Detto questo, non possiamo sapere quali siano le motivazioni reali di questo attentato. Sicuramente non lo si può scoprire attraverso la lettura di quotidiani o altri media mainstream, attestati su titoloni ad effetto e concentrati sul numero di copie vendute. Probabilmente le esercitazioni militari congiunte tra Iran, Cina e Russia e le vittorie ottenute dalle milizie sciite iraniane in Siria e Iraq contro lo Stato Islamico rientrano tra le cause che hanno portato gli Usa a compiere tale gesto.
Secondo il sito di intelligence israeliano Debkafile, la morte di Soleimani rappresenta una straordinaria impresa di intelligence operativa statunitense a cui si presume abbiano partecipato anche i servizi israeliani. L'attività di intelligence è fondamentale per conoscere le intenzioni e la reale forza dell'avversario. Durante la Seconda guerra mondiale, gli alleati decriptavano i messaggi avversari e agivano di conseguenza, permettendo al nemico di colpire alcune strutture militari pur di non fargli capire che erano in possesso di determinate informazioni. Oggi tale situazione è moltiplicata per mille: nel gioco di intelligence incrociato bisogna far credere al nemico cose che gli facciano compellence, e cioè lo costringano a fare ciò che non vuole ma che è utile per il suo stesso avversario. L'attacco alle installazioni petrolifere saudite a settembre dell'anno scorso da parte dell'Iran non ha prodotto nell'immediato alcuna reazione da parte dell'Arabia Saudita e dei suoi alleati; adesso però è saltata in aria l'automobile di Soilemani.
Il rapporto tra Usa e Iran è ambiguo: Teheran è stata storicamente una delle potenze amiche di Washington, ma nel 1979 con la presa del potere da parte degli islamici questa certezza è venuta meno. Con la caduta di Saddam Hussein la situazione si è ulteriormente complicata, in quanto in Iraq, paese a maggioranza sciita, l'Iran è riuscito a stabilire legami molto stretti e a conquistare spazi di manovra, allargando la sua sfera di influenza alla Siria e allo Yemen.
Il sistema capitalistico perde energia e non è in grado di offrire soluzioni a situazioni sempre più fuori controllo, per cui la guerra di tutti contro tutti sta diventando sistema. Gli scontri diretti tra eserciti regolari vengono via via sostituti da una massa inestricabile di guerre per procura alimentate da milizie, mercenari, partigianerie e gruppi paramilitari al soldo degli stati più potenti, in un contesto di guerra civile diffusa, come si può vedere in Libia e in molti altri paesi che una cronaca distratta cita appena.
In questo periodo l'elemento più importante in Medioriente sono i movimenti di massa autorganizzati che scendono in strada da mesi in Iran, Libano e Iraq contro lo stato di cose presente. Le recenti rivolte in Iran hanno causato 1500 morti, migliaia di arresti e di feriti. In Iraq è stata occupata in pianta stabile una piazza nel cuore di Baghdad e da mesi il movimento si scontra violentemente sia con la polizia irachena che con le milizie sciite filoiraniane. Piazza Tahrir è diventata una grande tendopoli autogestita interconfessionale, dove gli studenti di medicina hanno allestito un campo base di pronto soccorso, e dove ogni giorno vengono distribuiti pasti e beni di prima necessità a chi ne ha bisogno. In un video pubblicato sul sito del Corriere della Sera si può vedere come è organizzata la piazza.
L'articolo "Marasma sociale e guerra", uscito nel 2011 sul numero 29 della rivista, andrebbe riscritto alla luce di quanto è successo negli ultimi anni, dai conflitti imperialistici ai fenomeni di guerra civile in Nordafrica, Medioriente, Sahel, fino ai momenti di polarizzazione sociale come quelli che si sono visti ultimamente in Cile, Hong Kong, Francia, ecc. Determinati processi, che al tempo avevamo intravisto, sono nel frattempo giunti a maturazione. Le strutture comunitarie che nascono al tempo del collasso degli stati sono anticipazioni di futuro, perché sono le uniche che possono difendere le popolazioni immiserite. Il modulo Occupy è diventato memetico e lo si ritrova in Iraq come nel politecnico occupato di Hong Kong: a New York, dopo il passaggio dell'uragano Sandy, strutture di mutuo soccorso (Occupy Sandy) si formarono spontaneamente per risolvere problemi pratici che gli apparati statali non erano in grado di gestire. In Libano Hezbollah, nonostante sia socialmente ramificato e strutturato, non riesce più a garantire un welfare minimo alle popolazioni, e perciò è nato un movimento interconfessionale autonomo che lotta per un futuro migliore.
Il mondo è in fibrillazione e le ripercussioni della crisi strutturale del capitalismo producono nuovi modi di vivere. Nelle zone di guerra le città vengono distrutte e nascono campi profughi dove si ammassano milioni di uomini. Anche le metropoli occidentali non se la passano bene, basti vedere i video presenti sul Web che mostrano la situazione in cui versano i "senza riserve" in città come Los Angeles o Detroit.
Nell'articolo "L'America tra impero e libero arbitrio", pubblicato sulla rivista di geopolitica Limes (numero 12/19), si sostiene che gli Stati Uniti, al di là della vulgata che li vuole in ritirata, hanno aumentato il contingente militare dispiegato in ogni continente, e continuano ad accollare al resto del mondo il proprio benessere tramite il loro mostruoso debito pubblico. Attraverso le azioni dimostrative, i dazi e le sanzioni, l'America difende il proprio ruolo di gendarme globale. Questa è la teoria e la prassi della politiguerra americana: facendo guerra al mondo, gli Usa riescono a conservare la propria struttura interna ed esterna (800 basi militari sparse ai quattro angoli del pianeta). La Cina rimane uno dei maggiori detentori del debito pubblico americano e per questo motivo gli Usa non possono che collaborare con essi (e viceversa).
Il capitalismo ha raggiunto la sua fase suprema, non ci sono nuovi cicli all'orizzonte condotti da altri paesi. Gli Stati Uniti sono l'ultimo anello di una catena che ha portato ad una situazione in cui le sovrapposizioni della staffetta imperialistica svaniscono, e appare compiuto il tragitto verso un sistema mondiale integrato di produzione, di scambio mercantile e di flussi finanziari ("Accumulazione e serie storica").
La Cina manifesta delle caratteristiche da capitalismo senile, marciando spedita verso l'automazione come fanno i paesi occidentali. In un articolo di South China Morning Post, si dice che entro il 2025 macchinari e robotica saranno pronti a sostituire quasi il 5% della forza lavoro cinese, portando alla scomparsa di milioni di posti di lavoro. Il paese asiatico si è trasformato negli ultimi anni nel leader mondiale dell'automazione, diventando il più grande acquirente di robot industriali nel 2013. La sua spesa annua per la robotica potrebbe superare i 59 miliardi di dollari nel 2020.
Per salvare sé stesso questo modo di produzione è costretto a mettere in moto processi che lo affosseranno. Le cause antagonistiche alla caduta tendenziale del saggio di profitto risolvono problemi contingenti, ma solo per spostarli nel futuro, ingigantendoli. Se gli Usa implodessero sotto il peso delle loro contraddizioni, il resto del mondo collasserebbe. Lo stesso discorso vale per la Cina: un terremoto sociale al suo interno provocherebbe effetti catastrofici a livello globale. Insomma, l'America e gli altri imperialismi sono diventati del tutto interdipendenti e fanno parte di un sistema che, per la loro stessa sopravvivenza, va tenuto in piedi ad ogni costo.