È chiaro che trattare problemi legati a cambiamenti storici di tale portata è possibile da parte nostra solo se li si lega alla rivoluzione comunista, perché "la rivoluzione proletaria è l'unica in grado di gettare le basi del comunismo, e queste sono rappresentate dall'estensione del meccanismo di accumulazione capitalistico dove non esiste ancora" .
Il fondamento della rivoluzione capitalistica legato alla terra è dato dal fatto che (vedi Marx) il capitale, incorporandosi la forza lavorativa e la terra …, acquista una potenza di espansione che gli permette di aumentare i suoi elementi di accumulazione oltre i limiti apparentemente fissati dalla sua grandezza, vale a dire oltre il valore della massa degli oggetti prodotti, nella quale esso consiste.
In stretto legame con Marx, Lenin e la nostra corrente, va sostenuto che non è fondamentale il dominio politico della borghesia per sviluppare le basi del comunismo (ilcapitalismo): tale fase politica si può saltare a favore della dittatura del proletariato se questa ha la possibilità 'immediata' di legarsi alla rivoluzione comunista mondiale.
Con la Russia degli anni '20 questo non riuscì ed il processo rivoluzionario si fermò allo sviluppo del capitalismo nel mondo intero, cancellando quasi del tutto ogni ricordo legato al classico programma rivoluzionario, senza poter cancellare però i rapporti sociali che le hanno generate in passato.
La crisi generale del modo di produzione capitalistico – data la sua volontà di auto-conservazione – riprodurrà incessantemente l'opportunismo nelle sue svariate forme. All'interno di questa crisi generale, va sottolineato che la crisi agraria è crisi del capitalismo, dato che nei precedenti modi di produzione le crisi potevano essere date da fattori naturali (inondazioni, terremoti, ecc.), mai da crisi cicliche prodotte dallo stesso modo di produzione. Con l'estendersi del modo di produzione del capitale si estende la possibilità delle crisi cicliche agrarie, perché ormai tutto è merce e mai la merce sfamerà l'uomo.
Una delle caratteristiche fondamentali della nostra corrente è stata quella di combattere nella I.C., fin dalla suo II° congresso del 1920, ogni insufficienza nelle formulazioni tattiche, perché questa avrebbe portato prima sul terreno della confusione e dell'opportunismo e poi letteralmente a 'volger le terga' alla rivoluzione. La 'grande confessione' della fine anni '80, attesa fin dagli anni '50, non sarà altro che il risultato finale di un processo partito ben 70 anni prima.
Con l'abbandono della tattica del II° congresso, nonché del congresso a Bakù (1920) dei popoli soggetti all'imperialismo; abbandonando quindi l'impostazione programmatica che le lotte dei popoli 'colorati', nonché la stessa Russia, dovevano legarsi strettamente allo sviluppo della rivoluzione mondiale, il problema venne rapidamente capovolto: le rivolte anticoloniali dovevano rientrare nel quadro del sostegno all'Unione Sovietica, 'patria del socialismo', e se questa abbisognava dicompromessi con forze che potevano soddisfare i suoi interessi, l'obbiettivo della lotta vi si doveva adeguare. 50.000.000 di morti nella rivoluzione cinese furono il risultato dell'appoggio dato alle forze del Kuomintang, mentre questo attaccava il PCC ed i contadini che lo appoggiava.
Oggi, che il ciclo capitalistico si è ormai compiuto alla scala mondiale e nella sua forma più barbara, si può ben dire che la crisi agraria e conseguentemente la 'fame nel mondo', sono prodotte dal capitale che espropria i contadini della terra, rendendoli 'uomini obsoleti'; facendo produrre alla terra merci che milioni di uomini non possono acquistare; aumentando la forza produttiva sociale utilizzata solo per dirottare una sempre maggior quota di plusvalore verso la rendita ed il capitale parassitario.
E tutto ciò verifica, ad onta dei vergognosi interessi e delle ancor più vergognose ideologie con le loro vernici più o meno democratiche, la legge marxista della miseria crescente (relativa ed assoluta) delle masse proletarizzate nel mondo.
Il primo dei testi pubblicati in questo volume è La questione agraria (apparso su Il Comunismo nel 1921. Esso è un 'saggio popolare', pur se trattato con quell'estremo rigore che nulla vuole concedere al luogocomunismo.
La propaganda fra le masse contadine è sempre stata estremamente difficile non tanto per la complessità dei temi trattati (i proletari operai, testimonia Bordiga, molto spesso capivano al volo certi temi che restavano ostici per quasi tutti i 'luminari della cultura'), quando per le condizioni della loro vita materiale che erano date dall'isolamento nella terra, dall'orizzonte organizzativo della famiglia, dal confine naturale del campo, ecc..
Questo ovviamente non deve portare i comunisti ad adattare la propria propaganda al terreno cui è rivolta: in ciò la polemica con il vecchio Partito socialista italiano e la sua propaganda che poneva "socialismo uguale abolizione della proprietà privata della terra; la terra a chi la lavora". Per i comunisti queste sono formule semplici da digerire ma false e contraddittorie.
Il capitalismo non è tanto un regime di 'proprietà privata', quanto di disponibilità privata, appropriazione privata dei prodotti del lavoro associato. Già il capitalismo, per la stragrande maggioranza degli uomini è negazione della proprietà ed il comunismo, che è la negazione della negazione, porta a sopprimere totalmente il concetto stesso di proprietà, caratterizzandosi per totale disponibilità sociale dei prodotti del lavoro associato.
Questi non sono bizantinismi, ma necessarie precisazioni teoriche per permetterci di affrontare correttamente l'inganno storico della Russia 'socialista' e di qualsiasi altro 'socialismo in un paese solo'. In Russia, ad esempio, vi fu la preponderanza dei Sovcoz (azienda agraria statale con salariati puri), rispetto ai Colcoz (piccola proprietà contadina, pur nella forma della cooperativa), dimostrando la maggiore produttività di un'azienda pienamente capitalistica con puri salariati.
In assenza di una rivoluzione proletaria, non è possibile alcuna riforma agraria che affranchi dalla piccola produzione a carattere familiare ed i piani di riforma agrariaformulati dalla borghesia, si sono sempre arenati di fronte al problema dell'indennizzo, perché il valore medio del terreno agricolo non permette al piccolo proprietario di vivere diversamente da prima.
Il proletariato vittorioso nei paesi avanzati dovrà fare ancora i conti con quegli strati sociali ancora legati all'artigianato o alla piccola produzione agricola. Nei paesi arretrati, invece, la dittatura del proletariato – in assenza dell'apporto della rivoluzione mondiale – dovrà farsi carico del passaggio dall'economia precapitalistica a quella capitalistica, e realizzare in prima persona il matrimonio fra la 'terra vergine ed il capitale satiro'.
In ogni caso il problema da risolvere è sempre tecnico-produttivo. Sia che si tratti di piccole proprietà, sia di grandissime proprietà unitarie solamente dal punto di vista del diritto borghese, non va dimenticato che il processo produttivo nelle campagne si basa prevalentemente sulla piccola produzione a conduzione familiare.
Dato questo, il partito dovrà sempre essere consapevole che l'esproprio senza indennizzo incide sul rapporto giuridico, non sul meccanismo dell'accumulazione agraria.
L'impostazione della tattica del partito rivoluzionario è dunque chiara: mentre la parcelizzazione della grande azienda con puri salariati sarebbe un arretramento storico, l'assegnazione della terra già parcellizzata rappresenta una potente arma politica per sollevare i contadini contro l'ordine esistente.
È chiaro che per l'area euro-americana, dove non esiste più la piccola produzione agricola destinata per lo più all'autoconsumo, il problema non si pone più come tecnico-produttivo, quanto politico: i produttori di questo tipo saranno difficilmente nautralizzabili.
Da un punto di vista storico, assistiamo a tutta una serie di 'jacqueries', esplosioni popolari e contadine contro le vessazioni che di volta in volta queste masse sono costrette a subire. Queste non sono mai accompagnate da consapevolezza politica, ma ciò non significa che l'atteggiamento dei comunisti sia di aristocratico distacco accompagnato da moralistico giudizio contro gli eventuali 'eccessi': al contrario, il marxismo cerca sempre di collocare tali lotte nel quadro del succedersi delle forme e della forza produttiva sociale.
L'esempio della rivoluzione in Francia del 1789 e '93 mostra come superata la prima fase del ribellismo, borghesi, proletari e contadini, lottano insieme per l'obbiettivo comune del superamento del vecchio ordine feudale. Ed è solo col raggiungimento di tale obbiettivo che si realizza la possibilità di separare i contadini dalla borghesia e di legarli al proletariato urbano.
Il problema dunque del rapporto con i contadini impone una tattica specifica non dettata da scelte di carattere emotivo che deve essere una, esclusiva, imposta dalle diverse condizioni geostoriche, e che in ogni caso deve poggiare rigorosamente sulla base del programma comunista del proletariato. Atteggiamento ben diverso dunque da quello indicato da una Internazionale comunista ormai stalinizzata che, di fronte alle possibilità del moto indipendente del proletariato in Cina – negli anni 1925-'27 – e del legame ad esso delle masse povere delle campagne, era preoccupata unicamente di 'non spaventare' la piccola borghesia cinese, con movimenti troppo radicali. La realtà mostrerà ben presto che non è la piccola borghesia che si evita di spaventare, ma l'insieme di tutta la borghesia. Tanto è vero che, di fronte ai massacri che il Kuomintang opera nei confronti dello stesso PCC, il 'radicale salto' del Comintern sarà dato dall'indicazione della "confisca delle terre dei soli borghesi reazionari": di fronte al rimanente della borghesia, si possono dunque fare dei 'ragionevoli sacrifici'.
L'esempio della Cina è illuminante. Nel 1926 in Cina, area immensa dove poteva essere applicata la doppia rivoluzione di Lenin e dove si poteva aprire la via all'intera Asia; in Cina dove la questione agraria avrebbe trovato applicazione con immense conseguenze, si posò invece una definitiva pietra tombale sull'epoca rivoluzionaria aperta con l'Ottobre rosso.
Nei lavori prodotti dopo il '45 e raccolti in parte in questo volume, vi è una continua polemica contro i falsi partiti 'socialista' e 'comunista', i quali vorrebbero perfino dimenticare la stessa terminologia in auge trant'anni prima. La 'democrazia' è ormai diventato il valore assoluto attorno al quale deve svilupparsi la strategia e la tattica del movimento operaio e contadino, il quale deve ormai brandire, come propria esclusiva arma, l'aritmetica del 'voto'.
Non vi sono più classi ma 'cittadini' che votano. È dunque normale considerare che – se non proprio il grande proprietario fondiario (un po' di pudore, perdio!) – il piccolo e medio proprietario, l'affittuario, il salariato agricolo, sono cittadini uguali di fronte allo Stato e al 'voto', ed il grande sommovimento sociale che si fa intravvedere è al massimo che il morto di fame può passare nella classe dei proprietari di fazzoletti di terra da morti di fame … che magari saranno immediatamente costretti a vendere per vivere un giorno in più, … prima di morire di fame.
Su questa illusione, soprattutto nell'Italia del Sud si sviluppò l'aspettativa dell'assegnazione della terra, con l'aiuto iniziale dello Stato che avrebbe raccolto i capitali necessari dal plusvalore prodotto dai salariati dell'industria.
Ma il tutto è destinato a finire con una grande illusione. "Chi promette terra promette guerra", e se non si poté pareggiare la terra disponibile col numero di braccianti che la richiedevano, si sostituì la mancanza della prima con un'abbondante quantità di fucilate della polizia di Scelba. La contrapposizione fra i partiti nei confronti degli affamati di terra non può andare nella direzione di indicare una reale – e d'altra parte impossibile sul terreno del diritto borghese – soluzione del problema agrario; l'unico obbiettivo di questi partiti è di legare le masse dei lavoratori della terra alla strategia politica di sostegno al proprio partito e quindi al carrozzone dello Stato.
Contro dunque la politica dello parcellizzazione improduttiva della terra, si osserva che "la tecnica imporrà il vasto appoderamento, di dimensioni variabili, ma non comparabili a quella della famiglia" (da Questione agraria e opportunismo).
Al confronto del periodo fascista, che almeno ha tentato di dare soluzione centralizzata al problema della terra (vedi bonifiche varie), lo Stato democratico uscito dalla seconda guerra mondiale riesce solo a chiacchierare sulle più diverse 'riforme di struttura' che altro non sono che distribuzione del plusvalore a soggetti che a volte si chiamano mafia, a volte Ente di Stato, ecc..
La lotta dei piccoli contadini contro i grandi proprietari va sempre affrontata seriamente, ma un valore ha tale lotta in aree precapitalistiche, un altro in aree già imperialisticamente mature. In ogni caso, la tattica da seguire nelle diverse aree dovrà essere legata sempre alla prospettiva della grande organizzazione tecnico-produttiva della società di domani.
La stessa struttura cooperativa non può indicare la soluzione, a meno che (ma non è 'soluzione') tolto il reddito per i bisogni immediati di chi vi lavora, profitto e rendita non vengano reinvestiti nel capitale-terra – qui si fa il classico esempio delle cooperative dell'Emilia Romagna – per aumentare il volume della ciclica valorizzazione: ma allora significa diventare né più né meno che una classica azienda industriale capitalistica sull'esempio del gruppo Ferruzzi o, a scala mondiale, Nabisco, ecc..
Ben diversamente dalla politica di ogni partito stalinizzato, nel programma della rivoluzione comunista sarà indicato chiaramente di a) accorpare e non parcellizzare i fondi agricoli, b) eliminare la proprietà in modo da unificare la rendita sotto il controllo dello Stato, c) sviluppare il lavoro salariato in modo che fra questo e lo Stato non vi siano intermediari parassiti, che deviando plusvalore verso le proprie borse e pance diventano un volano per la conservazione sociale.
"Le forme degeneri ed immonde dei partiti che oggi abbindolano i lavoratori italiani possono definirsi, degnamente, come: la mezzadria del filisteismo fra classe dominante e classe dominata. In che, sta la morte della rivoluzione" (da Ospiti di terra matrigna).
Se la questione delle campagne assume grande importanza principalmente dal punto di vista sociale, dato l'esproprio continuo di una gran massa di contadini, maggiore importanza assume il problema della rendita legato allo sfruttamento dei terreni immediatamente legati alla produzione capitalistica ed alla formazione dei flussi finanziari: materie prime, miniere, ecc.. (Vedi Drammi gialli e sinistri, e Mai la merce sfamerà l'uomo).
Il capitalismo non ha frontiere, anche se si presenta come somma di unità nazionali con le relative borghesie contrapposte l'una all'altra, con distinzione di lingua e tradizioni. Al Capitale non interessano tali distinzioni ed esso va ad impiegarsi dove maggiormente e più velocemente può realizzare la propria valorizzazione.
Comprendere chiaramente il problema del rapporto della rendita fondiaria col capitalismo, significa collocare chiaramente il problema delle lotte di liberazione nazionale anticoloniali.
La comprensione storica dell'occupazione delle più diverse aree geografiche precapitalistiche da parte di paesi giunti al capitalismo, si lega alla comprensione della fame di materie prime per permettere l'ulteriore sviluppo del capitalismo stesso, dunque l'ulteriore sviluppo del lavoro associato. La lotta contro lo 'straniero' non ha alcun substrato morale per i comunisti: una tale lotta va appoggiata unicamente in quanto permette di accelerare in loco lo sviluppo capitalistico che l'imperialismo non avrebbe alcun interesse a sviluppare oltre i suoi primi elementi: miniere, strade e ferrovie, porti, all'unico scopo di portare in patria quanto depredato in quelle aree di sfruttamento coloniale.
Viene ricordato a questo punto la differenza fra la rivoluzione borghese in Inghilterra e in Francia: la prima vede la grande proprietà fondiaria perfettamente borghese fin dalle sue origini rivoluzionarie; la seconda vede la grande parcellizzazione che pone fine alle grandi proprietà fondiarie di carattere feudale (in appendice al volume L'era fasulla degli elisabettini).
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La questione agraria (Il comunista, giugno-luglio 1921)
(da una serie di articoli comparsi nel periodo giugno-luglio 1921 nel Comunista di Milano).
Il presente lavoro si pone il compito di tracciare brevemente gli elementi fondamentali, pur se nei suoi tratti generali, del problema agrario.
Prologo
Nel programma del comunismo rivoluzionario, fra gli altri compiti, deve essere chiaramente formulato il problema del passaggio dall'economia capitalistica a quella comunista, anche sul terreno dell'agricoltura e delle forze sociali che vi sono legate. Il presente lavoro di carattere sopratutto polemico vuole combattere le assurdità portate avanti dalle forze socialdemocratiche.
La produzione a tipo capitalista
Il comunismo non è dato dal passaggio dalla proprietà privata alla proprietà collettiva. Con maggiore precisione storica deve parlarsi di passaggio dalla proprietà capitalistica dei mezzi di produzione e di scambio alla loro gestione collettiva. Non ogni forma di proprietà privata è proprietà capitalistica; ed è solo la forma capitalistica di proprietà che ci presenta le premesse sufficienti per passare al socialismo, al comunismo.
In ogni epoca vi è 'produzione' e dunque ' organizzazione' di tale produzione. Qui interessa definire il carattere di 'intrapresa produttiva capitalistica' e quindi, dato l'enorme sviluppo della tecnica e della costruzione di macchine, comprender bene i concetti di divisione del lavoro e di lavoro associato.
Non è possibile parlare di lavoro associato finché la produzione di quanto abbisogna agli uomini può essere sviluppata individualmente, oppure in piccole botteghe artigiane. Solo quando si sviluppa la tecnica, le macchine (telai, ecc.), e soprattutto macchine motrici che muovono in grande quantità altre macchine, con un'enorme risparmio di forza lavoro (perché prima dispersa in tanti luoghi) ora associata in pochi luoghi: solo ora si può parlare di forza-lavoro associata che vede una specializzazione ed una divisione dei compiti in operazioni sempre più semplici.
Solo a questo punto dunque possiamo parlare di produzione capitalistica compiuta. Con la rivoluzione tecnica avviene pure una rivoluzione nei rapporti di proprietà, perché l'artigiano, diventando salariato, viene espropriato dei propri strumenti di produzione e dunque perde pure il diritto di disporre dei prodotti del proprio lavoro che, a questo punto, appartengono al 'proprietario' dell'impresa.
Non si vuole qui parlare dello sfruttamento dei lavoratori. Qui si vuole sottolineare come questa rivoluzione tecnica ed organizzativa della produzione, si traduce nellaappropriazione privata del prodotto del lavoro associato da parte dei capitalisti.
È secondario il fatto giuridico della proprietà dell'azienda, della fabbrica. Considerando che il proprietario di un'azienda potrebbe non essere proprietario degli strumenti di produzione, l'espressione consueta 'proprietà privata dei mezzi di produzione' si traduce con molta maggiore chiarezza nella 'appropriazione privata dei prodotti del lavoro associato'.
Dalla produzione capitalistica al socialismo
Passando dall'utopismo al programma scientifico quale lo elaborò K. Marx, va subito detto che il socialismo non può essere caratterizzato da formule etico-giuridiche, ma da concetti economico-storici. Di fronte a formulazioni del tipo 'i comunisti mirano ad abolire la proprietà privata ed a mettere tutti i beni in comune', dobbiamo dire che queste sono formulazioni al massimo da propaganda immediata e nulla più.
La rivoluzione capitalistica stacca il lavoratore dal possesso dei propri strumenti di produzione e quindi il suo lavoro diventa 'lavoro altrui'. Con questa rivoluzione – che è in ogni caso rivoluzione interna alla specie – si creano le condizioni per la miseria crescente dalla maggior parte dell'umanità a beneficio di una infima parte della popolazione.
Il socialismo diventa la soluzione materiale di queste contraddizioni proprie di una data epoca storica, la nostra. Esso vuole abolire la separazione del lavoratore dallo strumento di lavoro e dal prodotto, ma vuole e deve abolirla senza intaccare la reale conquista dei progressi della tecnica: l'associazione e la specializzazione del lavoro. In altre parole: abolizione della appropriazione privata dei prodotti del lavoro associato, socializzazione delle aziende capitalistiche di produzione. Una prima conseguenza immediata è data dal fatto che la sua ripercussione nella distribuzione è l'abolizione del libero commercio dei prodotti, la cui distribuzione si farà centralmente da organismi che regolano la produzione al bisogno collettivo.
Va da sé che lo stesso discorso è valido immediatamente per i servizi pubblici, molti dei quali non possono essere concepiti come imprese private, nemmeno in regime borghese.
Deve essere chiaro che la trasformazione economica verso il socialismo potrà aver luogo a seguito dell'esercizio della dittatura da parte del proletariato. In questa situazione politica, verrà messo in atto, nel modo più celere possibile, la socializzazione delle grandi imprese, lasciando 'libere' le piccole imprese al gioco delle fluttuazioni di un capitalismo ancora esistente (quello della fase di transizione): non vi è infatti alcuna convenienza di caricarsi dei problemi delle piccole imprese, sapendo che in ogni caso entro breve tempo queste saranno assorbite dalla accelerazione che la socializzazione delle grandi imprese produrrà sull'insieme del tessuto produttivo.
La sopravvivenza per un certo periodo di tali piccole imprese non intaccherà la struttura del potere del proletariato. L'abolizione della proprietà privata è formula inesatta: questo problema non va letto con formulazioni filosofiche vuote di contenuto reale e scientifico. Nessuno pensa di abolire l'uso privato (o 'proprietà privata', se proprio questo concetto sta a cuore) di oggetti personali, e così via.
Il problema fondamentale non è l'abolizione di questa o quella intrapresa privata capitalistica, quanto la abolizione dell'insieme della forma capitalistica di produzione.
La produzione agraria nell'epoca del capitalismo industriale
Volendo cercare nell'agricoltura il tipo corrispondente all'artigianato nel campo della produzione industriale, dovremmo parlare della piccola proprietà rurale, dove il piccolo contadino – proprietario del fazzoletto di terra che coltiva con la sua famiglia – è proprietario dei prodotti che riesce a ricavarne, libero di vendere quel poco che gli resta dopo aver soddisfatto i bisogni domestici.
Accanto alla piccola proprietà vediamo la grande proprietà fondiaria, nelle più svariate forme. Questa esiste da tempo immemorabile e ciò mostra come dal paragone fra artigianato e piccola produzione agricola non si possa mettere in relazione la grande produzione industriale con la grande proprietà agraria. Ciò che caratterizza la prima è il lavoro associato in un sol luogo di una grande massa di lavoratori grazie all'uso di uno sviluppo enorme della tecnica produttiva (procedimenti meccanici, macchine, ecc.), mentre la grande proprietà agraria – che è essenzialmente espressione giuridica – può esistere benissimo all'interno di aree non capitalistiche e servirsi di tecniche produttive arretrate simili a quelle usate nella piccola proprietà. Altra importante differenza è data dalla divisione del lavoro che porta ad una vera e propria specializzazione esistente nell'industria. Nella grande proprietà agraria possiamo parlare di lavoro collettivo, non di lavoro 'associato'. La grande proprietà rurale non è nemmeno necessariamente una grande 'azienda', se a tale concetto integriamo quello di unità produttiva.
Dall'antichità, la classe sfruttata va cercata nelle campagne e, giunti al Medio Evo, la troviamo legata alla 'zolla' (gleba) dove è nata e al 'servaggio' nei confronti del signore feudale.
La rivoluzione borghese porta finalmente la libertà dal legame con la zolla e la servitù per rendere ognuno libero di vendere la propria forza lavoro, e poter andare così ad ingrossare l'esercito industriale del lavoro associato: necessità imposta dal superamento del lavoro artigianale verso la manifattura prima e la grande industria poi.
Non si deve considerare distinta la moderna proprietà fondiaria da quella antica, per la semplice indicazione giuridica delle mappe catastali o la piena libertà di compra-vendita della terra che veda l'antica grande proprietà modificarsi in un gran numero di piccole proprietà. Non è tanto dunque il fattore 'proprietà' quello che distingue la nuova forma agraria dall'antica, quanto la sua trasformazione in moderna proprietà agraria, che si potrebbe chiamare agrario-industriale, che segue quella della classica produzione industriale nell'uso delle applicazioni della tecnica moderna.
L'evoluzione dell'intrapresa agraria
Mentre da molto tempo ormai (1921) non si può parlare di industria senza parlare di applicazione in grande stile delle moderne scoperte meccaniche, ciò non può dirsi per l'agricoltura se non in forma sporadica.
La moderna azienda agraria non è dunque la regola della produzione agricola, nemmeno nei paesi più progrediti e ciò e dato principalmente dalla natura stessa della produzione capitalistica che vede necessario, accanto all'investimento crescente di grandi masse di capitale, l'aumento di valore di questo capitale in cicli produttivi sempre più veloci: ed i cicli stagionali della terra e della produzione agraria non possono mai eguagliare quelli della produzione industriale e dell'affarismo finanziario.
Laddove si colga la possibilità di grandi investimenti di capitale nella terra, è solo nella grande azienda agricola che ciò si realizza, grazie all'applicazione di macchine industriali, grandi estensioni di terreno, diversificazione delle produzioni, e divisione del lavoro fra i diversi lavoratori ormai diventati salariati e dunque privati di qualsiasi diritto sui prodotti del loro lavoro. È questo il tipo di aziende pronto per essere pienamente gestito dalla dittatura del proletariato che, come per le tradizionali grandi unità industriali, è pronta a subentrare al superato imprenditore privato.
Per sgombrare il terreno da ogni confusione, è bene dunque parlare non della futura collettivizzazione 'della terra', quanto della collettivizzazione dell'azienda agraria, e porre via via sotto analisi altri tipi di proprietà agraria che stanno fra la piccola e grande proprietà di cui si è appena parlato.
La grande proprietà agraria tradizionale
Come per la piccola produzione artigianale, così per la piccola produzione agricola non si pone il problema del diretto passaggio alla collettivizzazione, lasciando alla fase di transizione dal capitalismo al comunismo la possibilità che essa venga assorbita dalla grande produzione.
Accanto alla grande proprietà agraria di tipo aziendale unitario, possiamo trovare giuridicamente una grande proprietà con al proprio interno i caratteri della piccola produzione (vecchi metodi di produzione, scarso utilizzo di macchinario, ecc.). Non vi è in ogni caso una continuità 'storica' che assicuri il passaggio da questo tipo di proprietà a quella unitaria capitalistica.
Senza voler trattare il problema nella sua massima profondità, possiamo affermare che esistono ancora forme di proprietà agraria di tipo feudale, che attendono la propria rivoluzione borghese, quali sono esistite fino a ieri in Russia e che esistono ancora in Asia, ecc.. Qui il contadino è sfruttato fino al più assoluto abbrutimento.
Tuttavia, la differenza sta nel fatto che i rapporti di sfruttamento non si caratterizzano sul terreno economico ma su quello giuridico che impedisce al lavoratore ed alla sua famiglia di abbandonare il terreno sul quale vive. Dal punto di vista dei rapporti economici (tralasciando le rivendicazioni giuridiche delle rivoluzioni borghesi) la grande proprietà agraria di tipo feudale si presenta come somma di piccole imprese a conduzione familiare, la cui produzione, una volta sfamata a stento la famiglia stessa, deve soddisfare i bisogni del signore e dei suoi lacchè.
È evidente che da un assetto produttivo di tal genere non si può passare direttamente alla grande produzione collettivistica organizzata dal potere del partito comunista.
Vi sono delle forme di possesso collettivo della terra da parte di piccole comunità (es. usi civili italiani, mir russo, ecc.): resti che ricordano sì l'antico 'comunismo primitivo', ma che non hanno nulla in comune con la possibilità di facilitare il passaggio al comunismo futuro.
Detto questo è utile uno sguardo su quelle forme della grande proprietà agraria dove i rapporti giuridici sono pienamente borghesi, ma in cui non è stata raggiunta una organica unità produttiva. Qui la proprietà è divisa in tanti lotti affidati a famiglie di contadini con rapporti di 'mezzadria' (dove il prodotto viene diviso a metà col proprietario), con rapporti di 'affitto' a prezzi oscillanti ('estaglio' nell'Italia meridionale: contratti a cottimo).
Ora, al di là delle particolarità contrattuali fra contadini e grandi proprietari fondiari, bisogna comprendere che le proprietà di questi ultimi non sono unità produttive all'interno delle quali vi sia specializzazione e divisione del lavoro, producente una unione integrale di lavoratori associati, come nelle grandi imprese industriali ed anche agricole. Qui, il puro cambiamento giuridico nei titoli di proprietà – il semplice passaggio della proprietà privata alla gestione collettiva – non altererebbe l'esistenza del frazionamento nella piccola produzione parcellizzata.
In conclusione, le condizioni dello sfruttamento della terra nel caso della grande proprietà tradizionale (ossia non raggiunta dalle grandi innovazioni tecniche) sono assai più prossime a quella della piccola azienda che a quella della grande azienda agraria industrializzata e socializzabile.
Dal latifondo all'agricoltura industrializzata
Come la grande proprietà rurale 'tradizionale' va considerata come diretto derivato del feudalesimo, così il suo proprietario assomiglia più al vecchio signore feudale che al nuovo proprietario imprenditore capitalista il quale, a differenza del primo, diventa motore fondamentale del rivoluzionamento del processo produttivo, con l'apporto di grandi capitali e l'introduzione di continue innovazioni tecnologiche. Il grande latifondista agrario è per lo più privo di grandi capitali: se li avesse li investirebbe nell'industria o in qualsiasi altra speculazione, più che nello sviluppo della tecnica agraria della sua proprietà.
In certi casi, possiamo trovare nei latifondi la presenza di coloni, o di affittuari o di salariati veri e propri; in altri casi si può assistere al subaffitto a piccoli contadini da parte di grandi affittuari.
Le necessità che vanno oltre alle possibilità del singolo contadino spingono alla cooperazione o all'affittanza collettiva, ma queste sono ancora lontane dall'unità organica produttiva integrabile nella più generale collettivizzazione.
Molta confusione c'è nei socialisti sulla differenza fra azienda e proprietà e questo li porta a dire che, essendo noi contro la piccola produzione, dovremmo favorire la grande proprietà. Ora, pur considerando che tanto la piccola proprietà quanto la grande proprietà tradizionale siano lontane dalla possibilità della collettivizzazione, dobbiamo chiederci: è possibile che, contro i socialisti e le loro ridicole concezioni meccanico-formali, nel processo rivoluzionario i comunisti possano appoggiare la piccola proprietà e non la grande proprietà fondiaria?
Considerando il processo che ha portato a morte la proprietà feudale, si deve vedere positivamente la liberazione del contadino dal servaggio verso il signore feudale e, dunque, la possibilità di divenire proprietario di quel pezzo di terra che lui può lavorare. Sia che egli possa perdere la propria piccola proprietà, sia che possa acquistarne altra (ed allora sarà il suo 'vicino' ad essere espropriato), si sviluppa un processo di concentrazione che, come nel rapporto artigianato/industria, crea le superiori conquiste dell'associazione produttiva da cui si salirà al possesso di 'tutti' gli strumenti e i prodotti del lavoro da parte di 'tutti' i lavoratori, nel comunismo: beneficio che per il latifondo tradizionale non si ha alcun diritto di invocare.
Quindi, contro il 'socialismo da dottrinetta', si può affermare che nella maggioranza dei casi la pratica agraria non uscirà dalla sua stasi medioevale senza che il grande corpo, anzi agglomerato senza vita del latifondo, si risolva nelle feconde cellule della produzione a piccoli lotti.
Malgrado resistenze di carattere psicologico, decisamente minori nel campo della piccola attività artigiana (la piccola produzione contadina presenta resistenze molto maggiori alla perdita della propria autonomia), niente potrà resistere allo sviluppo capitalistico pure nelle campagne e, dunque, al processo di successiva concentrazione verso la grande proprietà, non più di tipo tradizionale derivata dal feudalesimo, ma di tipo agrario-industriale borghese.
La trasformazione dell'azienda agraria può esaurirsi in regime borghese?
Come sarebbe assurdo pretendere che per la possibilità della rivoluzione comunista non vi fosse più piccola produzione e circolazione industriale, la stessa cosa sarebbe pretenderlo per la piccola produzione agricola. Al di là di quanto possono cianciare tanti socialisti, dobbiamo chiederci se, anche solo dal punto di vista dello sviluppo della economia capitalistica, possiamo attenderci la totale trasformazione della proprietà fondiaria, con la sua piccola produzione particellare, nella direzione della grande impresa agraria industrializzata.
Va ricordato anzitutto che la rivoluzione borghese, se è accompagnata dall'impetuoso sviluppo della produzione industriale, non lo è per quel che riguarda la produzione agraria che rimane sempre contrassegnata dalla grande proprietà fondiaria però costantemente caratterizzata dalla piccola produzione. L'industrializzazione nella campagna è solo una tendenza la cui velocità non può essere messa a confronto con quella dell'industria manifatturiera.
Il capitalismo sorge come capitalismo industriale, e ciò dipende dal fatto che la produzione capitalistica è produzione di valore – di profitto – e non di beni utili alle necessità dell'uomo: per tale motivo, i capitali vengono poco investiti nell'agricoltura i cui cicli di rotazione sono sempre inferiori a quelli dell'industria.
Si assiste dunque ad una prima contraddizione: benché aumenti la popolazione, non aumenta di pari passo la coltivazione di nuove terre. Capita anzi che la legge della valorizzazione del capitale porti alla fame intere popolazioni, qualora la maggiore facilità di realizzazione di profitti portino alla sostituzione di colture fondamentali alla nutrizione con altre di maggiore realizzazione di denaro: vi è in questi casi utilizzazione irrazionale del suolo se non addirittura spoliazione della sua fertilità.
Aumenta dunque incessantemente la forbice tra il progresso tecnico dell'agricoltura e quindi la maggiore produzione di derrate e il gioco delle spinte economiche derivante dall'ambiente di speculazioni e di tranelli del commercio capitalistico.
Si arriva così al paradosso della produzione agraria che teme le annate di eccessiva quantità di prodotti, in quanto fanno precipitare i prezzi sul mercato. Chiaramente il problema dello sviluppo della applicazione di sistemi che accrescano la produttività nelle campagne non è un problema tecnico, quanto economico-politico.
La guerra ha portato al massimo livello questi paradossi: mentre da un lato stimolava la domanda di beni industriali, assorbendo nello stesso tempo lavoratori dalle campagne, ha spinto all'aumento dei prezzi delle derrate alimentari rendendo redditizia la produzione agricola pur arretrata. Ciò non basta ovviamente ad attrarre capitali nelle campagne.
La situazione del dopoguerra aiuta la critica marxista a dimostrare che se esiste una contraddizione fra interesse collettivo ed interesse privato dei borghesi – che appare grandemente di fronte al grande sviluppo delle imprese industriali – ciò si manifesta in misura maggiore nel campo della produzione agricola. Se l'intervento della collettività, nel capo della produzione industriale, si impone per dirigere una produzione che ha già raggiunto il suo massimo progresso tecnico, a maggior ragione si impone nel campo dell'agricoltura per permetterle di raggiungere il livello di organizzazione dell'industria.
Contro ogni concezione socialdemocratica, si afferma dunque che lo sviluppo della produzione agricola, che arrivi al livello della soddisfazione dei bisogni primari della vita, non è compatibile con la presente società dominata dalle leggi del profitto capitalistico, della libertà di produzione e di commercio.
Il potere proletario e l'agricoltura
Dato che il programma economico della III Internazionale si prospetta nel passaggio dalla appropriazione privata dei prodotti del lavoro a quello collettivo , va considerato che l'artefice fondamentale di tale opera può essere un potere organizzato centrale , che abbia la forza di poter vincere le resistenze della classe capitalistica e la possibilità di iniziare e poter dirigere centralmente il nuovo apparato economico. Questo potere è lo Stato proletario.
Inizialmente il nuovo Stato assumerà il controllo di tutto il capitale bancario e passerà alla immediata espropriazione delle grandi imprese industriali, lasciando sopravvivere per un certo tempo la piccola industria, fino al momento in cui non sarà assorbita dalle imprese già socializzate. Lo Stato proletario tende alla soppressione totale del libero commercio dei prodotti industriali.
Con la vittoria del proletariato, non siamo ancora ovviamente al comunismo, ma alle sue premesse: comincia ora il processo della trasformazione economica verso il comunismo. Ma, cosa della massima importanza, ora il processo di tale trasformazione è consapevole e antiveduto della completa realizzazione del progetto del comunismo.
Quali i compiti della dittatura del proletariato nel campo dell'economia agricola? Per rispondere a tale domanda, bisogna premettere che la soluzione di tali compiti dipenderà 1) dal grado di sviluppo economico raggiunto dal paese in questione e, soprattutto, 2) dal grado di sviluppo della rivoluzione comunista internazionale.
Non bisogna infatti dimenticare che il problema della trasformazione economica non può svolgersi in un circuito chiuso, perché un tale problema non può che avere soluzione internazionale. Riferendoci ad esempio alla rivoluzione in Russia, dobbiamo considerare che essa non è che l'inizio della rivoluzione proletaria internazionale e che la soluzione dei problemi in quella particolare area geografica può essere portata a termine dallo Stato proletario solo a livello internazionale, in quanto ciò che ha determinato l'esplosione rivoluzionaria russa non è solo il grado di sviluppo economico russo, ma il grado di sviluppo del capitalismo mondiale.
Combattendo dunque ogni posizione socialdemocratica, questo non significa che non possa essere intrapresa la lotta per il potere da parte del proletariato – qualora se ne presentino le condizioni politiche – laddove non siano sufficienti le condizioni per la collettivizzazione della produzione: a tale possibilità, come insegna l'esperienza della rivoluzione russa, non si volta mai le spalle con la scusa della 'immaturità della rivoluzione'.
A questo punto, vediamo dunque, pur nelle sue linee generali, quali sono gli elementi fondamentali nei rapporti che si presentano nella trasformazione dell'economia agraria.
Nei primi tempi della dittatura, le derrate alimentari gireranno sulla base di un libero commercio che gradualmente verrà sostituito dalla centralizzata distribuzione da parte di magazzini statali che controlleranno e rapporteranno i prezzi dei generi alimentari ai salari dei lavoratori. Ben presto, e questo sarà un elemento per cominciare a distruggere i limiti del capitalismo, si separeranno in due momenti diversi 1) l'obbligo di lavorare per vivere e 2) la possibilità di ricevere quanto necessario per vivere. Gradualmente, l'alimentazione sarà a carico della distribuzione centrale (gli organismi dello Stato), il salario perderà la sua funzione di quantificatore accumulabile – ilbuono di lavoro – del cibo a disposizione e non vi sarà più sperequazione fra famiglie poco numerose e famiglie numerose.
Tale processo potrà via via svilupparsi, con il consolidamento del potere politico che dovrà estendersi a livello mondiale, prima; quindi, vinta la guerra fra le classi, con la ripresa del processo produttivo.
Nella fase iniziale, mano a mano che si avanza su tale percorso, si assisterà ancora alla sopravvivenza di residui di commercio privato e, laddove sopravvivono ancora situazioni di guerra civile, data la inevitabile penuria di generi alimentari, addirittura al contrabbando che verrà ferocemente combattuto dallo Stato.
Nella situazione di guerra civile – e qui si veda l'esempio della Russia – lo Stato centralizza la distribuzione per assicurare un minimo di cibo alla popolazione. Questo procedimento è stato definito 'comunismo di guerra', ma è evidente che esso è dettato da una possibilità minima di sopravvivenza, più che dalla possibilità di un passaggio ad un nuovo assetto sociale. In tali situazioni di guerra – comprese quelle fra nazioni borghesi – la stessa cosa può succedere in una qualsiasi nazione e mostrare come lo Stato centralizzi la distribuzione le poche risorse a disposizione : nessuno però si sognerebbe di dire che, a causa di questa 'centralizzazione della miseria', si possa parlare di 'comunismo'.
Vediamo allora, a grandi linee, il compito dello Stato proletario, una volta vinta la guerra civile, di fronte alle varie forme di economia agraria.
a) Dinanzi alla grande azienda moderna
Di fronte alle grandi proprietà agricole industrializzate, caratterizzate dall'essere una organica unità di produzione, lo Stato si comporterà allo stesso modo che di fronte alle grandi proprietà industriali: lo Stato esproprierà immediatamente tali imprese, ne assumerà la gestione, assicurerà il mantenimento dei lavoratori.
A tal fine dovranno essere allestiti degli appositi organismi centrali di pianificazione delle espropriazioni, della produzione e della distribuzione.
È chiaro che, come nel caso dell'operaio della grande azienda industriale, così il salariato della grande azienda agricola ha lo stesso interesse del primo verso la collettivizzazione interna al generale piano di produzione statale. Come per i primi, pure questi lavoratori comprenderanno le necessità ed i sacrifici imposti dal periodo iniziale della dittatura del proletariato , unica condizione per superare definitivamente la barbarie continua del capitalismo. Questo secondo tipo di salariati, se sono meno 'acculturati' dei salariati dei grandi centri urbani, non per questo sono meno battaglieri – una volta presa la decisione di combattere per il comunismo – in quanto meno permeabili alla ideologia borghese.
b) Dinanzi alla grande proprietà tradizionale
Abbiamo già detto in precedenza che di fronte alle grandi proprietà fondiarie di vecchio tipo non si può parlare di socializzazione da parte dello Stato per il solo fatto di togliere la proprietà al latifondista, in quanto non si ha qui una unità produttiva, ma tante piccole aziende non collegate da un rapporto organico tecnico e amministrativo. In questo caso, non sarebbe conveniente da parte dello Stato inserire tali latifondi nel processo della socializzazione poiché troppo costoso l'apparato amministrativo per gestire tutti questi 'contenitori' di piccole aziende in rapporto a quanto si potrebbe ottenere.
Ciò che farà lo Stato proletario in questo caso sarà di 'liberare' dal vincolo della proprietà latifondista queste piccole aziende e renderle giuridicamente autonome: cosa che, dal punto di vista produttivo, erano già in precedenza. Conseguenza immediata per i contadini di questi latifondi sarà: a) divenire giuridicamente autonomi conduttori dell'appezzamento sul quale lavorano, b) soppressione del pagamento dell'affitto o tributo in natura.
Tutto ciò non significa abbandonare il programma comunista. La 'soppressione della proprietà privata' è formuletta da comizio ed ha lo stesso valore fasullo che 'ingrandimento della proprietà privata'. Con la dittatura del proletariato, si potrà parlare di abolizione del 'diritto' di proprietà, ossia della possibilità di stracciare tutte le delimitazioni giuridiche di proprietà vigenti sotto il passato controllo dello Stato borghese.
Il concetto di spartizione dei latifondi tra i contadini può essere chiamato, dalla critica marxista, liberazione della piccola azienda e può essere formulato con 'la terra ai contadini', ma non può essere detto passaggio dalla grande alla 'piccola proprietà rurale'.
Ciò che fece la rivoluzione borghese fu di sopprimere i diritti di casta e rendere giuridicamente uguali sia il proprietario latifondista, che il piccolo proprietario e il contadino lavoratore senza proprietà. Il 'codice napoleonico' prodotto tipico della radicale rivoluzione borghese in Francia, sancisce che sono 'eguali' due che posseggono il primo mille ettari di terra ed il secondo un solo ettaro, dato che le stesse norme giuridiche e commerciali consentono, in linea di principio se non di fatto, all'uno di comprare quello che ha l'altro, di trattare con l'altro sullo stesso piede di diritto. L'uguaglianza teorica del diritto e della filosofia democratica è a posto quando si sappia che tanto il primo landlord quanto l'ultimo povero contadino 'possono' moltiplicare quello che posseggono o rimanere senza nulla.
Ben altro atteggiamento vi sarà verso il grande latifondo da parte della rivoluzione proletaria: non vi sarà 'nessun limite' alla divisione della terra. La massa dei contadini tende alla liberazione dai diritti del proprietario latifondista, tende alla disponibilità della terra, degli attrezzi e dei prodotti del suo lavoro. Di fronte a ciò la dittatura proletaria non dirà 'la gestione della terra alla comunità' allo stesso modo de 'la gestione delle grandi industrie e delle ferrovie'. Lo Stato proletario proclamerà nei confronti delle grandi proprietà tradizionali: la terra a chi lavora, l'azienda agricola al contadino, eliminando il lavoro salariato nella terra, ossia il lavoro del contadino nella terra 'di un altro'.
Quindi, non gestione statale dell'agricoltura di fronte ai latifondi, ma esercizio della terra da parte di chi la lavora: ossia, diritto di ciascun lavoratore di disporre dei prodotti del suo lavoro, meno la parte da assegnare alla collettività, che con altre prestazioni compensa il lavoratore agricolo.
Gestione privata o familiare della terra dunque, con abolizione del diritto di proprietà e gestione feudale-capitalistico e applicazione del principio di dare ad ogni contadino tanta terra quanta riuscirà, con la sua famiglia, a lavorarne. Non si tratta dunque di abolire la grande proprietà latifondista per diffondere la piccola proprietà: si tratta di liberare la piccola azienda contadina da uno sfruttamento secolare, nella prospettiva di inserire via via tali piccole aziende nel piano di produzione generale. 'La terra alla nazione per i contadini': formula bolscevica che indica non tanto una impossibile gestione collettiva della terra, quanto una 'proprietà' collettiva (statale, nazionale, sociale) accompagnata dalla gestione 'personale' a piccoli lotti, che non ammette possibilità di compra-vendita né di eredità.
Affrontando questi problemi, va tenuto conto delle fasi che vedranno la disfatta dei grandi proprietari fondiari e il movimento dei contadini. L'azione del potere rivoluzionario partirà dalle città e solo dopo arriverà nelle campagne.
Di fronte alle grandi aziende industriali, la collettivizzazione sarà 'immediata', ma questo non significa che sia evitabile una successione temporale durante la quale bisogna formare gli organismi amministrativi e di coordinamento centrale di produzione e di distribuzione. In 'questa' o 'quella' fabbrica vi saranno tentativi di esautorare i vecchi proprietari per porre subito il problema del controllo e gestione di tutto il processo produttivo , vi saranno errori che in certi casi porteranno ad abbassare il rendimento delle aziende. Vi sarà in ogni caso un vantaggio: a nessun operaio verrà mai in mente di diventare 'padrone' autonomo del proprio 'posto di lavoro'.
Passiamo al caso della terra. Trovandosi di fronte a grandi aziende industriali agrarie, i contadini si organizzeranno dapprima in comunità esercenti la terra, per passare il tutto poi alla più grande gestione da parte dello Stato, perché avranno interesse a non spezzare l'unità organica di produzione, con le sue macchine, impianti, controllo dell'energia elettrica, derivazione dell'acqua, ecc..
Dove non vi sia tale unità organica, come già detto, i contadini saranno chiamati alla lotta dallo Stato proletario per dividere fra loro la terra dei latifondi sulla base della loro capacità di lavorarla.
Il grande problema che immediatamente sorge è quello di prelevare dalle piccole aziende liberate il contingente di derrate necessario alla popolazione delle città. Qui il prelevamento da parte dello Stato non potrà essere paragonato a quello del latifondista, principalmente per due motivi: a) di fronte ad un livello arretrato dell'agricoltura, il prelievo sarà molto inferiore rispetto a quello del vecchio proprietario che si prendeva quasi tutto, mentre di fronte ad una agricoltura più florida, il contributo allo Stato sarà dato dalle eccedenze ai fabbisogni della famiglia; b) in cambio di questo, lo Stato dà ai contadini tutta una serie di prestazioni (utensili, macchine, e quanto altro può servire).
c) Dinanzi alla piccola proprietà
La nazionalizzazione delle piccole proprietà, esistenti già in regime capitalistico, è solo un non senso e quindi rimangono in esercizio a chi già le lavora. Ciò non significa che non vi sia alcuna differenza fra il regime della dittatura borghese e quello della dittatura del proletario.
In regime borghese la proprietà, pur piccola, è sacra e giuridicamente protetta, ma economicamente sottoposta alle crisi del mercato e dunque alle grinfie del mercato e dell'usuraio. Il capitalismo conosce molte vie per intaccare il suo 'sacro diritto' alla proprietà.
La rivoluzione proletaria di fronte al problema della ripartizione della terra, cancella tutto ciò, ponendo sullo stesso piano, dopo aver eliminato le grandi proprietà fondiarie, i coloni, gli affittuari, i contadini senza terra ed i piccoli proprietari. Il contadino 'affamato di terra' potrà occuparne altra – lasciata quindi libera da chi ne ha in eccesso – qualora sia in grado di lavorarla. In ciò i contadini poveri saranno favoriti dallo Stato operaio che impedirà che essi si debbano trasformare in salariati e dunque lavorare i campi di altri contadini.
Tutto ciò è perfettamente coerente col programma della rivoluzione comunista che impone alla dittatura proletaria due sole forme di esercizio della terra: a) le grandi aziende moderne a conduzione statale e b) le piccole aziende – derivate dalla passata piccola proprietà e dalla proprietà tradizionale, semifeudale – affidate all'esercizio dei contadini. Il rapporto fra queste due forme dipenderà dalle condizioni generali della lotta fra le classi interne alle condizioni geo-storiche date.
Quale dovrà essere l'azione della dittatura per rovesciare il rapporto a favore delle grandi aziende a conduzione statale?
In un primo tempo, le piccole aziende saranno libere di vendere le loro eccedenze sul 'libero' mercato per passare via via alla 'vendita' allo Stato delle stesse: inizialmente a dati prezzi e successivamente contro consegna di prestazioni statali (in tecnologia e servizi vari) che avvia il processo di abolizione della moneta. Progressivamente, la piccola azienda tenderà a perdere un carattere di speculazione per inserirsi nel quadro della produzione collettiva che vedrà la soppressione del commercio non solo per i prodotti industriali ma anche per quelli agricoli.
Che cosa insegna l'esperienza della rivoluzione in Russia?
La guerra mondiale prima e quella civile successiva hanno pressoché paralizzato l'intera economia russa; il cattivo raccolto del 1920 ha dimostrato come si sia ancora lontani dal poter superare la fase del libero commercio dei prodotti agricoli sulla unica base che si può chiamare di avviamento al comunismo . Questa fase di libero commercio, viene considerata da molti come un passo indietro rispetto al precedente 'comunismo di guerra', non comprendendo che allora si trattava di un 'comunismo militare', una requisizione forzata dettata dalla eccezionale stato di necessità che qualsiasi nazione borghese in condizioni simili – non solo la dittatura proletaria dunque – mette in atto.
Il passaggio dal 'comunismo di guerra' alla 'imposta in natura', che riconosce tutta una serie di diritti di commercio ai piccoli proprietari, non significa un abbandono del programma rivoluzionario: la cosa fondamentale è, in ogni caso, non dimenticare mai che il passaggio alla società futura sarà possibile solamente con la dittatura del proletariato che si instaurerà almeno nei paesi che hanno già raggiunta la piena maturità capitalistica.
Operai e contadini nella rivoluzione proletaria
Tutto ciò che è stato fin qui tratteggiato non ha la pretesa di essere un programma di politica agraria dello Stato operaio. Si tratta di stabilire che cosa ci si può attendere e che cosa non ci si può attendere e quindi comprendere quali possano essere i rapporti di classe che si realizzano fra i diversi strati della popolazione agraria, nel corso della rivoluzione.
Da questo esame è risultato abbastanza chiaramente come il marxismo non sia un formulario di banali ricette: esso al contrario permette di comprendere come non possa tracciarsi un meccanico parallelismo fra la socializzazione possibile nel campo della produzione industriale e quella possibile in quello agrario.
Come hanno ben chiarito le Tesi del II congresso dell'IC sulla questione agraria, lo Stato diretto dal partito comunista regolerà i propri interventi tenendo conto della necessità di 'neutralizzare' – qualora non possa portarla immediatamente dalla sua parte o combatterla da subito apertamente – certi strati della popolazione contadina. L'insegnamento della rivoluzione in Russia mostra come nei paesi capitalisticamente avanzati, potrà cominciare subito la lotta contro i contadini ricchi e medi; è in ogni caso da 'comunisti della domenica' pretendere che si debba dichiarare immediatamente guerra pure ai contadini poveri. È fondamentale capire che non solo non è contradditorio, ma inevitabile che accanto ai provvedimenti di trasformazione economica (nazionalizzazioni, ecc.) che parte dai centri urbani, sopravviva in parallelo la piccola proprietà contadina nelle zone rurali.
In ogni caso, va sempre ricordato che il problema fondamentale non è di carattere economico, ma politico: la realizzazione e la difesa dello Stato della dittatura del proletariato. Inizialmente tutte le forze verranno assorbite da tale compito e non è possibile quantificarne il tempo necessario. Tutto dipende dal rapporto di forze fra proletariato urbano e massa contadina, nonché dal grado di sviluppo economico all'interno del quale tali lotte si compiono.
Le misure difficili e sottili che il potere proletario dovrà sminuzzare nella sua opera colossale non tolgono nulla alla nettezza del dilemma storico: o la dittatura della borghesia o dittatura del proletariato, che non può essere eluso da soluzioni intermedie.
Lo sviluppo dell'economia agraria dopo la rivoluzione proletaria
Vediamo ora di tratteggiare gli elementi fondamentali del problema agrario che nel lungo periodo permetteranno di passare dal capitalismo al comunismo. Va da sé che non si potrebbe parlare di comunismo se questo non toccasse l'elemento fondamentale del rapporto con la terra, dal quale dipende l'alimentazione della popolazione e quindi la fornitura di quei prodotti indispensabili all'industria, ai servizi vari e a tutte le istituzioni collettive.
Il principio comunista 'ognuno dà quanto può e riceve quanto gli abbisogna' è inconcepibile se non viene applicato a tutte le sfere della produzione, prima fra tutte l'agricoltura.
Deve essere chiaro comunque che al comunismo non si arriva per 'decreto' dello Stato proletario. Il periodo che va dalla conquista del potere al comunismo sarà caratterizzato da fasi che via via vedranno scomparire il libero commercio sostituito dalla distribuzione statale che consegnerà quanto necessario in cambio di 'moneta' o 'buoni di lavoro' la cui caratteristica è di non essere accumulabili e di non essere convertibili in acquisto di mezzi di produzione.
Il regime di economia agraria sarà inizialmente spurio, di 'piccolo capitalismo'. Solo le grandi aziende agricole moderne entreranno nella socializzazione statale al pari delle grandi aziende industriali. Le piccole imprese a conduzione familiare, come indicato nei capitoli precedenti, vivranno ancora una fase di 'piccolo commercio'.
Il prodotto delle piccole aziende si considererà diviso in tre parti: a) la parte destinata al consumo familiare, b) l'imposta allo Stato, c) il rimanente surplus disponibile per la 'libera' vendita.
È utile sottolineare che, in ogni caso, anche in questa prima fase, la libertà di commercio non ha più le caratteristiche esistenti nella precedente forma capitalistica, perché la dittatura abolisce le forme giuridiche del capitalismo. Ciò significa che il contadino può usare il surplus per migliorare nella sua azienda le condizioni di lavoro sue e dei suoi familiari; egli può comprare attrezzi agricoli, bestiame, ecc., ma sicuramente non potrà usarlo per acquistare altra terra oltre quella che è in grado di lavorare.Demolendo per sempre il principio giuridico del possesso della terra, lo Stato proletario evocherà a sé la ripartizione delle terre, che non sarà più funzione privata contrattuale, ma funzione collettiva.
In una fase successiva il prodotto del contadino sarà diviso in sole due parti: una parte sarà destinata al consumo familiare, mentre tutto il rimanente andrà allo Stato. In questa fase – che si potrebbe definire di 'semi socialismo' agricolo – lo Stato, che è sorretto da una totale socializzazione e floridità della produzione industriale, sarà in grado di mettere a disposizione della piccola azienda tutto quanto gli serve in termini di prodotti industriali.
Una terza fase di completo socialismo agrario, vedrà soppressa pure la parte di produzione che il contadino 'tiene per sé'. La cosa è meno assurda di quanto possa sembrare: in questa fase infatti non si parlerà più di piccola azienda; si sarà sviluppata la divisione del lavoro pure nel campo agrario e quindi si saranno viste convenienti le fusioni delle piccole aziende in grandi aziende, fino alla socializzazione finale. Saranno gli stessi contadini a considerare favorevolmente il passaggio dalla piccola alla grande azienda, quando si pensi solo alla possibilità dell'uso della meccanizzazione dell'agricoltura e che solo lo Stato è in grado di produrre e di mettere a disposizione tali macchine, che possono essere usate produttivamente solo se usate su grandi estensioni. Giunti a questo punto, il 'tenere per sé una parte del prodotto agricolo' assume lo stesso valore dell'appropriazione individuale di un parte del prodotto industriale: una vera assurdità.
Il passaggio dunque dalla piccola alla grande produzione si svilupperà naturalmente – e tanto più velocemente, quanto più lo Stato proletario potrà appoggiarsi su un insieme di produzione socializzato – pur se per fasi successive: cosa che non impedisce che in certi casi – e ciò dipende dalle condizioni generali della produzione – si passi subito dalla esistenza della grande azienda alla immediata socializzazione, ovvero dalla prima alla terza fase.
Parliamo ora di un vecchio pregiudizio tipicamente borghese che nel lavoratore non vede l'uomo ma la 'ditta', l''azienda' col suo libro delle entrate e delle uscite. Se togliete – egli dice – l'incentivo del 'guadagnare' e la molla dell''interesse', la produzione si arresterà perché nessuno è spinto a produrre. Il borghese guarda il resto dell'umanità con gli occhi del mercante il cui 'lavoro' ha prodotto accumulo di denaro, di ricchezza sotto varie forme, accumulo di proprietà e per lui è naturale che tutti gli uomini siano spinti a questo. Del resto, a guardare superficialmente le cose con il suo tipo di occhi, non è forse vero che si vedono gli uomini pronti ad azzannarsi per un piatto di lenticchie e che possono sperare di uscire dalla miseria solo imitandolo?
La realtà è ben diversa. All'interno della società borghese tutti gli uomini sono costretti a disumanizzarsi sì per un piatto di lenticchie, ma non spinti dalla speranza di arricchirsi, bensì dalla prospettiva della morte per fame. Come il proletario senza riserve e spinto a vendere la sua forza lavoro all'imprenditore non con il miraggio della ricchezza, ma con la certezza di non poter sopravvivere, così il contadino preferisce spezzarsi la schiena di lavoro su un misero pezzo di terra di sua proprietà anziché compiere lavoro meno pesante su terra altrui e a ciò è spinto non dalla possibilità di arrivare ad essere un grande proprietario fondiario, ma dalla speranza di poter continuare a vivere su quel pezzo di terra anche in caso di malattia, di vecchiaia.
Ora è evidente che, in un ambiente economico e sociale che allontani lo spettro della fame e della morte, pur non potendo più accedere a qualsiasi forma di proprietà, cessa lo stesso riflesso psicologico a divenire proprietario in qualsiasi forma e rimane solo il problema di integrare nel miglior modo il proprio lavoro con quello collettivo. E questo ambiente economico e sociale non è altro che il comunismo.
In direzione di quel nuovo ordine, il partito della dittatura proletaria – che saprà sicuramente combattere le formule da recita scolastica – brandirà come una potente leva rivoluzionaria la tradizionale 'fame di terra' dei contadini, non appena a questi venga prospettato che tale fame possa essere saziata in modo più veloce e sicuro dallo Stato operaio che non dal libero gioco del mercato capitalistico e, meno ancora ovviamente, da una società pre-capitalistica.
La tattica del partito comunista tra i lavoratori della terra
Senza aver qui la pretesa di dare risposte specifiche per quanto riguarda la situazione italiana, vogliamo comunque rispondere nei termini più generali alla seguente domanda: quale atteggiamento deve prendere il partito comunista nei confronti dei contadini?
Per quanto riguarda i lavoratori salariati delle aziende agricole moderne, l'azione del partito comunista sarà la stessa che nei riguardi degli operai salariati dell'industria. Sul terreno immediato, il partito incoraggerà sempre quelle lotte utili al miglioramento delle condizioni di vita, invitando a considerare queste lotte non come fine a se stesse, ma come utile allenamento alla risolutiva conquista del potere politico per la socializzazione delle aziende nelle quali essi lavorano.
Nei confronti dei lavoratori salariati presenti nei grandi latifondi di tipo tradizionale (parcellizzazione della produzione) – non convenendo la 'socializzazione' di tali entità, come chiarito nei capitoli precedenti – verrà soddisfatta la tradizionale 'fame di terra' dei contadini con lo smembramento della grande proprietà in piccole aziende a conduzione familiare. Ciò non toglie che si debba continuare a propagandare la superiorità dei metodi di centralizzazione e socializzazione della produzione in grandi aziende agrarie statali.
Va da sé che i problemi nelle campagne pongono problemi complessi nel rapporto fra salariati della terra ('naturali' sostenitori del partito) e i coloni, i mezzadri (coloni a mezzadria) e contadini medi. In ogni caso l'azione del partito verso coloni e mezzadri sarà di avere, se non un preciso sostegno, almeno neutralizzarne l'azione, con la prospettiva di diventare liberi esercenti della terra che riescono a lavorare, senza dover più pagare un affitto di qualche natura. Tali contadini dovranno aver chiaro che, anche se dovranno pagare allo Stato una quota in tasse, queste saranno sempre inferiori all'affitto pagato in precedenza al vecchio proprietario fondiario.
Prima della conquista del potere, nel campo sindacale, il partito appoggerà le organizzazioni dei coloni e mezzadri – che in ogni caso dovranno sempre essere distinte da quelle di salariati puri – che sostengono rivendicazioni di tipo immediato contro le organizzazioni padronali.
Naturalmente si pone qui un problema delicato di fronte al quel colono o mezzadro che sfrutti il lavoro di salariati e col plusvalore estorto a questi ultimi si appresti ad acquistare una maggiore quantità di terra. Se è vero che in questo caso si tratta di un nemico, non è possibile con ciò tratteggiare una linea retta che divida nemici da amici. In questi casi sarà la situazione contingente a precisare il comportamento tattico specifico del partito.
Veniamo ora alla categoria dei 'piccoli proprietari' già presenti in regime capitalistico. La propaganda borghese sventolerà sempre il pregiudizio che la rivoluzione 'toglierà' loro la terra e nascondendo il fatto che in realtà è la legge della concentrazione del capitale a togliere la terra ai contadini ed a costringerli ad urbanizzarsi pur contro la loro volontà.
Al contrario di tale propaganda, la dittatura del proletariato, spezzando le vecchie proprietà tradizionali che conservano ancora caratteristiche semifeudali, concederà in libero esercizio alla famiglia contadina tanta terra quanta riuscirà a lavorarne, rendendosi disponibile inoltre ad aiutare – cooperativamente – tali lavoratori con l'apporto del proprio sostegno tecnologico.
Oltre a ciò, la rivoluzione può dare un aiuto alle organizzazioni dei piccoli contadini i quali avranno in tal modo, con il preciso sostegno dello Stato, la possibilità di rivendicare l'eliminazione dei vecchi debiti, di sottrarsi alle sgrinfie del vecchio usuraio, nonché al tentativo di ripristino delle vecchie forme di proprietà da parte di latifondisti.
Bisogna mostrare ai contadini poveri la possibilità concreta da parte loro di uscire da una vita di miseria e di stenti attraverso l'azione 'massimalista' guidata dal partito comunista e non attraverso l'azione legalitaria ed elettorale, nella direzione di seggi elettorali, ventilata dal partito socialdemocratici, ad esempio, per quel che riguarda il Sud d'Italia.
Con una sana politica rivoluzionaria, fuori dal tradizionale disprezzo dimostrato dai riformisti verso le masse contadine, diverrà possibile per il partito comunista suscitare quelle energie, assopite ma non per questo inesistenti nelle masse contadine, verso un nuovo ordine sociale.
da Il Comunista, giugno luglio 1921