La crisi in atto, ormai diventata cronica, mostra tutti i limiti del modo di produzione capitalistico; che è innegabilmente tenace, ma allo stesso tempo malato, senile e drogato. Gli economisti non riescono nemmeno a trovare un linguaggio adatto per spiegare la situazione: se crisi non va più bene perché il termine prevede una ripresa, anche la forma "grande depressione" non può funzionare, perchè essa si è già verificata negli anni Trenta e non può quindi ripetersi. In realtà ci troviamo di fronte a rapporti capitalistici non più funzionanti.
Basti pensare alle notizie economiche che arrivano dai paesi europei: adesso anche i giornalisti si accorgono che pure la Germania è in crisi. A detta di tutti il paese più forte d'Europa, la locomotiva produttiva capace di tenere insieme l'Unione, la Germania in realtà ha una produttività più bassa dell'Italia dato il rapporto tra la popolazione attiva e il saggio di sfruttamento pro-capite. Anche se a borghesia e sindacati tedeschi va riconosciuto il merito di esser stati i primi ad abbassare artificialmente la produttività, per mantenere alta la quota di forza lavoro occupata - manovra efficace perché si è rivelata causa antagonistica alla caduta del saggio di profitto -, ora anche il capitalismo tedesco ha smesso di crescere e arranca.
Tutto quello che sta succedendo in Europa, e negli Usa, è la dimostrazione che il sistema non riesce più a governarsi e a rispondere con progetti adeguati alla crisi di valorizzazione. Si ha come l'impressione che il capitalismo si stia spegnendo: gli stati collassano, il numero dei profughi aumenta, le guerre dilagano e diventano endemiche. E non è ancora stata superata la soglia critica nelle metropoli globali: se saltassero i nodi logistici che le fanno funzionare, nessuno potrebbe contenere il caos sociale.
Anche le alleanze interimperialistiche risultano sempre più evanescenti. Assad, fino a qualche mese fa demonizzato dagli Stati Uniti, potrebbe ora diventarne un utile alleato contro l'avanzata dello Stato Islamico (IS), che ormai occupa il 35% del territorio della Siria e diversi pozzi petroliferi in Iraq. Il progetto del grande Califfato nasce come risposta oggettiva all'esoterismo di Al Qaida, un'organizzazione chiusa che compie attentati e sfrutta legami deboli nel mondo. L'IS funziona in modo diverso: ha superato la logica settaria dei terroristi puri e ha messo in campo un esercito vero, utilizza il terrore in modo consapevole e programmato, conquista territori, spazza via la "corruzione" e acquisisce consenso tra le popolazioni. Inoltre è difficile immaginare che i peshmerga possano arginare l'ondata islamista, nonostante il tifo dei governanti e dei sinistri nostrani per i resistenti curdi. Qatar, Kuwait e Arabia Saudita, che secondo alcuni sarebbero i finanziatori del Califfato, contano in realtà abbastanza poco perché il movimento si è autonomizzato dai suoi "sponsorizzatori" e sta crescendo. Paesi islamici come la Nigeria, il Bangladesh, il Pakistan, l'Indonesia e tutta la parte occidentale dell'India, sono terreno di reclutamento per l'IS.
Saltano gli equilibri globali e saltano anche i confini nazionali: i russi entrano in Ucraina, gli egiziani intervengono in Libia contro gli islamici e gli Usa bombardano in Iraq.
A proposito di confini nazionali e fronte interno, a Ferguson, nel Missouri, sono state numerose e potenti le rivolte scatenate dall'uccisione da parte della polizia del diciottenne nero Michael Brown. Negli Usa evidentemente si sta esaurendo la fase Occupy/Indignados e dalle sue ceneri sta emergendo qualcosa di più radicale. Tutte le lamentele dei sinistri sulla mancanza di diritti, la difesa del welfare e della scuola pubblica, stanno lasciando spazio alla consapevolezza che indietro non si può tornare e di qui in avanti solo i rapporti di forza saranno decisivi nella difesa delle condizioni di vita.
In chiusura di teleconferenza si è accennato a The square - Inside the revolution, un interessante documentario apparso su Rai Tre, "che ci mostra potenzialità e limiti di una rivolta sociale di massa, la necessità di una forte organizzazione politica, le insidie sempre in agguato quando si prova a mettere in discussione lo stato di cose presente". Nel lungometraggio si vedono le manifestazioni di massa che precedono la caduta di Mubarak, l'avvento dei militari, le elezioni e la vittoria dei Fratelli Musulmani, le manifestazioni anti-Morsi, la caduta dei Fratelli e infine il ritorno alla dittatura dei militari. Le immagini sono accompagnate dal racconto di una generazione di egiziani che ha deciso di farla finita con il vecchio stile di vita, rivendicando giustizia, pane e libertà. Ogni governo che succede a quello caduto reclama per sé la rivoluzione, i martiri e le parole d'ordine della piazza, ma puntualmente ne tradisce i propositi scatenando le proteste.
Pensando all'Egitto di questi ultimi anni viene in mente quanto scriveva Marx ne Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850:
"Chi soccombette in queste disfatte non fu la rivoluzione. Furono i fronzoli tradizionali prerivoluzionari, risultato di rapporti sociali che non si erano ancora acuiti sino a diventare violenti contrasti di classe, persone, illusioni, idee, progetti, di cui il partito rivoluzionario non si era liberato prima della rivoluzione di febbraio e da cui poteva liberarlo non la vittoria di febbraio ma solamente una serie di sconfitte. In una parola: il progresso rivoluzionario non si fece strada con le sue tragicomiche conquiste immediate, ma, al contrario, facendo sorgere una controrivoluzione serrata, potente, facendo sorgere un avversario, combattendo il quale soltanto il partito dell'insurrezione raggiunse la maturità di un vero partito rivoluzionario."