Dunque è lo stesso sistema capitalistico che produce continuamente la sua antitesi negando se stesso e le sue leggi. Il comunismo, allora, è una forza materiale che agisce nel presente: il partito non detta compiti dal futuro o dal passato, ma è il presente che spinge ad una determinata forma di organizzazione che supera quella divisione temporale borghese, in quanto il comunismo è persistito nel passato sin dalle origini della storia dell’umanità, e impone alla stessa di dispiegarsi pienamente nel futuro alla scala mondiale. Così si spiega il senso della frase è il futuro a dettare i compiti del partito. Quel partito che opera per affermazione positiva del suo programma riscontrando in esso quel filo del tempo che lega il passato al futuro. Dice Marx, infatti, che "d’altro canto se nella società così com’è non trovassimo già nascoste le condizioni materiali di produzione ed i rapporti di traffico a esse corrispondenti, adeguate ad una società senza classi, tutti i tentativi di farla saltare sarebbero donchisciotteschi".
Il partito comunista è l’espressione formale del suo immutabile programma storico, il programma della rivoluzione della classe proletaria. E’ dunque soltanto al suo interno che può manifestarsi anticipatamente la Gemeinwesen umana, ingabbiata nel sistema capitalistico che produce antitesi tra uomo e natura. Esso è indispensabile ai fini della rivoluzione, ovvero quel processo dinamico volto al recupero da parte dell’uomo della sua "intima essenza reale", mediante il superamento nel fuoco della lotta dei fuorvianti binomi filosofici borghesi, tra individuo e specie, o tra uomo e natura, tipici di una determinata fase storica di passaggio: quel capitalismo generatore di "monadi isolate" dalla propria specie. L’uomo alienato produttore di plusvalore diviene realmente Uomo, vale a dire uomo-industria il cui lavoro non è più artificiosamente separato dalla sua essenza. Il comunismo, spiega Marx nei Manoscritti, è "lo scioglimento del conflitto tra esistenza ed essenza, tra libertà e necessità, tra individuo e specie". E’ solo la "prassi della rivoluzione", espressa nel marxismo in quanto scienza sociale della specie umana e non del singolo individuo, che determina la rottura con qualsivoglia forma di illuminismo borghese. Il marxismo è il prodotto della storia stessa dell'uomo-industria, e la lotta per l’emancipazione del proletariato è quella di un’umanità privata della sua stessa natura, della sua reale Gemeinwesen. La "coscienza di classe" di tale dinamica non può esprimersi che nel partito comunista, una coscienza antitetica a quella "morale" dei singoli individui facenti parte di uno Stato nazionale, per sua natura riconoscimento giuridico delle disuguaglianze di classe tra gli uomini. Nello Stato borghese, dove viene esaltata ideologicamente l’importanza di ogni singolo individuo, l’uomo finisce per rappresentare in realtà soltanto una rotella insignificante dell’enorme ingranaggio capitalistico che funziona indipendentemente dalle sue necessità vitali. Nel partito comunista i militanti abbandonano questa classificazione, sostituendo al culto dell’"io" pensante la realizzazione di un fine collettivo espresso dal programma di classe: l’uomo sociale deve sostituirsi a quello atomizzato. Il partito rappresenta un embrione di cervello sociale: quando tutte le molecole che vagano impazzite nel nucleo iniziano a polarizzarsi, esso prende forma. Non un’unione di singoli, ma un unico cervello tendente alla medesima finalità: rompere il nucleo. Rifiuto di ogni individualismo e quindi del metodo democratico, ogni conoscenza è mediata dal partito stesso. Il proletariato può svolgere un ruolo storico in senso classista solo se agisce come "classe per sé", ed a tal fine deve uscire dal sentiero borghese che lo "sterilizza", inglobandolo in partiti o movimenti che lavorano al servizio del Capitale. La classe diventa forza attiva nella storia quando passa dallo stato di agglomerato statistico a quello di "classe per sé", ossia agisce secondo i propri interessi immediati e storici. La situazione attuale non potrà durare all’infinito: da una condizione amorfa e apparentemente morta, dovrà generarsi necessariamente una "polarizzazione" o "ionizzazione" delle molecole sociali, che sarà il preludio dell’esplosione delle potenzialità represse del grande antagonismo di classe. Il partito comunista è un organismo in gestazione, figliato dalla putrefazione di una partoriente malata in maniera terminale. Il precario stato di salute della gestante ne rinvia continuamente la nascita, in quanto le medicine che le propinano finiscono con lo spingere lentamente più indietro la posizione del nascituro. Ma l’inerzia non può essere ribaltata, pena la morte di entrambi.
Il ruolo del partito
Il problema principale dell’organizzazione proletaria risiede nel programma di classe che la genera: un programma storicamente saldo, quindi perfettamente inserito sul "filo rosso" che la borghesia, attraverso le sue forme luogocomuniste, cerca di spezzare. La rivoluzione comunista può culminare nel momento del raggiungimento della cuspide, punto critico del tracciato capitalistico, accelerazione spasmodica di processi storici da dirigere in senso rivoluzionario, di qui la parola d’ordine le rivoluzioni non si fanno, si dirigono. In ciò consisteva la famosa "settimana da non far passare" dei Bolscevichi, che nel fuoco della lotta rivoluzionaria risolvevano con la prassi l’apparente contraddizione borghese tra condizioni "oggettive" e "soggettive" da far coincidere. Dunque la rivoluzione è un prodotto della stessa società, non un evento generato dalla volontà di un gruppo di individui, per quanto preparati e organizzati. La rivoluzione non trionferebbe stabilmente senza un partito di classe possedente una chiara conoscenza dottrinale ed una forte organizzazione; dall'altra parte, il partito non può scegliere il momento della lotta rivoluzionaria, né scavalcare la necessità delle condizioni generali da cui la crisi sociale deve scaturire. E' qui che soggetto e oggetto coincidono: stando alla teoria delle catastrofi di Bordiga, l'ambiente e tutto l'universo delle determinazioni sociali si presentano estremamente polarizzati tra blocchi sociali (classi) che spingono per i propri interessi. Al raggiungimento della cuspide lo strumento-partito è portato a scegliere per la rivoluzione. E non si parla di libero arbitrio, ma del cervello sociale che ha il sopravvento su quello individuale.
Paesi come Gran Bretagna e Francia, per primi hanno posto le basi per la rivoluzione comunista avendo portato a termine quella borghese. Ma qui è sempre mancato il fondamentale elemento catalizzatore delle forze rivoluzionarie rappresentato dal partito comunista. Ciò è spiegabile attraverso il ruolo controrivoluzionario svolto dalle tendenze riformiste quali il laburismo e il sindacalismo rivoluzionario, che hanno spostato il piano della lotta su un aspetto puramente economico e risolvibile all’interno del sistema borghese (grazie alle politiche coloniali), svuotando le rivendicazioni del proletariato della loro forza di rottura.
Negli Stati Uniti, paese emblema della putrescenza del capitalismo globale, le spinte materiali di una classe lavoratrice sempre più sottomessa non trovano sbocco nell’esistenza di una forma politica che possa dirigere tutte queste voci isolate all’interno di un unico coro antisistemico. Milioni di persone negli Usa cercano una fuga individuale o di gruppo dall’inesorabilità della legge del valore, mentre sembra scomparsa la necessità di un partito che dovrebbe incanalarne il malcontento. Anche in questo caso ha svolto un ruolo deleterio l’influenza delle ideologie riformiste e nazionaliste che hanno trasformato lo strumento di superamento dello stato di cose presenti del proletariato in un mero mezzo di contrattazione con la borghesia. Nella Germania degli anni ‘20, non fu possibile portare a termine la rottura rivoluzionaria, decisiva ai fini del destino di quella russa, proprio a causa dei limiti insiti nella formazione del partito comunista tedesco: la mancata comprensione dell’importanza del centralismo nel partito e l’eccessivo peso dato alla forma "consiliarista", spinta sino ad una parziale ammissione del principio democratico già negato da tempo sia da Lenin che dalla Sinistra "italiana", giocarono un ruolo fondamentale nella sconfitta del movimento operaio.
Viceversa in Italia nello stesso periodo, sulla spinta di una situazione rivoluzionaria internazionale, si era formato un partito comunista in grado di dirigere il movimento proletario. Ma il problema consisteva nel riflusso già in atto nel 1921 dell’ondata rivoluzionaria in Italia e in Europa: un ritardo decisivo di almeno due anni causato dalla tardiva scissione dalle forze riformiste del Psi, dovuto dall’inconseguenza politica del gruppo ordinovista, anch’esso influenzato da limiti "formali" come il consiliarismo e teorici come l’economismo.
Ma possono verificarsi allora periodi favorevoli dal punto di vista oggettivo insieme a condizioni sfavorevoli del partito come soggetto, così come il caso opposto? Nel suo Memoriale al Processo del ’24, Bordiga spiega che si suol fare una distinzione tra le condizioni oggettive e quelle soggettive della rivoluzione proletaria: Le condizioni oggettive si ravvisano nei dati della situazione generale economica e politica, nel grado di maturità del capitalismo, nel grado di stabilità dello Stato borghese; quelle soggettive nella coscienza di classe, nella buona organizzazione sindacale e politica del proletariato… Per quanto si voglia essere, dal punto di vista rivoluzionario, ottimisti nell'esaminare un simile doppio ordine di condizioni, è evidente che realizzatesi queste, il precipitare degli eventi storici assumerebbe tali forme che, pure inserendosi in esso il compito importantissimo del grandeggiante partito comunista, i concetti e gli spedienti di congiure e concerti en petit comité sarebbero eliminati dalla scena degli avvenimenti".
Già più di ottant’anni fa si può quindi scorgere il superamento nella Sinistra "italiana" del falso dualismo filosofico borghese, oggettività-soggettività. Quando Bordiga sottolinea che "si suole" operare una distinzione tra condizioni oggettive e soggettive nel descrivere un processo rivoluzionario, si capisce che intende trattarsi di una necessità esplicativa, non che tale distinzione esista nella realtà. Evidentemente si tratta di un limite del linguaggio che solitamente ci impone una discretizzazione di processi che nella realtà sono continui. "Spesso si fa confusione fra condizioni oggettive e soggettive nel processo rivoluzionario. Ciò porta a scambiare le situazioni sfavorevoli e gli insuccessi per carenze soggettive. Ma nella dinamica sociale, come nello studio delle interazioni fisiche in natura, ogni individuo, gruppo o partito, in quanto molecola partecipe di un tutto, non è isolabile dal contesto e la "sua" prassi soggiace alle leggi generali che muovono l'intera società. Il problema della rivoluzione, che polarizza le caotiche forze sociali in direzioni univoche di classe, è quindi strettamente legato al binomio teoria-prassi, e perciò anche all'unità inscindibile fra condizioni oggettive e condizioni soggettive, tra movimento sociale e partito".
Il programma del proletariato è inscritto nella sua stessa genesi: se non l’ha ancora interiorizzato, attraverso la sua formalizzazione in partito, vuol dire che non si può parlare di classe in senso "storico", ma solo di un gruppo (più o meno vasto) di individui alienati dalla società presente. Il proletariato genera un partito soltanto quando prende coscienza di sé, delle sue finalità storiche e del suo programma: diventa classe per sé quando le sue rivendicazioni divengono inconciliabili con quelle borghesi. E l’affermazione del proprio programma passa inevitabilmente attraverso la rivoluzione, il cui strumento indispensabile è appunto il partito comunista.
"Quando il proletariato vincerà, non diventerà per questo la parte assoluta della società, perché vincerà solo in quanto sopprimerà sé stesso ed il suo contrario, e allora tanto il proletariato quanto il suo contrario che la condiziona, la proprietà privata, saranno spariti…nelle condizioni di vita del proletariato si condensano le condizioni di vita della società attuale…ma non può liberarsi senza sopprimere le sue stesse condizioni di esistenza. Non può sopprimere le sue condizioni di esistenza senza sopprimere tutte le inumane condizioni di esistenza della società attuale, che si condensano nella sua situazione…il suo fine e la sua azione storica gli sono irrevocabilmente prefissati nelle sue condizioni di vita, come nell’intera organizzazione della presente società borghese". (Engels, La Sacra Famiglia).
Partito storico e partito formale
Il partito storico non può sparire, in quanto è generato dalle stesse contraddizioni insanabili della società capitalistica, quello formale invece può non esistere in determinati periodi storici controrivoluzionari (come quello attuale). E’ condizione ineludibile della rivoluzione che esso prenda "forma" quando la necessità storica lo richiede, ma tanto nei periodi rivoluzionari quanto in quelli di "recessione", il partito storico non muore mai.
Come spiega Marx a Freiligrath, "ho cercato di eliminare l'equivoco per il quale io avrei potuto intendere con la parola "partito" una "Lega" defunta da otto anni o una redazione di giornale disciolta da dodici anni. Parlando di partito intendevo il partito nel grande senso storico della parola".
Proprio nel momento di riflusso controrivoluzionario si annidano maggiormente le insidie dell’attivismo e dell’anarchismo: Marx ed Engels nel 1852 finirono con l’essere accusati di passività, proprio per aver compreso che era necessario sciogliere la Lega dei Comunisti, forma partitica non più rappresentante il ruolo del partito storico della rivoluzione. Stesso processo ebbe come protagonista Bordiga e la Sinistra Comunista tutta, la cui coerenza programmatica li ha visti precipitare nell’oblio della storia borghese, giunta al suo apogeo col trionfo controrivoluzionario post-bellico, ai cui banchetti di festa brindavano i rappresentanti del maggior imperialismo della storia e i "resistenti", eredi di un partito che ormai di comunista aveva solo il colore della bandiera. Il partito è al tempo stesso fattore e prodotto della storia, in quanto prodotto risente dei caratteri della situazione reale che lo circonda, quindi i partiti di massa rifacentesi al proletariato dovevano necessariamente incamminarsi lunga la china della deriva opportunistica. È fondamentale tesi della Sinistra che il nostro partito non debba per questo rinunziare ad esistere, ma sopravvivere e trasmettere la fiamma rivoluzionaria lungo lo storico "filo del tempo". È chiaro che in condizioni così sfavorevoli esso sarà costretto ad essere un partito piccolo o a non esistere affatto, non per nostro desiderio od elezione, ma per ineluttabile necessità, dato che l’opportunismo e quindi la controrivoluzione non sono fenomeni di natura morale, bensì legati allo sviluppo dei rapporti di forza tra le classi. In attesa della riorganizzazione, però, la classe operaia ha il dovere di far valere le proprie singole rivendicazioni usandole come "palestra" per gli sconvolgimenti futuri. Una sorta di allenamento che serve a unire i singoli moti di rivendicazione che, se centralizzati a livello organizzativo, diventano rivendicazioni politiche (ad esempio lo sciopero nazionale dei ferrotranvieri italiani di due anni fa ha rappresentato un principio di movimento politico, perché era centralizzato ed è stato condotto spontaneamente da tutta la categoria, senza l’intromissione dei sindacati).
Il marxismo è allo stesso tempo teoria ed azione umana: dissociare i due aspetti ha come conseguenza inevitabile lo sfociare nell’indifferentismo o nell’opportunismo della peggior specie, in cui prevale una visione del marxismo come mezzo per "generare" la rivoluzione. Il marxismo è invece soprattutto la dottrina della controrivoluzione, poiché "tutti sanno dirigersi quando si afferma la vittoria, ma pochi sanno farlo quando giunge, si complica e persiste la disfatta" (Lenin, Lezioni delle controrivoluzioni).
La conclusione da dedurne è come sempre dialettica: è necessaria la formazione del partito affinché divenga soggetto del divenire storico, ma allo stesso tempo sono solo le determinazioni materiali della realtà oggettiva che danno un senso alla formalizzazione del partito storico, altrimenti esclusiva creatura di velleità individuali o di meccanismi burocratici tipici dell’epoca borghese. Solo la realtà dell’azione storica può risolvere la contraddizione apparente - e che ha dominato un lungo e difficile passato - tra partito storico, dunque relativo al contenuto (programma storico invariante), e partito contingente, relativo quindi alla forma, che si sintetizzano in un’unica espressione di forza classista autonoma del proletariato in lotta.
IERI
La concezione organica del partito di Lenin
"la parola organizzazione ha generalmente due sensi: un senso largo e un senso stretto. In senso stretto significa una cellula distinta della collettività umana, per quanto minimo sia il suo grado di organizzazione. In senso largo significa la somma di queste cellule riunite in un tutto"
Lenin : "Un passo avanti e due indietro"
L'organicismo nel partito Bolscevico
Negli scritti di Lenin, come nella citazione riportata, ci si imbatte spesso in riferimenti al funzionamento del partito come ad un organismo che vive e agisce in maniera organicamente centralizzata. Riferimenti tempestivi e meticolosi che cadenzano puntualmente la lotta politica all’interno del partito. Non esiste però, su quest’argomento, una sistematizzazione teorica esauriente. Come vedremo, il motivo va ricercato nell'arretramento sociale russo caratteristico di quella fase storica. Toccherà alla Sinistra Comunista "italiana" definire e perfezionare la questione attraverso un'elaborazione scientifica ancor più approfondita, sulla base di una diversa e più evoluta condizione sociale.
Anche se non riscontriamo riferimenti espliciti, la necessità di organizzare il partito sulla base di un funzionamento organico è comunque presente in Lenin, ed è facilmente individuabile in tutta la storia "pratica" del movimento bolscevico, nella sua lotta di frazione prima e di partito poi. Un esempio lo offre il famoso dissidio, esploso intorno al primo paragrafo dello statuto del partito, già nel lontano 1902. Il secondo congresso della socialdemocrazia russa vide infatti contrapporsi due concezioni incompatibili sulla natura e la funzione della militanza in un partito rivoluzionario: quella Menscevica, democratica e formale, e quella comunista dell’indirizzo bolscevico.
La forma di tecnica organizzativa che assunse il dibattito può trarre in inganno, e la stessa sintesi che ne diede Lenin in "un passo avanti e due indietro" resta molto al di sotto del risultato "pratico" che il bolscevismo raggiunse in quella occasione. Se spolveriamo il nocciolo del dissidio dal vecchio lessico socialdemocratico relativo al dibattito congressuale, emerge dalle argomentazioni leniniane il nucleo di quel ragionamento organico che raggiungerà successivamente la sua forma teorica più compiuta con la Sinistra Comunista.
In definitiva, sostiene Lenin, l’organizzazione non è un problema tecnico, né oggetto di costruzione, tanto meno un sistema di convinzioni personali, è la maniera di lavorare, di produrre un qualsiasi risultato conforme allo scopo, al progetto. Il rapporto fra base e vertice non è a senso unico, non basta lavorare sotto il controllo e la direzione di un'organizzazione del partito per considerarsene militante, come chiedevano a gran voce i menscevichi. Diventa membro di partito solo chi ne riconosce il programma e partecipa personalmente ad una delle sue organizzazioni. Ogni militante deve appartenere e "lavorare" in un gruppo operativo, un comitato, una commissione, una sezione, una cellula, ecc. Solo in questo modo l’attività di partito può essere organizzata dal centro secondo le attitudini specifiche di ognuno, svolgendosi regolarmente come un processo naturale e spontaneo. Infatti, l’obbligo del militante di adempiere ad un compito si accompagna naturalmente alla necessità di riferire sullo stesso, senza dare vita a discussioni particolari, che potrebbero degenerare in una pratica abituale. Per effetto del lavoro si stabiliscono, spontaneamente, dei collegamenti organici tra i vari settori e tra i singoli militanti, si fissa una rete con un flusso di informazioni regolari verso il centro e fra tutti gli organismi che costituiscono l’organizzazione, dando vita a confronti esaurienti fra tutti i membri del partito. La volontà individualistica dei singoli si annulla nella comune appartenenza al partito comunista, in cui "ogni membro del partito è responsabile del partito e il partito è responsabile di ogni membro". Nella citazione di Lenin dal Che fare? è superata la contrapposizione formale borghese tra individuo-soggetto e organizzazione partitica, che si fondano in un unico meccanismo organico. L’appartenenza al partito va intesa nel senso di partecipazione dei membri al funzionamento collettivo dell’unico organismo, della cui esistenza sono responsabili, e allo stesso tempo l’organismo collettivo è responsabile dell’esistenza politica di ogni membro appartenente.
In "un passo avanti e due indietro" si riporta l'esempio dell'orchestra diretta da un centro, ma consapevole delle "partiture" per ogni strumento e delle capacità e possibilità di esecuzione, richiamando il cervello collettivo. Tale metafora non sarebbe compatibile con una struttura piramidale gerarchica. La necessità di comunicazione per raggiungere un risultato comune obbliga gli uomini a capirsi per le operazioni che bisogna fare e per gli strumenti da usare. Il partito, sostiene Lenin in definitiva, è una cellula separata della comunità umana che si struttura non su principi particolari, ma sulla base di un lavoro condiviso da tutti.
Lenin nel "Che fare" stronca il principio democratico, definendolo nell’organizzazione di partito "un gingillo vacuo e nocivo". Esso rappresenta un ostacolo verso il raggiungimento dell’obiettivo, in quanto "distoglie il pensiero dei militanti dal compito serio e urgente di rieducarsi in rivoluzionari di professione, per indirizzarlo alla compilazione di minuziosi statuti cartacei sui sistemi di elezione". La priorità fissata da Lenin è il raggiungimento della fiducia fraterna tra rivoluzionari, qualcosa di più del democraticismo tipico di un’ organizzazione partitica borghese.
Ancora più diretto si fa il discorso nella "lettera ad un compagno", in cui si esprime chiaramente la nozione che, se il partito conosce se stesso, non ha affatto bisogno di uno statuto che fissi regole, in quanto già evidenti a tutti i militanti. Esso necessita invece di una struttura di lavoro, che Lenin non può ancora definire in maniera sistematica, ma che corrisponde in pieno ai requisiti organizzativi che la Sinistra Comunista formalizzerà una ventina di anni più tardi.
"gli statuti sono inutili non perché il lavoro rivoluzionario non può avere sempre una struttura ben definita. No, la struttura è necessaria e noi dobbiamo cercare di dare a tutto il lavoro, nella misura del possibile, una struttura. Ed è possibile darla su scala molto più vasta di quel che comunemente si pensi, ma non con gli statuti, bensì solo ed esclusivamente (lo ripetiamo per l'ennesima volta) con l'esatta informazione al centro del partito: solo allora si tratterà di una reale struttura legata a una reale responsabilità e pubblicità (di partito). E chi da noi non sa che i dissensi e i conflitti seri si decidono in sostanza nel nostro partito, non già con le votazioni "secondo lo statuto", ma con la lotta e con la minaccia di "andarsene"? Di questa lotta interna è piena la storia della maggior parte dei nostri comitati negli ultimi tre o quattro anni di vita di partito. Ê un vero peccato che questa lotta non sia stata fissata in una forma ben precisa. Il partito avrebbe imparato molto di più e i nostri successori ne avrebbero tratto molta più esperienza. Pure, questa forma utile e necessaria non si crea con nessuno statuto, ma esclusivamente rendendo note le cose di partito. Da noi, in regime autocratico, non può esistere altro mezzo e strumento per rendere note le cose di partito se non l'informazione regolare al centro del partito".
Lenin si rammarica di non poter fissare in una forma precisa i contenuti della lotta interna del partito. E’ evidente comunque che essi sono il richiamo ad un unitario sistema di riferimento: quando non è inteso allo stesso modo da tutti, non si decide "secondo lo statuto" ma si spacca, se necessario, il partito stesso.
E’ palese che un linguaggio comune non si ottiene con le votazioni, con le norme statutarie, con la democrazia interna ma, come è continuamente ribadito nello scritto in questione, può solo derivare da un programma da tutti condiviso e dal lavoro pratico che ne consegue per realizzarlo. Lavoro che deve essere svolto in modo professionale.
Anche qui gli epigoni, che niente hanno compreso del metodo, si attaccano ad una parola e ne stravolgono il senso. Rivoluzionari di professione non vuol dire "professionisti della politica", funzionari stipendiati o meno, come viene interpretato comunemente ed erroneamente, ma dispiego di professionalità nello svolgere attività militante. "La propaganda affidata agli incapaci sputtana il partito. I giovani devono imparare dalla gavetta con compiti pratici". Lenin non solo pretendeva che fosse militante solo chi svolgesse un'attività pratica in un organismo del partito, ma che essa fosse svolta senza dilettantismo e improvvisazione. Occorreva utilizzare il lavoro di tutti in modo centralizzato, con una ripartizione dei compiti che possa sviluppare la funzionalità del partito in base alla complementarietà delle capacità di ogni membro.
Nel Che Fare si legge che "La società produce moltissime persone adatte all’azione, ma noi non sappiamo utilizzarle tutte". Questo perché mancava ancora un partito capace di impostare un lavoro "ampio e insieme unitario e armonico, che permetta ad ogni forza, anche la più insignificante, di applicarsi". Lenin riteneva importante l’utilizzo di ogni singola cellula di energia, "perfino di un singolo individuo" per rovesciare la prassi dell’entropia dilagante in un movimento che mancava ancora di una guida sicura.
Il lessico della doppia rivoluzione e il rifiuto del metodo democratico
Bisogna rilevare che Lenin operava nel periodo a cavallo tra i due secoli, quando si era nel vivo della lotta clandestina sotto il regime zarista, ed è necessario tenere conto delle forti esigenze cospirative necessarie. Inoltre il partito bolscevico non si era ancora formato, esisteva come corrente all’interno della socialdemocrazia russa, con cui doveva condividere almeno il linguaggio. Infine, in quell'area del mondo era ancora in corso un processo di trasformazione sociale e politica di rivoluzione doppia, in cui la democrazia svolgeva un ruolo positivo, aveva un ruolo da giocare nel per il processo rivoluzionario comunista, rispetto al regime feudale. Il linguaggio della rivoluzione Bolscevica risentiva quindi fortemente dell’accavallamento storico delle rivoluzioni (borghese e proletaria), finendo per adattarsi a larga parte della terminologia borghese. La cosa in sé non comportava gli enormi problemi odierni di significato politico, in quanto una rivoluzione finiva per rovesciarsi dialetticamente nell’altra.
Diversamente si poneva la questione nell’occidente capitalisticamente sviluppato, dove vi era una sola rivoluzione possibile, quella comunista pura. Il Partito, utilizzando gli strumenti più idonei, li formalizzava con un linguaggio più preciso. Bordiga si appoggiava su un’esperienza sociale più avanzata, e gli fu possibile formulare esaurientemente il concetto di partito organico che Lenin, prima di tutti, aveva applicato nel funzionamento del partito Bolscevico. Entrambi rientrano nella stessa dinamica di classe, come lo stesso Bordiga rivendicava sempre riferendosi a Lenin, che fu cento volte attaccato come dissolvitore, disgregatore, violatore dei doveri di partito, ma proseguì imperterrito per la sua via, e divenne con perfetta logica il rivendicatore dei sani criteri marxisti di centralizzazione organica nello stato e nel partito della rivoluzione.
E’ nella natura dei fatti sociali che il partito di domani, o i continuatori odierni dell’esperienza della Sinistra, continuino a definire e a specificare il modo di funzionare del partito, in termini di elaborazione teorica, basandosi sugli insegnamenti della storia passata e sui risultati raggiunti dalla ricerca scientifica odierna.
Lenin non va visto come il genio che ha risolto i problemi inerenti al partito (come lo considerano i "leninisti"), ma come lo scienziato che insegna a trattarli. Tutto il materiale sulla lotta interna al partito socialdemocratico russo è per noi, ancora oggi, di importanza decisiva, come un'utile traccia che permette di impadronirsi del metodo con cui Lenin affronta il problema. Nella lotta contro "l’opportunismo sui problemi dell’organizzazione", egli utilizza in gran parte un lessico socialdemocratico oggi improponibile e già superato, anche se non completamente, dalla Sinistra fin dagli anni venti. Ma tutta la questione è rigorosamente trattata con metodo marxista: organizzazione, tattica, programma, volontà, determinismo, sono considerati come un tutt’uno.
Al di là del lessico utilizzato, negli scritti leniniani viene delineata l’unità dialettica fra le parti e il tutto, basta saperla vedere. Anche quando è costretto ad utilizzare l’aggettivo "democratico" (abbinato a centralismo), frutto dell’influsso della dinamica della doppia rivoluzione in atto in Russia, Lenin vuole indicare un semplice concetto di integrazione: il singolo militante che entra a far parte di un tutto. Il riferimento è comunque sempre e soltanto orientato verso soluzioni tecniche del funzionamento organizzativo, mai al contenuto giuridico, filosofico o politico della vita del partito prima, e dello Stato russo poi.
L'aggettivo "democratico" i bolscevichi lo ereditano, allo stesso titolo dell’organizzazione clandestina, da tutta la migliore tradizione rivoluzionaria populista russa. L’arretratezza sociale non permise mai di gettarlo nel pantano con i vecchi arnesi, neanche dopo la conquista del potere: saranno ancora costretti a scrivere sulla loro bandiera "dittatura democratica del proletariato e dei contadini" a sancire i già ricordati caratteri di doppia rivoluzione. Anche in questo caso, il termine ha uno specifico significato tecnico e mai assumerà un contenuto giuridico o politico, tant'è vero che nella costituzione dello stato russo del 1918 un voto operaio equivaleva a 5 voti contadini. Non si trattava di rendere uguali i cittadini di fronte allo Stato, ma di sancire le differenze fra le classi per salvaguardare la strettissima minoranza proletaria contro lo sterminato mare contadino. Il programma di Lenin è ben lungi dall’essere democratico.
L’abiura che fa della democrazia è netta e non lascia spazio a fraintendimenti di ordine teorico, quindi nemmeno pratici. Nell’opuscolo La Rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky è chiarita la differenza tra la "democrazia pura", fantoccio ideologico riformista, e quella proletaria, antitetica alla democrazia borghese. La polemica, che parte dalle considerazioni sulla Comune di Parigi del 1871, si basa sull’assurdo assunto kautskyano secondo cui la Comune era stata eletta a suffragio universale. Una definizione ridicola nel contesto del discorso, in quanto Parigi era spaccata in due tra borghesi e proletari, ma anche in generale dato che, giusta Lenin, gli operai sanno e vedono che il parlamento borghese è un istituto a loro estraneo, un’arma di oppressione dei proletari da parte della borghesia, un’istituzione della classe nemica, della minoranza sfruttatrice. E’ qui che Lenin rinfaccia al rinnegato Kautsky le fondamentali domande: democrazia per quale classe? Ci può essere uguaglianza tra sfruttati e sfruttatori? Ovviamente, risponde Lenin, la repressione di una classe implica l’ineguaglianza per questa stessa, dunque la sua esclusione dalla "democrazia" (virgolette di Lenin). Ecco perché parlare di "democrazia pura" non solo rappresenta un vuoto esercizio intellettuale, ma significa anche essere né più né meno che sicari al soldo della controrivoluzione. Non è possibile, dice Lenin, confondere l’uguaglianza formale con quella effettiva, né tantomeno è legittimo parlare della Comune di Parigi come esperienza democratica. In quel caso il parlamentarismo era stato soppresso, ed Engels aveva scritto a chiarissime lettere che una rivoluzione è certamente la cosa più autoritaria che via sia; è l’atto per il quale una parte della popolazione impone la sua volontà all’altra parte per mezzo di fucili, baionette e cannoni, mezzi autoritari…e il partito vittorioso deve continuare questo dominio col terrore che le sue armi ispirano ai reazionari. Non si tratta allora di posizioni ideologiche distinte, ma di rapporti di forza. Allo stato borghese bisognerà dunque sostituire uno stato diverso, in cui i rapporti siano capovolti e venga data ai proletari "una rappresentanza molto più accessibile" (Lenin). La democrazia di cui parla Lenin dopo la Rivoluzione d’Ottobre è quella dei Soviet, una forma che lui definisce mille volte più democratica di quella borghese. Qui Lenin chiarisce il vero significato che per lui assume la parola democrazia, e per farlo cita Engels: Non essendo lo Stato altro che un’istituzione temporanea di cui ci si deve servire nella lotta, nella rivoluzione, per tenere soggiogati con la forza i propri nemici, parlare di uno "Stato popolare libero" è una pura assurdità; finchè il proletariato ha ancora bisogno dello Stato, ne ha bisogno non nell’interesse della libertà, ma nell’interesse dell’assoggettamento dei suoi avversari. E, quando diventa possibile parlare di libertà, allora, lo Stato come tale cessa di esistere. Un passaggio che fa man bassa di tutti i possibili fraintendimenti del marxismo. All’interno di una società di classe parlare di democrazia o libertà non ha alcun senso, almeno fino a quando non ci poniamo la fondamentale domanda che Lenin rinfaccia a Kautsky: per quale classe? La libertà può esistere solo se si esce dal regno della necessità (Marx), cioè quando non esisterà più il dominio di una classe sull’altra. Ecco allora chiarito il significato transitorio che assume il concetto di democrazia in Lenin: uno strumento necessario, tenendo presente la particolare situazione della Russia dell’epoca (sconfinata, scollegata e con un proletariato numericamente molto inferiore ai contadini) per inquadrare operai e contadini nella struttura dei Soviet e renderli partecipi del cambiamento in corso. Uno strumento fastidioso ma necessario, almeno nella Russia post 1917; una situazione che non dovrà per forza riproporsi negli altri paesi, a velocità differente di sviluppo capitalistico (Lenin). La condizione necessaria e valida sempre è la repressione violenta degli sfruttatori come classe e quindi la negazione della uguaglianza sociale.. Il passaggio dal capitalismo al comunismo abbraccia un’intera epoca storica – dice Lenin – fino a che quest’epoca non è conclusa, negli sfruttatori permane inevitabilmente la speranza della restaurazione, e questa speranza si traduce in relativi tentativi di restaurazione. Non ci si può allora sbarazzare subito dello Stato, poiché non si possono espropriare d’un tratto tutti i grandi proprietari fondiari e i capitalisti di un paese…bisogna sostituire la loro direzione con una diversa, con la gestione operaia delle fabbriche e dei fondi agrari..
Quanto più è sviluppata la democrazia, tanto più i capitalisti precludono alle masse la gestione del potere: questo perché man mano che si sviluppa il capitalismo corre verso la sua morte, dunque la borghesia deve necessariamente serrare le fila e raccogliersi in blocco contro l’offensiva rivoluzionaria. Ecco la sequenza storica che si ripete: democrazia, fascismo, comunismo. Ovvio che Lenin non può parlare ancora di fascismo, ma in base alla sua impostazione è chiaro che la democrazia è il contenitore del conflitto di classe, che progressivamente s’inasprisce fino a sfociare in un’aperta dittatura dell’una sull’altra. Compito del proletariato è rovesciare questa situazione instaurando la "sua" dittatura. Il proletariato non può vincere senza spezzare la resistenza della borghesia, senza schiacciare con la violenza i propri avversari..laddove c’è la "repressione violenta", laddove non c’è la "libertà", non ci può essere, naturalmente, nemmeno la democrazia (virgolette di Lenin). Questo passaggio è riferito a Kautsky: secondo la sua visione liberale, se c’è democrazia c’è libertà di scelta, quindi non può esserci violenza intesa come costrizione. Lenin ironizza su di lui: più progredita è la democrazia, più c’è violenza di una classe sull’altra, quindi la "democrazia pura" di Kautsy in realtà non esiste.
Lenin sapeva benissimo che una rivoluzione simultanea in Russia e in altri paesi europei era impossibile, e che i bolscevichi rappresentassero soltanto un’avanguardia del movimento proletario internazionalefino a quando un’altra rivoluzione in un paese capitalisticamente avanzato non ne avrebbe soppiantato la guida del proletariato mondiale.. La Russia del 1917 aveva ancora bisogno, e per lungo tempo, della democrazia: non può dirsi la stessa cosa di paesi come l’Italia e la Germania.
Verso un'organizzazione di tipo "superiore"
Lenin insiste continuamente sull’importanza decisiva della dialettica nelle relazioni interne fra militanti, garante della funzionalità del partito.
Si legge nel Che fare che "la concentrazione di tutte le funzioni cospirative nelle mani del minor numero possibile di rivoluzionari di professione, non significa affatto che questi ultimi ‘penseranno per tutti’, e che la folla non parteciperà attivamente al movimento. La centralizzazione delle funzioni cospirative e dell’organizzazione, non implica affatto la centralizzazione di tutte le funzioni del movimento".
Dirà Bordiga che gli ordini che le gerarchie centrali emanano non sono il punto di partenza, ma il risultato della funzione del movimento inteso come collettività…nel senso realistico e storico. I partiti comunisti sono organismi ad adesione "volontaria". Questo è un fatto inerente alla natura storica dei partiti, e non il riconoscimento di un qualunque "principio" o "modello". Sta di fatto che noi non possiamo obbligare nessuno a prendere la nostra tessera, non possiamo fare una coscrizione di comunisti, non possiamo stabilire delle sanzioni contro la persona di chi non si uniformi alla disciplina interna: ognuno dei nostri aderenti è materialmente libero di lasciarci quando crede. Bordiga è il primo a formulare scientificamente la necessità di una struttura interna del partito che funzioni non in base ai formalismi democratici, ma secondo un’attitudine più avanzata, "superiore". La guida che ci ricollega al nostro scopo rivoluzionario non può dunque mai essere fornita dall'ossequio formale e costante ai capi ufficialmente investiti, e neppure dall'adempimento indispensabile di tutte le formalità di una consultazione elettiva. Ripetiamo che una nostra soluzione va costruita in modo del tutto diverso e superiore. Questo modo è il centralismo organico.
Così si impostavano correttamente i termini della formazione di un vero partito di classe: non un insieme di regole prestabilito, una "ricetta del buon partito", ma una serie di ordini che rispondono alle esigenze reali del movimento operaio internazionale. Il partito allora non si costruisce: non esiste un perfetto comunista o un perfetto comitato centrale che detta le regole. Il partito comunista nasce nel momento in cui le molecole sociali iniziano a muoversi freneticamente prima senza controllo, poi iniziano ad aggregarsi dando vita ad un processo di autorganizzazione sociale basata su un lavoro comune caratterizzato dallo stesso obiettivo: unione dialettica tra qualità e quantità. Quantità della massa necessaria per raggiungere il punto critico (massa critica) , qualità della polarizzazione e ulteriore qualità specifica che deriva dalla conoscenza che chiamiamo partito. Infatti nel concetto di rovesciamento della prassi e stando a quanto diceva Engels nella dialettica della natura, in quel "momento polarizzato" immediatamente tutto quello che fa parte del mondo del disordine, del caos, degli avvenimenti incontrollati diventa il mondo del progetto. Solo in quel momento è possibile dire che la classe attraverso il suo partito esprime una volontà; se invece intesa come mero aggregato di individui senza il partito (secondo la definizione di Marx la classe si riconosce per sé solo attraverso il partito) sarebbe semplicemente un accostamento bruto di molecole individuali, senza continuità tra loro ma soltanto contigue (discrete). Se l’individuo è impotente, l’accostamento di individui determina semplicemente una somma di impotenze. Ma il problema è: da dove sbuca il partito? La dialettica della questione sta nel fatto che non solo c’è l’accostamento di quantità e uno scatto in qualità, ma proprio dal punto di vista fisico è dimostrato che quando esiste un ordine soggiacente di qualsiasi genere esiste di per se stessa la possibilità di giungere a un nuovo livello di ordine.
Il partito dunque fornisce alla classe il suo strumento, il programma, dirigendo quella polarizzazione che determina il superamento dello stadio di massa critica. E la classe diventa classe per sé. Spiega Lenin nel Che fare: "soltanto la più grossolana incomprensione del marxismo poteva far pensare che il sorgere di un movimento operaio spontaneo di massa ci esonerasse dall’obbligo di creare un’organizzazione di rivoluzionari. Al contrario questo movimento di impone quest’obbligo poiché la lotta spontanea del proletariato non diventerà una vera ‘lotta di classe’ finchè non sarà guidata da una forte organizzazione di rivoluzionari".
Lenin definisce l’elemento spontaneo solo come forma embrionale della coscienza, ovvero il ruolo direttivo che deve svolgere necessariamente il partito del proletariato. "Ogni sminuimento della funzione ‘elemento cosciente’, della funzione della socialdemocrazia, significa – lo si voglia o no – un aumento dell’influenza dell’ideologia borghese sugli operai". Kautsky, citato nel Che fare, evidenzia che "socialismo e lotta di classe nascono l’una accanto all’altra, e non una dall’altra…la scienza economica contemporanea è al pari della tecnica moderna una condizione della produzione socialista. Il proletariato, per quanto lo desideri, non può creare né l’una né l’altra: entrambe sorgono dal processo sociale contemporaneo. Il detentore della scienza non è il proletariato". Lo è invece il suo partito, che si pone come anticipatore del cervello collettivo della società cui deve approdare questo processo ai fini della sopravvivenza di specie.
Nonostante i limiti dello sviluppo storico dato, la militanza bolscevica fu il primo esempio di collettività che si autorganizza in vista di un fine particolare, la rivoluzione. Dunque è proprio il fine rivoluzionario che assegna a ogni membro del partito dei compiti pratici da svolgere in base alle proprie attitudini: "l’organizzazione dei rivoluzionari deve comprendere prima di tutto e principalmente uomini la cui professione sia l’attività rivoluzionaria. Di fronte a questa caratteristica comune dei membri dell’organizzazione, deve cancellarsi completamente ogni distinzione fra operai e intellettuali, per non parlare poi della distinzione di mestiere degli uni e degli altri". Il compito del partito consiste nel non abbassare il rivoluzionario al lavoro dell’artigiano, elevandolo invece al lavoro del rivoluzionario. Bisogna dunque "innalzare gli operai ai rivoluzionari, e non dobbiamo affatto abbassarci noi a livello della ‘massa operaia’". Così il partito bolscevico riuscì a dare vita ad un meccanismo unitario in grado di anticipare e prefigurare il funzionamento futuro di una società finalmente senza classi.
Il rovesciamento della piramide
L’esigenza di integrare le parti al tutto e la formazione di un meccanismo unitario al servizio di uno scopo e di un interesse particolare, non furono invenzioni scaturite dall’inventiva di Lenin. Si trattò invece di determinazioni sociali scaturite dallo stato d’animo ampiamente diffuso grazie alle quali gli operai bolscevichi cheerano appena faticosamente usciti dall’esperienza frammentaria dei circoli socialdemocratici e aspiravano ad una ferrea e razionale centralizzazione del lavoro di partito: Lenin ne rappresentò lo strumento operativo. La sua opera teorica e politica non può essere disgiunta da tale ambito, se talvolta viene fatta questa operazione è solo per comodità di esposizione. Le condizioni sociali che caratterizzarono il lavoro di Lenin vennero meno in seguito alla sconfitta della prospettiva rivoluzionaria in Occidente e all’affermazione della controrivoluzione in Russia, e si determinò l’impossibilità di apporre quei correttivi che Bordiga chiamò "rovesciamento della piramide". Con lo stalinismo, infatti, si afferma il principio democratico: tutti devono seguire la maggioranza indipendentemente dalla direzione in cui vanno le sue decisioni. Bordiga spiega che Appunto perché siamo antidemocratici, pensiamo che in materia una minoranza può avere vedute più corrispondenti di quelle della maggioranza all'interesse del processo rivoluzionario. Cioè quello che successe a Lenin e pochi altri nel 1917.
Fu questa impostazione che consentì a Lenin di operare la correzione della rotta del partito ogni volta che se ne presentava la necessità, anche quando si trovò solo contro tutto il comitato centrale bolscevico nell’aprile del ’17 o in forte minoranza come nell’ottobre dello stesso anno. Nel primo caso, le tesi che Lenin presentò contro la maggioranza riuscirono a ribaltarne completamente la linea. La sua vittoria non solo fu completa, ma riportata in così breve tempo che causò ironiche osservazioni borghesi sul suo presunto "regime personale" di partito. Nelle vittoriose Tesi di Aprile, Lenin basava i suoi argomenti sulla tradizione viva del suo partito, irriducibilmente avversario delle altre classi, nemico di ogni tergiversazione, argomenti particolarmente sentiti nella base bolscevica. L’indignazione fra la base contro la maggioranza del partito era enorme, al punto che nei quartieri operai di San Pietroburgo e Mosca si chiedeva chiaramente l’espulsione della redazione della Pravda, considerata conciliatrice nei confronti della borghesia vincitrice della rivoluzione democratica di febbraio. Per combattere l’irrisolutezza dello stato maggiore che si opponeva all’insurrezione, ancora una volta Lenin dovette appoggiarsi con convinzione sull’ "operaio bolscevico di base", per il quale era necessaria la conquista violenta del potere, come sempre affermato dal partito.
Questi ribaltamenti si possono spiegare solo sulla base di un'organicità che permeava il partito tutto, e che permise a Lenin di restare saldo sui punti del programma comunista nonostante la gran parte dei dirigenti ne stesse tradendo i principi cardine.
I militanti bolscevichi erano assolutamente persuasi che nel partito, in quella particolare struttura di lavoro e solo in quella, ci fossero le soluzioni dei loro problemi. Solo in questo modo fu possibile utilizzare errori, interrogativi o addirittura critiche per aggiungere qualcosa all’esistente o migliorarne qualche parte. Le discussioni fuori dal lavoro pratico si autoalimentano, diventano dibattiti, scontri fra mozioni di minoranza e di maggioranza e, alla fine, confronti democratici fra tesi contrapposte. E’ impossibile raggiungere quei risultati pratici ottenuti da Lenin, senza che vi fossero le basi materiali di una militanza sentita e vissuta. Cosi non fu e non può essere in altri partiti, in cui le divergenze si tramutano in antagonismi interni e discussioni senza fine.
OGGI
Nonostante le grandi battaglie del bolscevismo e le potenti precisazioni della Sinistra Comunista sul centralismo organico, per molti la concezione del partito resta ancora quella borghese, ritagliata sul modello meccanicistico cartesiano: una macchinetta "costruita", fatta di leve, rotelle e molle, cui basta dare la carica per farla muovere verso masse che la attendono a braccia aperte e ne mettono in pratica le parole d'ordine assaltando Palazzi d'Inverno. Una concezione semplicistica e superficiale che proprio Lenin aveva già demolito
Con il termine "partito" non intendiamo una mera organizzazione politica, bensì l'antitesi organica di ogni forma organizzativa finora espressa dalle società classiste. La concezione organizzativa rivoluzionaria deve essere coerente col futuro dell'umanità e non avere a modello le organizzazioni realizzate in passato, neppure quelle che furono un tempo rivoluzionarie. Il partito rivoluzionario di domani dovrà rappresentare il superamento di ogni ipotesi ri-formista e con-formista. Guidando la distruzione della forma sociale esistente, non potrà attingere da essa nessun modello di struttura. Come furono anti-formiste le rivoluzioni del passato e anti-formisti i partiti che le guidarono, così saranno anti-formisti la prossima rivoluzione e il partito che la guiderà. Il vero partito rivoluzionario avrà una struttura organica e non democratico-gerarchica, sarà strutturato come un organismo vivente in tutto e per tutto. Le cellule di un organismo svolgono ognuna una funzione differenziata ma concorrono al funzionamento dello stesso, che esalta sempre le funzioni delle sue parti differenziate perché solo in questo modo ogni cellula individuale può dare all'organismo collettivo il meglio delle proprie potenzialità (come del resto osserva Marx in appunti del 1843).
L'organicità nel lavoro esclude il ricorso a formalismi organizzativi quando non ve ne sia l'assoluta necessità. Oggi tutte le attività produttive della specie umana sono svolte in modo centralizzato, pianificato, collegato, insomma coerente con il livello tecnico raggiunto dal capitalismo ultramaturo. La tecnica e il lavoro socializzati sono entrati nella natura della specie umana, e sono riscontrabili nella storia fin dall'epoca di antiche comunità organizzate. La disciplina e il centralismo, quindi, non sono un dettato statutario o morale, ma il risultato pratico del rapporto organico tra gli individui, l'insieme di essi e il fine che si danno.
Il Partito Comunista d'Italia, sezione dell'Internazionale Comunista dal 1921, non aveva segreterie né sedi centrali; il lavoro di coordinamento era svolto da cinque persone perché la rete degli aderenti era organica al programma ed aveva perciò capacità di auto-organizzazione come un corpo vivente, le cui direttrici sono tracciate dalla proiezione verso la società futura.
Sarà allora questa nuova forma-"società futura" a determinare i compiti del partito presente (dunque pre-immagine) presente nella vecchia forma. In assenza di altri fattori in controtendenza il sistema, originariamente in un altro stato, evolverà fino a giungere all’attrattore, e vi resterà. In fisica l’attrattore può essere un punto (per esempio il centro di un incavo che contiene una palla), una traiettoria regolare (per es. l’orbita dei pianeti), una serie complessa di stati (p.e. il metabolismo di una cellula) o una sequenza infinita ("strano attrattore"). Tutto fissa un volume ristretto di spazio di stato (una compressione). La più larga area di spazio di stato che conduce a un attrattore è chiamato il suo bacino di attrazione e contiene tutte le pre-immagini dello stato di attrattore. Il rapporto del volume del bacino col volume dell’attrattore può essere usato come una misura del grado di auto organizzazione presente. Questo Fattore di Auto Organizzazione varierà dalla misura totale dello spazio di stato: per sistemi totalmente ordinati (compressione massima) a 1, per il sistema ergodico (compressione minima) a 0. Il partito formale è una progressiva approssimazione della comunità umana futura. Lega dei Comunisti, Partito Bolscevico, PCd’I, Partito-Formale-A-Venire è la progressione delle coagulazioni formali del Partito Storico. Se noi consideriamo il partito bolscevico come un’organizzazione proto-organica, significa che esso costituisce la pre-immagine della società futura, come tutte le altre formalizzazioni del partito storico (PCd’I, Lega dei Comunisti). Cioè essi si trovano ad un grado di auto-organizzazione inferiore a quello della società futura, il Fattore di Auto Organizzazione è maggiore di 1.
S.O.F. (self organization factor) = y/x y=società in una fase storica ; x=comunismo
Se y > x => S.O.F. > 1 [ n ]
Se y = x => S.O.F = 1 [ n+1 ]
Il concetto di pre-immagine è legato alla capacità del sistema di "comprendere" i limiti della configurazione presente, di pensare il suo proprio sviluppo. Non nel senso mistico di un certo "spirito" di specie, ma come natura che "pensa sé stessa", in termini auto-organizzativi. È il meccanismo che produce la vita organica, lo stesso che produce il partito. In termini concreti sono le condizioni presenti, l’eredità storica e la direzione verso l’attrattore comunismo che producono il partito.
Non è sufficiente, però, parlare solo di attrattore ma, bisognerebbe introdurre il concetto di "attrattore strano". Questo perché nel nostro caso non siamo in presenza di un sistema che si polarizza in modo semplice e ordinato, come un termostato col suo semplice feedback. Siamo invece in presenza di un sistema con altro tipo di retroazione, disordinato, che non può ricevere ordini definiti, che a prima vista potrebbe perciò produrre indifferentemente scenari ordinati o caotici, magari ciclicamente e per sempre, come nella generalità dell'universo. La natura, in quanto turbolenta, rifugge le formalizzazioni lineari e, nella stragrande maggioranza dei casi, l'indagine analitica. Ma ogni società è il risultato di una storia che contiene il suo futuro come tutti i fenomeni deterministici. Ci troviamo di fronte al percorso nel tempo di un certo punto significativo che il marxismo individua, nella sua ricerca, in mezzo al caotico svolgersi sociale (filo rosso, partito storico, ecc.). Intorno a questo punto e al suo percorso ("storia") ci sono delle "condizioni al contorno", le quali prefigurano il comportamento del sistema tutte le volte che esso arriva a una biforcazione (o catastrofe). Questo punto si porta dietro tracce della sua propria storia, le memorizza, e quindi ad ogni stadio raggiunto non potrà mai più essere quello che era. Si capisce che ogni stato in successione del suddetto punto in divenire, con tutto ciò che gli sta intorno, potrebbe essere la pre-immagine.
La biforcazione cui giunge la società, formalizzata dalla Sinistra nella Teoria delle Cuspidi, è un fenomeno che pone il sistema di fronte a tre comportamenti possibili: ordine dall'ordine (conservazione); caos dall'ordine (collasso sistemico); nuovo ordine dal caos (catastrofe che separa un ordine da un altro di livello superiore). Ulteriori cambiamenti in più parametri possono causare ulteriori spaccature ad intervalli regolari fino a quando il sistema entra in una fase caotica. L’elemento polarizzatore che svolge un ruolo decisivo nella biforcazione è il partito, inteso in senso universale. Questo elemento non può mai essere "creato", esso non può che uscire dal sistema e rientrarvi. Siamo in presenza quindi di un attrattore strano, vitale per le sorti della rivoluzione.
Trasponendo le teorie della fisica nell’esempio concreto della rivoluzione russa, riscontriamo il fattore di conservazione, ad esempio, negli economisti. La loro azione era tesa a riportare il sistema nella sua forma precedente alla perturbazione, impedendo alle contraddizioni di classe di andare oltre al conflitto operaio-padrone, rimanendo in una condizione conservativa. Viceversa, i Bolscevichi rappresentavano il tentativo del sistema di liberarsi dalle cause delle perturbazioni, tendendo a sfuggire al campo gravitazionale della legge del valore secondo un programma storico rivoluzionario. In questo caso il sistema sente già l’attrazione verso la società futura, e attorno a questo successivo stato si polarizzano alcuni elementi del sistema in transizione.
In base alla teoria dell’auto-organizzazione, i fattori esterni (natura) ed interni (forza produttiva sociale) possono agire in maniera sinergica o contrapporsi a definire la configurazione successiva. Tra più stati possibili prevale quello meglio corrispondente al rapporto uomo-natura in quelle determinate condizioni di forza produttiva. La "pressione selettiva" esterna rispetto al sistema auto-organizzato della specie pone una successione precisa (fasi successive di produzione), o detto in altri termini un percorso adattivo. Nella teoria dell’auto-organizzazione, fino a quando il sistema non è passato completamente al bacino del successivo attrattore, rimane soggetto alla "forza" dell’attrattore precedente.
In altri termini l’ambiente seleziona quale tra gli attrattori del sistema diventa attivo in ogni momento, il che può essere chiamato auto-organizzazione selezionata o collocata.
La selezione è la tendenza a muoversi verso uno spazio di fase in una particolare direzione, massimizzando alcune funzioni di forma esterna(external fitness function). L’auto-organizzazione porta il sistema verso un attrattore interno, potremmo chiamarlo una funzione di forma interna. I due concetti sono complementari e possono collaborare (lavorare nella stessa direzione) mutuamente o contrapporsi. Nel contesto dei sistemi auto organizzati, gli attrattori sono gli unici stati stabili che il sistema possiede, la pressione selettiva è una forza sul sistema che cerca di deviarlo verso un attrattore differente. Potrebbero essere necessarie parecchie mutazioni per portare un sistema a deviare verso un nuovo attrattore, dal momento in cui esso abbandona la posizione iniziale e attraversa il bacino di attrazione. Solo quando il margine tra due bacini è oltrepassato un cambiamento di attrattore farà sorgere un cambiamento di proprietà del sistema.
Mettendo in relazione l’organizzazione con il secondo principio della termodinamica, si apprende che l’ordine è un risultato necessario dei sistemi lontani dall’equilibrio (dissipativi) che cercano di massimizzare la degradazione da stress. Più complessi sono i sistemi e più efficiente è la loro capacità dissipativa, in relazione alla "legge della massima produzione di entropia". Quindi l’organizzazione non viola la seconda legge della termodinamica, piuttosto sembra esserne il risultato diretto.
Affinché avvenga una auto organizzazione, il sistema deve essere né connesso in maniera rada (cosicché molte unità risulterebbero indipendenti) né troppo connesso (risulterebbe che tutte le unità influenzano le altre).
Molti studi sui network booleani mostrano come avendo all’incirca due connessioni per ogni unità si arriva all’optimum per le proprietà organizzative e adattive.
Il punto critico del sistema è definito "margine del caos", situazione in cui un piccolo cambiamento può spingerlo verso un comportamento caotico o bloccarlo in un comportamento fissato. Avviene un cambiamento di fase. Perturbazioni transitorie (disturbi) possono durare lungo tempo (limite infinito) e/o coprire l’intero sistema, oppure più frequentemente sarà locale e di breve durata.
La rivoluzione in permanenza è in ogni caso una rivoluzione che si sviluppa per salti, per successive (in senso storico) rotture rivoluzionarie. La morte in permanenza non è una discesa graduale d’ogni periodo, ogni fase storica della vita di specie vive finché non ha esaurito, ovvero finché non ha prodotto (esaurimento = produzione), le condizioni per la fase successiva della propria morte continua.
Il capitalismo che vive e che, con potente accelerazione produce, a livello mondiale, lavoro salariato - quindi lavoro associato: cioè la propria negazione - è un momento della rivoluzione in permanenza, cioè potente accelerazione verso la morte di se stesso e delle società proprietarie.
Il capitalismo rivoluziona sempre se stesso, passa dal dominio formale a quello reale, eppure resta sempre capitalismo. Si tratta di una serie di astrazioni dal tessuto fluido della molteplice realtà., autentiche imposizioni materiali che scaturiscono dal sottosuolo della società a catturare e dettare quanto si deve cercare e trovare. Ci troviamo di fronte a quello che in un primo momento potrebbe sembrare un paradosso: ciò che si conserva nella società attuale è la sua negazione (la società futura), riproposta ad un livello sempre più alto. Un feto non muore in quanto feto, finché non ha sviluppato tutte le potenzialità per nascere, un bimbo non muore in quanto bimbo, finché non sviluppa quanto è necessario per diventare ragazzo, un ragazzo... uomo maturo, un uomo... vecchio. Non è forse questa una rivoluzione in permanenza?: rivoluzione che mostra come la distinzione vita-morte presenta sì la sua utilità quando se ne deve parlare, ma che in ogni caso se ne può parlare correttamente non dimenticando che "vita" e "morte" sono sempre due facce di un processo permanente. Più che un paradosso questa è una situazione di doppio vincolo per il capitalismo: qualsiasi cosa esso faccia per fermare la rivoluzione, ciò porta al risultato di potenziarla. Ciò si accorda con la visione della rivoluzione come progressiva liberazione di potenzialità. Il nocciolo duro della società attuale è la società futura, e gli strati superficiali pian piano seccano ed abbandonano la scena, come in una cipolla. Il partito storico è quel nocciolo duro, è l’unico presente che abbia un futuro e che non sia già un fumoso fantasma del passato. Il programma è l’ambiente, è porsi al centro di quella cipolla e vedere gli strati superiori ormai secchi e cadenti (o meglio già caduti). Questo è il rovesciamento della prassi. "Il problema della prassi del partito non è di sapere il futuro, che sarebbe poco, né di volere il futuro, che sarebbe troppo, ma di conservare la linea del futuro della propria classe".