Si è poi passati a parlare della scottante questione siriana e delle manovre politico-militari americane. Il fronte di guerra siriano si sta allargando e l'estensione del conflitto non riguarda solo il Libano e gli altri paesi confinanti, la posta in gioco è il dilagare della guerra su scala globale. Il Vaticano sta muovendo la propria diplomazia e si è detto contrario ad un intervento militare: "Rischio guerra mondiale, nessuno uscirebbe indenne da un conflitto". Il presidente francese Hollande, l'unico alleato occidentale rimasto disponibile ad un intervento armato, dispone di una potenza militare inadeguata rispetto allo scenario che si sta profilando all'orizzonte. Gli Usa hanno aggiunto una portaerei a quelle già presenti nel Mediterraneo ed anche gli israeliani hanno fatto prove tecniche di guerra. Per quanto riguarda la Siria, gioca un ruolo importante l'intreccio di alleanze presenti sul territorio: la rete di interessi è più intricata di quella che c'è in Iraq. Gli americani non possono muoversi con leggerezza come hanno fatto finora, di qui la cautela di Obama e la necessità di fare lobby al Congresso. L'America ha il fiato corto e compattare il fronte interno è sempre più difficile. Il senatore repubblicano Rand Paul ha messo in guardia Obama dallo sferrare un attacco alla Siria: "Stiamo scivolando in una guerra più grande con la Russia... questo non è un gioco e non si può pensare di dire hey, premiamo questo pulsante ed uccidiamo un pò di gente e diciamo loro che non devono usare le armi chimiche." In effetti nell'area la sovrapposizione di alleanze politiche e religiose è potenzialmente esplosiva: l'Egitto è l'unico paese ad avere relazioni stabili con Israele, il quale è nemico di tutti e potrebbe essere il primo a rimetterci dallo scoppio della guerra, schiacciato com'è tra masse di milioni di mussulmani. L'Arabia Saudita spinge per attaccare la Siria, mentre Iran, Russia e Cina minacciano tutti perché non hanno nessun interesse che Assad cada. Gli Stati Uniti non hanno intenzione di rovesciare il regime alawita ma nemmeno di adottare una soft strategy. Storicamente gli americani attaccano e vogliono la resa incondizionata del nemico, difficilmente scendono a patti.
Secondo Fabio Mini, fino alla seconda guerra mondiale gli Stati Uniti avevano una politica di ricostruzione dei paesi conquistati, il Nation-Building, meglio conosciuto in Europa come Piano Marshall. C'era un progetto di intervento per coinvolgere la società civile e in questo modo difendere e tutelare i propri interessi. Dall'Iraq in poi gli americani non hanno una progettualità e una politica all'altezza delle sfide che il mondo globalizzato pone. L'azione economica e politica esercitata dal paese dominante sul mercato mondiale suscita immancabilmente reazioni da parte degli altri paesi che ne subiscono l'iniziativa. La concorrenza tra capitalisti si manifesta fra gli Stati in altre forme e sfocia spesso in conflitto armato.
Il concetto di serie storica dell'imperialismo si basa su una freccia del tempo, sul maturare di processi dinamici che hanno uno sbocco necessario, dipendente cioè dalle determinazioni precedenti. E le determinazioni pongono gli Stati Uniti in una situazione completamente diversa da quella in cui si sono trovati i loro predecessori. La successione mostra di interrompersi. Per capire se è vero e non prendere delle cantonate, non c'è altro modo che lavorare come al solito su invarianti e trasformazioni. C'è un dato a conferma che il ciclo storico dell'imperialismo si sta chiudendo: secondo Joseph Stiglitz per la guerra in Iraq gli Usa hanno speso 3000 miliardi di dollari. Una volta le guerre servivano a rivitalizzare l'economia, mettevano in moto cicli di accumulazione, adesso sono una spesa sempre più difficile da sostenere per Stati sempre più indebitati.
Sembra difficile pensare ad un intervento militare via terra in Siria, risulta più probabile un'operazione dimostrativa con bombardamento mirato su alcuni punti strategici. Al contrario dell'Iraq, desertico e piatto e con obiettivi facili da colpire, in Siria ci sono zone montane ed è difficile da invadere con la fanteria. Qualora partisse l'intervento militare questo sarà coordinato dalle portaerei presenti nel Mediterraneo e questo sarà il vero teatro di guerra. L'Italia, con una sessantina di installazioni americane sparse sul territorio nazionale, è coinvolta per forza di cose nello scenario bellico. L'esercito italiano è presente in Libano con le forze d'interposizione dell'Unifil che dovrebbero fungere da cuscinetto tra Israele e Hezbollah, il quale da un pò di tempo combatte a fianco di Assad contro i ribelli siriani.
Gli Usa sono l'unico paese al mondo in grado di fare il poliziotto globale, non possono però intervenire in più punti contemporaneamente. Basti pensare alla situazione del Mali dove i francesi hanno tirato un calcio nel vespaio fondamentalista e gruppi di jihadisti si sono sparsi in Nordafrica e oltre. Gli Stati Uniti sono quindi in una situazione estremamente contraddittoria: da una parte devono mettere ordine nel mondo, dall'altra qualsiasi cosa facciano producono sempre più disordine. E così la guerra che dovrebbe avere un inizio e una fine è diventata cronica trasformandosi in politiguerra.
Il tutto avviene in una situazione economica disastrosa, soprattutto in Italia dove si assiste ad un calo delle vendite di automobili del 6,5% e la disoccupazione cresce senza sosta. A livello politico poi, l'impasse è totale: si cancella l'Imu per aumentare altre tasse, riducendo i fondi per la sanità e per la manutenzione delle ferrovie. Nel quadro generale colpisce la mancanza di strategia da parte degli attori politici in gioco: dai sindacati al governo, dagli industriali ai partiti, si ragiona giorno per giorno nella totale incapacità di progettare il futuro. La prospettiva che si delinea non esclude la possibilità della comune rovina delle classi in lotta. Ipotesi già presente nel Manifesto del 1848: "Liberi e schiavi, patrizi o plebei, baroni e servi, capi di maestranze e garzoni, in una parola oppressori od oppressi, furono sempre in contrasto, e continuarono, in modo nascosto o palese, una lotta che finì sempre con la trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta."
Insomma, se tarda a prodursi la rottura rivoluzionaria sono da mettere in conto scenari globali di tipo catastrofico: degenerazione permanente della biosfera e collasso dell'ecosistema fino all'impossibilità, per lo stesso genere umano, di esistere. Nei giorni scorsi il pianeta Terra ha raggiunto l'Earth overshoot day e, secondo il Global footprint network, il 20 agosto l'umanità ha esaurito le risorse naturali rinnovabili che aveva a disposizione per l'intero 2013. Questo significa che in appena otto mesi sono state consumate le riserve di cibo (vegetale e animale), acqua e materie prime che sarebbero dovute bastare fino a fine dicembre, immettendo nell'ambiente (suolo, fiumi, mari, atmosfera) una quantità di rifiuti e inquinanti superiore alla capacità di smaltimento del pianeta. L'impronta ecologica offre la misura di quanto s'è allargato il divario fra l'equilibrio termodinamico e la dissipazione di energia, cioè di risorse che, se il sistema capitalistico non verrà eliminato, andranno irreversibilmente perdute, come la foresta primaria o l'acqua di molti fiumi a causa del prelievo per l'agricoltura e per le metropoli.