L'ingovernabilità è un problema non solo italiano, ma globale. La classe dominante avverte la necessità di governi più efficienti, meno complicati dal punto di vista delle chiacchiere parlamentari e delle beghe politiche. Tuttavia, un cambio di assetto dal punto di vista governativo non può invertire la parabola storica del plusvalore, tanto più in una situazione come quella odierna in cui è già stato sperimentato tutto a livello politico ed economico.
Con la discesa in campo dell'ex governatore della BCE, descritto dai giornali come il salvatore della Patria, si riaffaccia l'ipotesi di un esecutivo tecnico, l'ennesimo tentativo per una forma di governo che in Italia vanta una lunga tradizione e che abbiamo avuto modo di analizzare nella lettera ai compagni "Il Diciotto Brumaio del Partito che non c'è" e in lavori più recenti.
Sono diversi i programmi e le idee emerse dalla borghesia per il superamento del cretinismo parlamentare. A inizio Novecento l'economista statunitense Thorstein Veblen propose addirittura la costituzione di un Soviet dei tecnici. Poi arrivò il movimento tecnocratico, la cui culla erano gli Usa ma le cui idee si diffusero in tutto il mondo, influenzando anche i vari fascismi ("La Grande Socializzazione"). In Italia, nel secondo dopoguerra, proprio da una realtà industriale importante come la Olivetti di Ivrea uscirono due personaggi emblematici: Aurelio Peccei, che fondò il Club di Roma e commissionò lo studio sui limiti dello sviluppo; e Bruno Visentini, che negli anni Ottanta elaborò la proposta di un "governo istituzionale" contro la partitocrazia imperante. Nel 1995 Lamberto Dini fu a capo del primo governo "tecnico" della storia repubblicana italiana, più recente quello presieduto da Mario Monti: in quell'occasione, nel 2011, Eugenio Scalfari ricordava dalle pagine di Repubblica le proposte di Visentini riguardo un governo nominato dal presidente e fiduciato dal parlamento.
La borghesia italiana ha espresso a più riprese il bisogno di superare le inefficienze del sistema democratico-parlamentare, ma non è mai riuscita ad andare fino in fondo (nemmeno con il fascismo). Riconoscendo nella concorrenza l'unica forma di rapporto possibile, dal punto di vista politico non può che mettere insieme rattoppi che sono peggio del buco. Non bisogna infatti confondere i tentativi di formare governi tecnici, che non fuoriescono per nulla dalle categorie capitalistiche, con i progetti di governi tecnocratici, che invece presuppongono una società capace di non ragionare più in termini di valore ma di quantità fisiche, come le ore-lavoro.
Confindustria vorrebbe eliminare il reddito di cittadinanza perché non vede di buon occhio la distribuzione di miliardi di euro ai disoccupati, mentre utilizzerebbe questi fondi per le infrastrutture e per rilanciare le attività produttive del paese. Si tratta di una visione miope: se i disoccupati non hanno soldi da spendere, non consumano le merci prodotte dall'industria. La dannazione dell'attuale forma sociale è dover mantenere i propri schiavi invece di sfruttarli. Cancellare una misura come il reddito di cittadinanza, che permette a milioni di persone di mangiare e pagare l'affitto, provocherebbe sicuramente una reazione sociale. Le piazze del mondo sono sempre più movimentate (Tunisia, Libano, Olanda, India, Belgio e, recentemente, Russia, dove nelle manifestazioni di domenica 31 gennaio sono stati arrestati 5mila manifestanti).
Il capitalismo è un modo di produzione globalizzato ed impersonale che nessuno può governare. La borghesia nega che l'unica fonte dei suoi redditi sia il plusvalore. Marx, alla fine del III Libro del Capitale, nel capitolo dedicato ai redditi e loro fonti, afferma: "Tutti e tre i redditi, l'interesse (in luogo del profitto), la rendita, il salario, sono tre parti del valore del prodotto, quindi, generalmente parlando, parti di valore, oppure espresse in denaro, sono certe parti di denaro, parti di prezzo." Se il sistema non riesce a produrre nuovo plusvalore, naturalmente fatica anche a distribuirlo "equamente" tra le classi e all'interno delle stesse. E' il classico e irrisolvibile problema della coperta troppo corta.
Il denaro, essendo la forma fenomenica del valore, è legato alla sua produzione. Se siamo nell'epoca, prevista da Marx e analizzata dalla nostra corrente, in cui la legge del valore viene meno, l'alternativa non è più tra un capitalismo ed un altro, tra un governo tecnico e uno politico, ma tra un modo di produzione morente e una nuova forma sociale. Il futuro sarà fatto di grandezze quantitative, di bisogni di specie, di tempo di vita, mentre oggi si perde tempo a parlare di fazioni politiche borghesi che non riescono a fare nulla. Se il valore scarseggia la borghesia è spacciata, ne è dimostrazione la sua incapacità di produrre teorie e programmi all'altezza della situazione. Qualcuno tra le sue fila fiuta il pericolo e avverte che un ciclo storico si sta chiudendo, intravedendo già all'orizzonte qualcosa di nuovo. E' il caso dell'economista Jeremy Rifkin, che nel 2014 ha pubblicato il saggio La società a costo marginale zero. L'internet delle cose, l'ascesa del "commons" collaborativo e l'eclissi del capitalismo.
Nel diagramma di figura 6 presente nel nostro articolo "Un modello dinamico di crisi", si vedono gli incrementi relativi della produzione industriale dei maggiori paesi dal 1914 al 2008. L'andamento della produzione industriale rispecchia fedelmente quello del saggio di profitto ed evidenzia la progressiva sincronizzazione delle maggiori economie, ovvero lo storico andamento asintotico degli incrementi relativi della produzione industriale. Questo diagramma è di importanza fondamentale perché rivela una contraddizione insanabile del sistema: l'impossibilità per i maggiori paesi di produrre, esportare merci, esportare capitali ed espandersi tutti insieme nel mondo globalizzato. E difatti l'attuale crescita dell'economia cinese sta invadendo ogni giorno di più lo spazio vitale dei paesi occidentali.
Non tutti possono vivere di finanza. Facciamo un confronto tra Inghilterra e Italia: si tratta di due paesi che hanno più o meno lo stesso PIL (e lo stesso numero di abitanti), ma mentre il primo ne ha una quota dell'80% dovuta a servizi soprattutto di tipo finanziario, bancario e assicurativo, il secondo scende ad un 70% nello stesso settore, composto principalmente da turismo, commercio e terziario avanzato. L'Italia ha ancora una vocazione manifatturiera, non può vivere di rendita dato che non ha petrolio né tantomeno una piazza finanziaria come la City di Londra. La Cina fa oggettivamente una concorrenza enorme al resto del mondo e, anche se non è potente dal punto di vista finanziario e politico come gli Usa, sta marciando verso una posizione di egemonia mondiale dal punto di vista produttivo.
Marx nel Capitolo VI inedito del Capitale opera potenti astrazioni, per esempio quando descrive un capitalismo che produce un'unica merce con una sola forza lavoro. Partendo dai caratteri continui della produzione e del valore, egli definisce il complesso d'industria come mediazione storica, come transizione verso uno stadio sociale più evoluto, in cui vi è un'unica amministrazione di specie che processa dati derivanti dalle quantità fisiche prodotte.