del partito del dicembre 1923 scrisse:
«La Internazionale ha credito di mutare gli obiettivi che noi ci proponevamo (...) ma io ho il diritto di opinare che questo, senza assicurare i successi illusori che si attendevano dalla politica imperniata sulla conquista del PSI, che per me prima che impossibile, è indesiderabile, ha danneggiato il movimento comunista in Italia e il suo sviluppo».
Tuttavia la fusione tra PCd'I e PSI non andò in porto. Nel gennaio 1923 Nenni costituì un "Comitato di difesa socialista" al fine di opporsi alla fusione. Al congresso del PSI, dell'aprile 1923, che si tenne a Milano, la schiacciante maggioranza del PSI si espresse contro la fusione con i comunisti. Nella battaglia tra Serrati, favorevole, e Nenni contrario quest'ultimo ebbe la meglio. Anche Nenni e Serrati furono arrestati nella primavera del 1923. Nenni fu rilasciato il 18 marzo, proprio in tempo per partecipare al congresso socialista, mentreSerrati riacquistò la libertà solo in giugno. Alcuni storici hanno adombrato oscure storie sul fatto che Serrati fosse stato tenuto fuori circolazione nel periodo del congresso socialista per agevolare il successo di Nenni. Quest'ultimo ha ribattuto però che Serrati in carcere con l'aureola del martire era ben più pericoloso nella battaglia congressuale di Serrati libero.
Ma torniamo al problema del donatore delle sterline trovate addosso a Bordiga. I primi ad interessarsi e ad appurare la loro provenienza furono i poliziotti italiani. Se ne occupò in particolare il vice questore Consolo che ne riferì al processo. «Furono fatte - egli spiegò - indagini a Londra, dapprima in via ufficiosa e poi in via ufficiale per mezzo della Direzione della Polizia londinese: Abbiamo infatti un rapporto originale della polizia inglese circa il risultato di queste indagini. Risultò che le due prime banconote da mille sterline ciascuna erano state [e]messe a richiesta della banca Barklay di Londra e che qualche giorno dopo l'emissione queste due banconote erano state ritirate presso quella banca dal signor Krasin o da qualche suo impiegato». Continua Consolo: «La Banca d'Inghilterra per garantirsi dalla possibilità di falsificazione, poichè si era notato che molte banconote erano falsificate da qualche tempo a questa parte, anzi da parecchi anni, usa per le banconote di maggior rilievo, cioè da alcune centinaia di sterline in su, di seguirle finchè le è possibile, attraverso tutti i passaggi. Per questo la Banca d'Inghilterra ha fatto alle altre banche del Regno Unito, che hanno scambio di valute in banconote, accordi speciali. Ecco come è stato possibile che ci risultasse che le banconote di cui parliamo erano state emesse dalla banca d'Inghilterra su richiesta della banca Barklay. Gli accertamenti riuscirono per le due banconote da mille sterline; non riuscirono invece per la terza da cinquecento, perchè questa era stata emessa nel 1914 quando il sistema che ho accennato non era stato ancora adottato».
Anche Bordiga, nella lettera del 1964 già citata, sostiene il medesimo argomento: «Di fatto la banca d'Inghilterra, sola che a quel tempo emettesse un valore simile, teneva nota del primo versamento, e l'incaricato di Krasin se era più furbo doveva riscuotere allo sportello tagli minori».
Per porre poi la parola fine al problema della provenienza di questo denaro esiste un documento del Commiasrio del popolo agli esteri Maksimof????? Litvinov rintracciato in anni recenti. Si tratta di una lettera del 14 marzo 1923 indirizzata a Stalin, da un anno segretario del partito comunista bolscevico, e alla Banca di Stato russa, nella quale il diplomatico sovietico chiedeva una severa indagine per scoprire i colpevoli della violazione delle «regole di riservatezza». La rappresentanza sovietica a Londra, ribadiva Litvinov, aveva avvertito di «non utilizzare quelle banconote per gli scopi del Comintern», ma le necessarie precauzioni non erano state rispettate.
Ci pare a questo punto di aver chiarito con fatti e documenti quanto lontana sia dalla verità l' "ipotesi" di Valerio Riva.
Questa volta la verità è proprio quella che già si conosceva.
Ma vi è un altro problema affacciato da Valerio Riva che andrebbe visto. Si tratta dell'assoluzione di Bordiga e del gruppo dirigente comunista al termine del processo, del tutto straordinaria e imprevedibile dati i tempi, e sarebbe stato un segnale lanciato da Mussolini all'Unione Sovietica affinché comprendesse bene «il significato di quella vicenda».
Anche qui siamo fuori rotta. Il fascismo era al potere da nemmeno un anno non aveva ancora asservito completamente la magistratura, che manteneva (ancora per poco) una certa indipendenza rispetto al governo e al potere. I Tribunali speciali non erano ancora stati introdotti.
Una assoluzione come quella di Serrati, una pedina importante per sanare la rottura tra i due partiti della sinistra, fu accolta nel giugno da Mussolini con rabbia e ira (altro che "segnale").
Cesare Rossi ci parla della reazione di Mussolini all'assoluzione di Serrati:
«Mussolini, esasperatissimo uscì in questa frase: "È inutile, questi magistrati non voglio marciare. Ma marceremo noi. La prima volta che mi capita un altro affare del genere, mando a San Vittore una pattuglia della Milizia ad aspettare gli scarcerati. L'autorità giudiziaria li scarcera e io li fucilo. A ciascuno le sue funzioni." (...) Un secondo dispiacere Mussolini lo ebbe nell'ottobre del 1923, allorchè il tribunale di Roma assolse un primo gruppo di comunisti...».
E le sterline che fine hanno fatto? Dopo l'assoluzione di Bordiga e dopo l'amnistia del 1925, la somma rimase a disposizione del partito. Con un atto notorio, reso il 21 maggio 1926 davanti al notaio Guidi di Roma, il PCd'I riuscì a dimostrare che gli «amministratori dei beni» erano Gramsci, Maffi, Grieco, Borin e Molinelli, i quali avevano la facoltà di amministrare il partito, di stare in giudizio e, soprattutto, di riscuotere capitali. Il tribunale, con sentenza del 7 giugno 1926, ordinò al cancelliere di restituire l'intera somma (Lire 279.857) ai rappresentanti legali della associazione denominata PCI.
FINE