Per Marx, e per noi, non si tratta quindi di una questione di astratta giustizia, ma del rapporto materiale tra il lavoro necessario e il pluslavoro, che alla fine si traduce in una lotta per aumentare (capitalisti) o diminuire (operai) il saggio di sfruttamento (P/V).
La produttività sociale, dice Marx, è la capacità di mettere in moto sempre più capitale utilizzando sempre meno lavoratori. La condizione essenziale per mantenere in vita il capitalismo è l'accumulazione di sempre più capitale. La condizione essenziale per accumularlo è aumentare la produttività sociale. L'aumento della produttività sociale si ottiene con la sostituzione di impianti e macchine a uomini e comporta necessariamente l'appiattimento della curva del saggio di profitto. Così, mentre la curva della produttività sociale si impenna in una cuspide, quella del saggio di profitto (o tasso di accumulazione o sviluppo economico, o indice della produzione industriale) si arrotonda in un sigmoide (da Sigma, curva ad esse). Marx nel VI Capitolo inedito definisce il complesso d'industria come mediazione storica, come transizione verso uno stadio sociale più evoluto. La potenzialità del capitalismo allo stadio supremo è evidente: rese superflue le classi proprietarie, il confronto diretto fra capitale e lavoro perde di contenuto, non ha più senso alcuno. Tolti di mezzo il capitalista, la concorrenza e la discretizzazione sociale (separazione, alienazione reciproca), l'operaio complessivo, che produce la merce complessiva in un continuum spazio-temporale, in effetti non produce merce affatto. Il valore complessivo prodotto non è più denaro ma conteggio puro e semplice; il denaro diventa un tramite fittizio.
Storicamente, nel rapporto tra l'insieme dei capitalisti e quello degli operai, la diminuzione del saggio di profitto significa ricorso al credito per aumentare la produttività; in tal modo, il prezzo di costo si avvicina a quello di produzione e si stabilisce un nuovo livello provvisorio. Oggi, i salari si abbassano rispetto al profitto; ciò provoca l'aumento del saggio e il potere d'acquisto dei proletari scende. Non è solo un problema di domanda e di offerta, ma una contraddizione del capitale: l'aumento della produttività comporta storicamente la caduta del saggio di profitto a parità di saggio di sfruttamento. Ciò provoca un congelamento dei capitali che si traduce in tesaurizzazione. Per evitarla gli stati introducono il tasso negativo sui depositi (un invito ai capitali ad investirsi in attività produttive). Quanto può durare una situazione del genere? Un capitale semplicemente tesaurizzato non è più capitale; se addirittura chi lo detiene è costretto a pagare per depositarlo, ci dimostra che siamo alla negazione di un intero sistema, non solo dei singoli capitali.
La maggior parte dei paesi occidentali è alle prese con la bassa inflazione. L'inflazione "normale" è indicativa della produzione e della circolazione del capitale, mentre l'iperinflazione è una rincorsa dei prezzi messa in moto dalla mancanza di fiducia nel mercato, così come avviene in Venezuela e Argentina, o anche in Germania dopo la Prima Guerra Mondiale. Le maggiori banche centrali (FED-BCE-BoJ), attraverso i vari quantitative easing, cercano di stimolare l'economia per raggiungere quello che dovrebbe essere un livello auspicabile che si aggirerebbe intorno al 5%, sostenuto dallo stesso Keynes anche per quanto riguarda il tasso di disoccupazione. Evidentemente, non solo non basta aprire l'ombrello per far piovere, ma le manovre monetarie (diverse decine di migliaia di miliardi iniettati nei mercati) non producono alcun risultato e, anzi, l'inflazione cala dappertutto. L'avevamo scritto nell'articolo "Un modello dinamico di crisi": l'unica via d'uscita è una pesante cancellazione di capitale fittizio. L'Europa è in deflazione perché il capitale non è più remunerato, e ciò è dovuto alla caduta tendenziale del saggio di profitto, al raggiungimento di una certa soglia oltre il quale è difficile andare. Al contrario, in Venezuela un mix di rapporti politici interni, il ruolo degli Usa che premono per cambiare una certa situazione politica, un regime basato sul petrolio, hanno concorso a deteriorare l'economia. In Europa, i rapporti di valore sono corrotti senza tuttavia provocare (almeno per adesso) un disastro economico e sociale, e la borghesia galleggia. D'altronde siamo al mantenimento sociale della popolazione, almeno dal punto di vista alimentare, tramite sussidi di varia natura.
A proposito di alimentazione, si è passati a commentare quanto accade in Argentina, alle prese con gli effetti dell'ennesimo crack economico-finanziario. Di fronte alla crescita della miseria sociale, il Senato ha varato una legge che dichiara l'emergenza alimentare fino al 2022. L'agricoltura argentina è ultra industrializzata; il paese è tra i maggiori produttori mondiali di carne, frumento, mais, ma tutta questa produzione è orientata verso il mercato estero. Al tempo stesso, la produttività si scontra con il limite fisico della terra e il suo uso intensivo. La sola metropoli di Buenos Aires conta più di 15 milioni di abitanti su una popolazione totale di circa 45 milioni, distribuita su di un territorio molto urbanizzato e modernissimo, con un'altissima produttività raggiunta con poca manodopera. A parte la crisi attuale, almeno dalla fine della dittatura, il paese è in difficoltà economica, crisi accentuata da rapporti internazionali che vedono la media potenza sudamericana annaspare nel mercato mondiale.
In chiusura di teleconferenza si è accennato alle recente mobilitazione per il clima (#FridayForFuture) che ha coinvolto le piazze di decine di città in tutto il mondo, riempite da migliaia di giovani e giovanissimi in difesa dell'ambiente. Le manifestazioni, sincronizzate a livello globale, valgono più per se stesse che per quanto dichiarato dagli organizzatori. Detto questo, è sempre più chiaro che il capitalismo non è sostenibile, non è un malato da curare, ma un cancro da estirpare.