In Francia i gilet gialli continuano a manifestare: ogni sabato, dal 17 novembre dell'anno scorso, ci sono cortei, concentramenti e scontri con la polizia in varie città del paese. E mentre alcune assemblee di gilet jaunes cercano di uscire dalla dimensione rivendicativa criticando il riformismo/parlamentarismo e cercando nuove forme di radicalità, i sindacati francesi arrancano di fronte al movimento e riscontrano difficoltà oggettive a controllare la situazione, anche perché diversi loro militanti partecipano alle manifestazioni. Il ciclo partito con Occupy ha visto i movimenti di protesta superare la forma sindacale classica obbligando le organizzazioni economiche ad accodarsi, come accaduto con lo sciopero della West Coast del 2012. Il "movimento" francese è ancora fermo al piano rivendicativo e questo lo pone al di sotto del livello raggiunto dagli occupiers americani; tuttavia anche per i manifestanti d'oltralpe è difficile fare a meno, nell'epoca delle reti e dei social network, dell'organizzazione leaderless.
Dalla Francia siamo passati al Messico, dove oltre 40.000 lavoratori della città di Matamoros hanno bloccato la produzione in 45 delle 110 maquiladoras presenti nel territorio, quasi tutte appartenenti all'indotto dell'industria automobilistica statunitense. Lo sciopero, che va avanti da più di due settimane, ha visto uno scontro molto forte con il sindacato ufficiale affiliato al Consejo de Trabajadores Mexicanos (CTM), che si è schierato apertamente contro i lavoratori. "Sindicato y empresa 'matan' la clase obrera" (Sindacato e impresa "uccidono" la classe operaia): questo lo slogan che campeggiava su uno degli striscioni di apertura dei numerosi cortei che hanno attraversato le strade della città messicana. Evidentemente, il lavoro dei sindacati, in Europa come in America Latina, è tutto teso ad evitare la crescita dell'autonomia di classe.
In zona è invece ormai sull'orlo del collasso il Venezuela che, da paese ricco fondatore dell'OPEC negli anni '60, si ritrova oggi in una crisi terribile con un tasso di inflazione a più zeri. Secondo Repubblica sono 3 milioni i venezuelani scappati dal paese, di cui un milione verso la Colombia, a sua volta in difficoltà nel prestare assistenza ad un numero così elevato di profughi. Caracas, che produce un petrolio molto povero dal punto di vista della distillazione ma abbondante e facile da estrarre, si è affidata completamente alla rendita petrolifera restando praticamente senza una produzione industriale, scelta che nel caso di crisi internazionali o di un calo del prezzo del greggio potrebbe avere conseguenze disastrose. Ma non è l'unico paese nel panorama internazionale ad aver preso questa direzione: lo stesso discorso vale anche per Russia, Iran e Arabia Saudita.
La situazione venezuelana è paradigmatica dello stato in cui versa l'economica mondiale. Il Venezuela, così come tutti i paesi rentier, vive grazie al valore prodotto altrove; ma se questo flusso si interrompe per un qualsiasi motivo, il tessuto economico e sociale rischia il collasso. L'inflazione a cui è soggetta non è paragonabile a quella tedesca post-Prima Guerra Mondiale, perché il paese è inserito nell'economia di mercato con il petrolio che oscilla di prezzo, e non può, come fece la Germania con il Rentenmark, legare la propria moneta alla produzione interna semplicemente perché questa non esiste. Lo si è visto con l'esperimento della criptovaluta di Stato, il Petro, che non ha risolto nulla.
Nel complesso dei rapporti capitalistici, la situazione venezuelana può incidere sui prestiti che il paese ha contratto con qualche banca americana, la quale a sua volta ha debiti/crediti a livello internazionale: le concatenazioni sono molto importanti e potrebbero spiegare l'impossibilità del Venezuela di bloccare l'inflazione in un mondo in crisi dove a mancare è proprio l'inflazione. L'America Latina è indebitata con le banche americane ma traffica con i soldi delle banche spagnole, ben radicate nel continente per tradizione storica e linguistica. Un bel guazzabuglio, in cui tutte le economie sono interconnesse e il famoso batter d'ali di una farfalla da una parte, magari in Venezuela, può scatenare un tornado da un'altra, negli Usa o altrove.
Nel suo ultimo numero l'Economist pubblica due articoli sulla "slowbalisation", ovvero la difficoltà del capitale a trovare sbocchi produttivi a livello internazionale: "Gli investimenti delle multinazionali cinesi in America e in Europa sono diminuiti del 73% nel 2018 [...] Il valore globale degli investimenti transfrontalieri delle società multinazionali è diminuito di circa il 20% nel 2018."
I capitalisti si accorgono che automatizzando e robotizzando la produzione conviene produrre manufatti e semilavorati in casa piuttosto che delocalizzare in altri paesi dove il costo del lavoro è più basso. E' l'argomento affrontato da Maurizio Ricci nell'articolo "La globalizzazione cambia pelle: addio delocalizzazioni e bassi salari" (Repubblica del 26.01.19): "Il motivo per cui i bassi salari oggi interessano poco e le fabbriche possono tornare in America e in Europa si chiama robot e software. Le fabbriche tornano in patria, i posti di lavoro no. L'ultimo rapporto di un think tank americano, Brookings, calcola nell'80 per cento la quota dei posti di lavoro nelle fabbriche americane esposti all'automazione."
Questa trasformazione ha già prodotto degli effetti. La necessità di parlare del domani (vedi ciclo di conferenze "Talks on tomorrow" organizzato da Repubblica) può essere spiegata dalla percezione di un futuro che sta velocemente diventando presente. Big data, intelligenza artificiale, apprendimento automatico, tutti percepiscono che questi temi sono fondamentali. Sul sito di Beppe Grillo è stato pubblicato un articolo di Valentina Petrucciolo, "Il lavoro che cambia: chi paga?", in cui si mette in discussione la logica lavorista:
"Lavoro! Lavoro! Lavoro! E' questo che chiedono a gran voce le persone. Un lavoro che deve 'essere dato', che va elargito come se fosse qualcosa che si produce, si crea, si coltiva. Ma chi può 'dare' questo lavoro? Eppoi, che tipo di lavoro? Si parla tanto di quanto oggi il lavoro sia diventato causa di stress, di malattia e di depressione. Perfino di morte. Eppure, chi non ce l'ha, lo vuole. Non chiede un sussidio di disoccupazione o un reddito di base. No: vuole 'il lavoro'."
Quella del "diritto al lavoro" non è mai stata una parola d'ordine dei comunisti, i quali pretendono semmai una forte riduzione dell'orario e un salario decente per i disoccupati. Fino a poco tempo fa eravamo in pochi a scrivere volantini contro il lavoro (provocando sgomento tra sindacalisti e gruppettari quando intervenivamo nelle assemblee), oggi il paradigma gramsciano basato sulla difesa del posto di lavoro fa acqua da tutte le parti. Il capitalismo sta liberando l'umanità dal lavoro, voler ritornare all'epoca del pieno impiego è praticamente impossibile.
La richiesta del reddito di base ha dato vita negli ultimi anni ad un movimento internazionale, il Basic Income Earth Network (BIEN) che promuove congressi e pubblica libri e riviste in diverse lingue. Il reddito di cittadinanza promesso dallo sgangherato governo italiano sarà molto probabilmente un pasticcio, ma indietro non si torna: alla massa crescente dei senza lavoro bisogna dare una qualche forma di reddito se non si vuole precipitare economicamente e socialmente nel caos.