Il reddito di cittadinanza, inizialmente inteso come erogazione monetaria per raggiungere la parità tra tutti i cittadini, si è trasformato nel giro di pochi anni nella richiesta di un reddito di base, una sorta di salario di sopravvivenza. Quella del salario ai disoccupati è una rivendicazione classica del sindacalismo degli anni '20, accettata oltre che dai comunisti anche da alcune frange della socialdemocrazia. Oggi, data la crescita della miseria, il reddito di base (o reddito di sussistenza) è una necessità per milioni di precari e disoccupati, e c'è già chi pensa di modificare radicalmente l'apparato assistenziale, sforbiciando i fondi statali erogati a decine di strutture messe in piedi per "gestire" il business della disoccupazione. Se la borghesia non fosse così inconseguente, eliminerebbe drasticamente le spese improduttive (cominciando dalla mafia dei corsi di formazione), intervenendo per distribuire direttamente ai disoccupati queste risorse in modo da agire sulla propensione marginale al consumo. Per fare tutto ciò, ci vorrebbe un esecutivo forte e snello, cioè non troppo intralciato da chiacchiere parlamentari e disfunzioni varie.
Uno studio della Fondazione Di Vittorio (CGIL) segnala che negli ultimi anni, in Italia, sono saliti da 3 a 4 milioni i lavoratori impiegati in fast jobs, e cioè costretti a lavorare poche ore al giorno. Antonio Casilli, di cui abbiamo parlato in una precedente teleconferenza, in un intervista al Manifesto ("I lavoratori sono il cuore dell'algoritmo") racconta del "capitalismo delle piattaforme digitali" e dei "micro-cottimisti di Amazon Mechanical Turk, un sistema di creazione e addestramento di intelligenze artificiali alimentato da micro-lavoratori, persone pagate a cottimo per qualche centesimo per realizzare mansioni di gestione dati, immagini o testi", concludendo con una presa di posizione riformistica in merito al reddito di base: "Se in Italia ci sono 30 milioni di utenti di Google, è giusto tassare Google sulla base dei profitti ottenuti grazie alla loro attività. Così si può finanziare un reddito di base, un reddito digitale connesso al lavoro digitale che ciascuno di noi svolge su Internet o sulle 'app' mobili."
Nell'epoca dell'informazione in rete anche coloro che non lavorano direttamente per piattaforme come Google, Facebook e Amazon, danno informazioni e producono dati per questi colossi semplicemente navigando su Internet. Nel giro di poco tempo la raccolta di grandi masse di dati è cambiata radicalmente: un elenco di persone, cose o relazioni, ordinato secondo determinati criteri, è già di per sé un elemento "intelligente" che può fornire più informazione di quanta ne contenga la somma dei suoi singoli componenti. Può ad esempio fornire indicazioni sulle vendite future a partire dalle caratteristiche sociali dei consumatori. Produciamo (dati) anche quando non lavoriamo?
Nell'articolo "Proletari, schiavi, piccolo-borghesi o... mutanti?" abbiamo analizzato la "diffusione sociale della fabbrica", la quale è uscita da un pezzo dalle sue mura originarie. Il lavoratore moderno che lavora a domicilio cliccando su qualche piattaforma Internet, oppure il rider che prende ordini sullo smartphone, sono il prodotto specifico della crescita del General Intellect (Grundrisse). E' importante ribadire, con il Marx dei Manoscritti, che l'industria moderna non è semplicemente la fabbrica, ma "è il reale rapporto storico della natura e quindi della scienza naturale". La natura trasforma sé stessa giungendo all'industria tramite l'uomo, perciò "la vera natura antropologica" è il complesso natura-uomo-industria.
Il lavoratore precario, che vive una condizione di disintermediazione del rapporto di lavoro (come la chiamano i sindacalisti), comandato da un algoritmo, è liberato non solo rispetto ai suoi antichi mezzi di produzione, ma anche dal posto di lavoro fisso e dalle regole definite dalle lotte precedenti. Non potrà più ritornare a lottare per il contratto triennale, per la contingenza, per lo statuto dei lavoratori, insomma, per "passi indietro" verso un ripristino dell'ingabbiamento precedente. Se vuole vivere dovrà necessariamente rompere le catene capitalistiche che lo tengono prigioniero. Stiamo vivendo una transizione di fase che aspetta solo un grande rivolgimento per sancire il passaggio da una forma sociale ad un'altra.
Tutto converge verso una singolarità storica, una soluzione di tipo catastrofico. Il caos, la rottura dell'equilibrio sociale, è un passaggio necessario per arrivare a un nuovo ordine. E finché non si arriva alla catastrofe rivoluzionaria, il capitalismo deve inventarsi soluzioni per riformare il sistema, per rimandare la sua morte, cercando di inglobare le spinte anti-forma che maturano nella società (come ha fatto con il fascismo, realizzatore dialettico delle vecchie istanze della socialdemocrazia). Così facendo il Capitale nega sé stesso.
Durante l'ultimo incontro redazionale abbiamo proiettato dei grafici sul costo del lavoro umano per unità di prodotto che, sia in Europa che negli Usa, si aggira intorno al 5% (il resto è capitale costante, pubblicità, rendita, ecc.). Jeremy Rifkin, nel saggio La fine del lavoro, il declino della forza lavoro globale e l'avvento dell'era post-mercato (1995), nota come prima della rivoluzione industriale il 90% della popolazione americana fosse impiegata nell'agricoltura, per passare, in seguito all'ampio utilizzo di macchine agricole, all'odierno 3%. Lo stesso vale per l'industria e per il terziario: masse di lavoratori sono spinti nel girone infernale della sovrappopolazione assoluta. Una delle soluzioni che lo studioso propone per risolvere il problema è la drastica riduzione dell'orario di lavoro, uno dei punti del Programma rivoluzionario immediato nell'Occidente capitalistico (Riunione di Forlì del 1952). Una parte del mondo borghese, quella più lucida e preveggente, comincia a prendere seriamente in considerazione l'idea del reddito di base e della riduzione della giornata lavorativa, capitolando ideologicamente di fronte al programma comunista.
In chiusura di teleconferenza, si è accennato al riconoscimento da parte di Trump di Gerusalemme come capitale dello stato di Israele, in continuità con la strategia filo-israeliana dell'amministrazione repubblicana fin dai tempi di Reagan. Oggi questa mossa unilaterale è la dimostrazione che la superpotenza di un tempo si è chiusa a riccio in difesa del residuo potere globale.