Pregherei i compagni di ricordare quest'ultima proposizione da cui muove il percorso che ci condurrà poi a reincontrarla, viandanti speriamo inesausti, e a suggellarla con la ceralacca di una citazione di Marx che sarà quindi sigillo non occasionale ma di buon stampo.
I stazione
Poc'anzi ho fatto riferimento all'unità sociale a carattere antitetico; ma qual'era, e la domanda è lecita come si evidenzierà più avanti, l'unità non antitetica? - Era " l'unità originaria", unità definita dall'unità dell'uomo con lo strumento e il mezzo di lavoro e l'unità dell'uomo con gli altri uomini.
Ora noi non abbiamo bisogno di indagare, qui e ora, l'avvenimento della frattura di questa unità, né di cercare le movenze progressive della sua dissoluzione - anche perché introdurrebbe tutta una serie di questioni sulla necessità della scissione originaria che adesso non è neppure il caso di menzionare.
Siamo viandanti e abbiamo fretta e avidità di sapere.
Allora andiamo presto al culmine di questo processo: una sterminata massa di individui viene a trovarsi nella condizione di avere come unica proprietà la propria capacità di lavoro e la possibilità di scambiarla contro valori esistenti.
Valori esistenti sotto le specie del patrimonio monetario che tutto può comprare, dagli strumenti di produzione allo stesso lavoro vivo.
Il denaro si è trasformato in capitale, il lavoro in lavoro salariato, la produzione non è più d valori d'uso ma di valori di scambio.
Questo il diorama della società borghese; ma andando avanti nella nostra ricognizione e s'impone una sosta.
II stazione
Davanti a noi si pone la cellula elementare della società borghese, la mercé e i suoi due lati: il valore d'uso e il valore di scambio.
Le merci come valori d'uso sono incommensurabili, possiedono qualità diverse ma come valori di scambio sono tutte reciprocamente convertibili in proporzioni e rapporti determinati. E subito cogliamo una contraddizione: come valore ogni mercé è uguale alle altre, nella realtà le merci si scambiano perché soddisfano, nella loro diversità, bisogni diversi.
Diremo ancora, abbreviando un po', che la misura di scambiabilità della mercé è determinata dalla quantità di lavoro socialmente necessario contenuto in essa ma nello scambio reale è scambiabile in quantità connesse alle sue qualità naturali e ai bisogni di chi scambia.
Spero, nei limiti di una esposizione necessariamente succinta di essere stato fin qui chiaro. Ad ogni modo l'accento posto su alcune
contraddizioni della mercé è l'intenzione costitutiva della premessa che mi conduce ad affermare che la mercé è una contraddizione reale.
Insomma, la mercé non vive nella sua identità naturale con sé stessa - valore d'uso.- ma è posta come non uguale a sé stessa cioè nel valore di scambio.
La mercé deve quindi sdoppiarsi realmente, acquistare al contempo un'esistenza diversa - (farsi valore di scambio) - dalla sua esistenza naturale che è il valore d'uso. Ponendola diversamente, possiamo dire che la naturale diversità delle merci entra in contraddizione con la loro equivalenza economica.
A questo punto è lecito affermare che il processo storico è consistito nella separazione di elementi un tempo uniti che entrano in un rapporto negativo, di negazione l'uno con l'altro cioè contradditorio. Ma ciò non comporta la scomparsa di uno dei due elementi opposti; infatti l'un non può stare senza l'altro e al contrario entrano incessantemente in rotta di collisione, l'affermazione dell'uno è continuamente negata dall'altro.
III stazione
Lo sappiamo, l'abbiamo già ribadito: il lavoro si è trasformato in lavoro salariato e quindi possiamo dire che una immensa moltitudine di individui ha un'unica risorsa per produrre e riprodurre la propria vita, vale a dire quella di scambiare la propria capacità lavorativa, la propria forza-lavoro, contro un valore, la moneta come forma della ricchezza generale. Così nell'apparenza.
Ma il rapporto non si realizza in questa maniera: lo scambio avviene differentemente.
Intanto c'è da dire che il lavoratore è pura capacità lavorativa vivente ma attenzione: questa capacità lavorativa oggettivamente non esiste.
Se il capitalista non ha bisogno del lavoro eccedente del lavoratore, quindi non del lavoro necessario alla sua sussistenza, ma del suo pluslavoro, il lavoratore non può produrre i mezzi per la sua sussistenza. L'esistenza di questo scambio è legata alle necessità di valorizzazione del capitale, determinata da circostanze che sono del tutto indifferenti alla esistenza organica del lavoratore.
Tuttavia lo sviluppo delle forze produttive necessita di una sempre maggiore produzione di plusvalore a fronte dell'espulsione di lavoro necessario, dinamica da cui consegue l'aumento della sovrappopolazione che si può identificare con il pauperismo.
Il lavoro appare dunque nella sua luce più cruda, vale a dire come povertà assoluta, povertà da intendere al di là dell'immediata accezione di indigenza ma come esclusione totale dalla ricchezza materiale generale.
Il lavoro, la capacità lavorativa si pone come non-capitale, materialità priva di esistenza oggettiva, materialità non separata dalla persona, coincidente con la sua corporeità.
Nella vendita della capacità lavorativa, nello scambio, il valore d'uso viene negato di fronte al capitale che lo valuta come pura forma astratta, creatrice di valore, che nell'operaio esiste solo come attitudine e potenzialità.
Il lavoro, quindi, diventa attività reale solo quando è sussunto dal capitale, attività creatrice di valore.
Il lavóro vivo vivifica così il lavoro morto, fomenta ricchezza ed è questa la contraddizione esplosiva. L'accrescimento delle forze produttive7 sociali, i progressi della civiltà, non arricchiscono l'operaio ma il capitale. Il lavoro dominato dalla potenza del capitale ne accresce il potere oggettivo sul lavoro.
E tutto ciò perché il lavoro nell'esistenza per sé - pensiamo a quanto già detto in analogia e similmente per la mercé - dicevo nell'esistenza per sé
nell'operaio, è antitetico al capitale. Voglio dire che il lavoro nella sua esistenza immediata non è produttivo, lo diventa soltanto trasponendosi nel capitale, nella sua negatività, e soltanto in questa movenza diventa allora valore d'uso per il capitale e valore di scambio per l'operaio.
Tutto il rapporto lavoro salariato/capitale è rapporto - vorrei invitare però i compagni a tenere sempre presenti i cenni di analisi della mercé -rapporto, dicevo, negativo e contraddittorio, dove un polo produce l'altro e al contempo produce la sua negazione.
Adduco una esemplificazione: il capitale che si presenta come prodotto del lavoro. Il capitale si presenta come entità prodotta dal lavoro ma contemporaneamente il prodotto del lavoro sì presenta altresì come capitale.
Cosa vuoi dire? Vuoi dire che il lavoro vivo ha dato una propria anima al lavoro oggettivato, al lavoro morto ma questi gli si afferma di fronte come forza possente del capitale, come minacciosa potenza estranea.
Miseria assoluta del lavoro, dunque; lavoro che impotente a porsi come essere per sé è costretto dal rapporto sociale capitalistico a porsi
come essere per l'altro, cioè per il capitale, sua proprietà e quindi nella dolente miseria di essere in opposizione a sé stesso.
IV stazione
Ho parlato del rapporto lavoro salariato/capitale ed ho rilevato che il lavoro, come capacità lavorativa dell'operaio è di per sé improduttivo: è valore d'uso solo per il capitale e semplice valore di scambio per l'operaio.
Emerge conscguentemente una domanda: ma come si determina questo valore di scambio?
La determinazione non è certamente data dal modo in cui il compratore cioè il capitalista usa la mercé ma è data soltanto attraverso il calcolo della quantità di lavoro che costa produrre l'operaio stesso, quindi come qualsiasi altra merce.
Non per essere petulante ma questa analogia ci suggerisce che è bene tenere costantemente presenti le considerazioni svolte intorno alla mercé.
Andiamo avanti.
Il libero lavoratore non ha alcun valore e questo già l'abbiamo visto; ma ciò.vuol dire anche che ha valore soltanto la disposizione sul suo lavoro attivata con lui stesso. La sua svalutazione e la sua mancanza di valore sono il presupposto del capitale e la condizione del lavoro libero in generale. E' l'appropriazione del lavoro da parte del capitale, quindi la negazione del lavoro libero, che consente di farne il momento fondamentale del suo processo di valorizzazione: il lavoro si trasmuta nel fermento che agisce con feconda vitalità sulla materialità oggettivata del capitale; reiterando ancora, lavoro vivo che vivifica lavoro morto.
Ho accennato al processo di valorizzazione del capitale che potremmo anche definire processo di autovalorizzazione cioè sia la sua valorizzazione che la sua moltiplicazione: è il lavoro appropriato dal capitale che vivifica tale processo il cui fine è il prodotto nel quale la materia prima, che però è stata a sua volta prodotto, si presenta congiunta
con il lavoro e lo strumento di lavoro da possibilità si è tradotto in realtà.
L'intero processo è allora consumo produttivo ossia consumo che non finisce nel nulla ma si pone al punto terminale nuovamente come oggetto. L'attività formatrice del lavoro forma l'oggetto trasformando l'indifferenza alla sua forma originaria e materializzando l'attività stessa -prodotto infine come valore d'uso.
Ma il lavoro che vivifica non è quello che si trova nella moltitudine degli individui, soggettivamente presente come capacità lavorativa. E' invece il lavoro appropriato dal capitale tramite lo scambio ossia dando in cambio l'equivalente nella forma della ricchezza generale, in altri termini del denaro.
Apparenza, ciò è solo apparenza.
In realtà l'operaio ottiene sì denaro ma solamente nella sua determinazione di moneta cioè come mediazione; mediazione che non fa accedere l'operaio ad un autentico valore di scambio e quindi realmente alla ricchezza generale, ma gli consente l'accesso ai meri mezzi di sussistenza atti a conservare la sua vitalità e a soddisfare i suoi bisogni storici, predeterminati dalla produzione capitalistica.
In altri termini il costo di produzione del suo lavoro, la cui disposizione su di esso cede l'operaio.
E tale è il salario.
V stazione
Ma allora se il lavoratore libero non può svolgere il lavoro necessario per produrre i mezzi del suo sostentamento perché il capitalista non ha bisogno del suo lavoro eccedente - di questo già si è accennato un po' di parole or sono - che cosa succede a costui, cosa gli capita e come sopravvive?
Egli ottiene i mezzi necessari alla sua sussistenza perché - cito in parafrasi Marx perché il passaggio è di estrema importanza - una parte del reddito va a lui sotto forma di elemosina.
Due considerazioni immediate mi sembrano ora necessarie. La prima che bisogna purgare il sostantivo elemosina da imbarazzi teologali -dissociamolo, voglio dire dalla fede e dalla speranza - e valutiamolo invece come altra maniera di definire la forma con cui il capitalismo mantiene i suoi schiavi.
La seconda, che è comunque connessa dalla prima e da lì si sviluppa, ci rimanda a considerare che tale espressione adotta la forma di intervento - non ha poi molta importanza se pubblico o privato - che possiamo ritrovare sotto le specie dello Stato assistenziale moderno.
Mi rendo conto che il passaggio è un po' rozzo ma la specificità delle forme in cui il proletariato riceve minime parti di reddito va ad investire una discussione, il cui lavoro preliminare di ricerca degli istituti e delle norme preposte alla bisogna avrebbe debordato dalla cornice del quadro astratto, in senso marxiano, dell'unità capitalistica che ho cercato di rappresentare.
Detto ciò, torno all'esposizione anche per concludere.
VI stazione
Abbiamo incontrato, nel processo di valorizzazione del capitale, elementi di negatività e contraddittorietà e tra questi il salario come prodotto dello scàmbio tra operaio e capitale.
In questo scambio l'operaio non produce alcuna ricchezza: questo accade dopo, come già abbiamo visto, nel processo produttivo. Per il capitalista il salario è una cessione di ricchezza, per l'operaio la possibilità di procurarsi i mezzi di sussistenza sotto la forma del salario.
Ma il salario non gli permette mai l'accesso alla ricchezza. Vediamo il perché a volo di uccello.
La vicenda dello scambio delle sua mercé - stiamo parlando della capacità lavorativa dell'operaio legata alla sua corporeità - percorre la sequenza M-D-D-M cioè da un valore d'uso al consumo diretto della mercé come oggetto diretto di un bisogno: da un valore d'uso all'altro, il cui consumo permette all'operaio la mera ricostituzione della sua capacità lavorativa, sempre e soltanto la sua sola proprietà, peraltro, come abbiamo visto, di per sé inane, miseria assoluta.
Per il capitale invece la dinamica delle sequenza è rappresentata da D-M-M'-D'. Risulta solare che la forza lavoro appropriata attraverso lo scambio dal capitale è quella che fermenta M che può anche essere descritto, divisandolo, nei suoi elementi costitutivi T e Pm, rispettivamente forza lavoro e mezzi di produzione.
Sviluppare la formalizzazione è qui di scarso momento; più importante invece sottolineare che il salario è premessa costitutiva del ciclo produttivo in cui è sussunta la forza lavoro appropriata che come tale, come mercé T, elementarità di M - questo mi sembra cruciale - vivifica Pm, che genericamente si connota come mezzi di produzione e materie prime, lavoro morto insomma, e permette la trasformazione di D in D1, il compimento del processo di auto valorizzazione del capitale.
Ed è sempre e soltanto come mercé che viene pagata la quantità di lavoro necessaria alla sua riproduzione, cioè alla riproduzione della capacità lavorativa, l'unica e straordinaria mercé che permette il processo di auto valorizzazione del capitale.
Ma senza diventare mercé è soltanto capacità lavorativa che manca di qualsiasi oggettività; per attingere l'oggettività deve negare sé stessa, porsi fuori dalla sua materialità, sotto il comando del capitale. Miseria assoluta del lavoro che si nega per esistere oggettivamente ma che al contempo, al di là dei mezzi di sussistenza nulla possiede e di fronte a sé, vede soltanto aumentare la potenza del capitale. Tale la negatività e la deflagrante contraddizione tra lavoro salariato e capitale.
E questo mi sembra sufficiente.
Epilogo
Però per chiudere il percorso, irto di negatività e contraddizioni, massa di contraddizioni, seppure non analizzate con la dovizia necessaria, antitetiche dell'unità sociale, tornerò alla proposizione che avevo consegnato alla memoria dei compagni per farne discendere un passo di Marx, sempre presente in ogni passaggio dell'esposizione seppur mai esplicitamente citato:
".. .Una massa di forme antitetiche dell'unità sociale, il cui carattere antitetico tuttavia non può mai essere fatto saltare attraverso una pacifica metamorfosi. D'altra parte, se noi non trovassimo già occultate nella società, così com'è, le condizioni materiali di produzione e i loro corrispondenti rapporti commerciali per una società senza classi, tutti i tentativi di farla saltare sarebbero altrettanti sforzi donchisciotteschi".