Ma l'entità inedita di questo intervento economico preoccupa. In un recente articolo (19.03.21), The Economist mette in guardia dal rischio di un "surriscadamento" dell'economia. Il neo-presidente Biden ha approvato un nuovo piano di aiuti che prevede lo stanziamento di 1900 miliardi di dollari: aggiunti a quelli già erogati in precedenza, innalzeranno l'importo totale della spesa correlata alla pandemia alla cifra di 6000 miliardi dollari. Inoltre, la Federal Reserve e il Tesoro americano quest'anno verseranno circa 2500 miliardi nel sistema bancario con l'obiettivo di mantenere i tassi di interesse prossimi allo zero e di portare l'inflazione oltre il 2%. Questo massiccio incentivo alla domanda di beni potrebbe rivelarsi, secondo il settimanale liberista, un'arma a doppio taglio: se da una parte rappresenta un poderoso tentativo di evitare la trappola della bassa inflazione e dei tassi bassi (trappola in cui sono caduti Giappone ed Unione Europea), dall'altra alza pericolosamente il rischio per gli Usa di una crescita del debito pubblico, del sorgere di un problema di inflazione, e di ritrovarsi con una banca centrale la cui credibilità è messa alla prova. E' una grande scommessa, dice l'Economist, il quale riconosce la necessità di un imponente intervento statale (ma non era il mercato a regolarsi da sè?), ed allo stesso tempo ammonisce contro gli effetti che tale esperimento economico potrebbe avere, non solo sugli Stati Uniti ma, visto il ruolo centrale del Paese nel sistema finanziario globale, sul mondo intero.
In Italia invece si comincia a parlare di uno stop graduale delle misure di sostegno, a partire dalla fine dell'anno. Lo ha annunciato il ministro dell'economia Daniele Franco, senza però spiegare come verranno affrontate le problematiche relative alla solvibilità di quelle aziende e imprese che grazie al blocco hanno potuto "congelare" i debiti contratti con le banche, la cui cifra totale si aggira intorno ai 300 miliardi di euro. Il rischio è quello di dare il via ad un effetto domino che si abbatterà sul sistema creditizio, senza che nessuno possa controllarlo. Per evitare che gli istituiti di credito vengano travolti da un'ondata di crediti deteriorati, l'associazione delle banche italiane (Abi) sta facendo pressioni sul governo affinché venga concessa una nuova proroga di 12 mesi. L'Abi non è l'unica a reclamare l'allungamento delle misure di sostegno, anche i sindacati stanno chiedendo che il blocco dei licenziamenti continui. I crediti "malati" riguardano anche le famiglie (lo stop alle rate dei mutui prima casa vale fino a dicembre 2021), e la fine della sospensione dei licenziamenti graverebbe anch'essa sul sistema creditizio. Sono tutti elementi di una stessa catena, che si intrecciano e si aggravano l'uno in relazione con l'altro.
I governi mondiali si trovano in situazione davvero difficile, nella quale qualunque azione intrapresa comporta la possibilità di un inasprimento della crisi. La distribuzione a cascata di soldi (bonus, ristori, indennizzi, ecc.), indubbiamente necessaria per sostenere l'economia, sta provocando la creazione di meccanismi distorsivi del mercato. Per esempio, diventa faticoso distinguere tra le aziende zombie e quelle in salute. Nella condizione attuale qualunque cura potrebbe rivelarsi un'arma a doppio taglio e scatenare scenari catastrofici. Mai come prima, la borghesia mostra tutta la propria incapacità a governare il fatto economico e, sprovvista di una teoria, va allo sbaraglio improvvisando alchimie finanziarie senza sbocco. Se addirittura il paladino del liberalismo, l'Economist, lancia sempre più insistentemente segnali in favore di un approccio keynesiano all'economia, vuol dire che il timore di un collasso sistemico è concreto. E non a torto, solo che è già troppo tardi.
Già oggi siamo di fronte ad un capitalismo che non si può più definire tale, nel quale il denaro è una forma fenomenica sempre più autonomizzata, in fase di transizione verso una carta elettronica. Ma non perché il denaro si sta trasformando in bit, ma perché il rapporto tra la produzione di valore che si tramuta in denaro e quest'ultimo è cambiato: la quantità di lavoro vivo incorporata nella merce è sempre più bassa. Per certi versi, siamo già in una società post-capitalista, e non solo per il livello di socializzazione raggiunto, ma per la conformazione dei rapporti sociali che si sono venuti determinando. Gli aiuti che i governi occidentali hanno distribuito precipitosamente con l'avvento della pandemia è denaro senza contropartita. Il capitalismo funziona sempre meno secondo le proprie leggi, è un sistema instabile e ingovernabile (basti pensare che la finanza si muove sui petabyte), e perciò non è strano il trovarsi in presenza di un numero crescente di anticipazioni di futuro.
L'accumulo di condizioni problematiche produce manifestazioni sempre più frequenti di tale dissesto, soprattutto dal punto di vista sociale e del malessere generale che opprime le popolazioni di tutto il pianeta. Sabato scorso, in Europa, marce anti-lockdown hanno interessato diverse grandi città dell'Unione, con manifestazioni e arresti nel centro di Londra, migliaia di persone in piazza in Germania, cortei in Svizzera, Bulgaria e Austria.
In Asia, una lunga ondata di proteste, cominciata ormai da due anni, coinvolge milioni di persone. Al di là delle motivazioni ufficiali (la difesa della democrazia e contro autoritarismi sofisticati, scrivono i giornalisti) che in India, a Hong Kong, in Myanmar, in Thailandia e in Nepal portano studenti, contadini, femministe, impiegati e operai a scendere per le strade, sappiamo che la molla delle proteste è il fattore economico e cioè l'impossibilità di vivere alla vecchia maniera. Lo dimostra il fatto che le aree colpite dalle rivolte sono proprio quelle più toccate dalla contrazione dei livelli di vita. La correlazione è evidente, e in un mondo dove un'infinita maggioranza di persone annega nella miseria e un'infima minoranza naviga nella ricchezza, le espressioni di ribellione allo status quo si moltiplicano, trovando elementi di sincronizzazione (uno su tutti, l'assenza di leader).
Quest'anno ricorre il 150° anniversario della Comune di Parigi. Nell'analisi di quell'esperienza, uno dei momenti più alti della lotta del proletariato, Engels nota che ad un certo punto la Comune non si configura più come uno stato, nella misura in cui non deve reprimere la maggioranza della popolazione ma una minoranza di sfruttatori. Per questo motivo propone di sostituire la parola stato con Gemeinwesen. Se la Comune si fosse consolidata, le tracce dello Stato si sarebbero "estinte" da sé. Ricordare questo aspetto è importante soprattutto alla luce di quanto si diceva poco sopra rispetto alla polarizzazione della ricchezza, che nei paesi a vecchio capitalismo colpisce duramente anche la classe media. Una parte dell'umanità sta arrivando materialmente, non ideologicamente, a credere che così non si può andare avanti, e che è necessario un cambiamento radicale: è su questo fatto materiale che può innestarsi un discorso sul partito rivoluzionario, il quale probabilmente non si chiamerà più così e non avrà le caratteristiche assunte con la Terza Internazionale, pur mostrando elementi di invarianza con le esperienze comuniste del passato.
Molto spesso viene da chiedersi quanto tempo ancora ci vorrà prima che questo infame modo di produzione tiri le cuoia. Nel giro di pochi anni abbiamo assistito ad una accelerazione della crisi con l'aumento di fenomeni destabilizzanti, non solo dal punto di vista sovrastrutturale ma anche strutturale. Il capitalismo per sopravvivere ha bisogno di plusvalore, che però fatica a produrre. I borghesi credono che finita l'emergenza Covid tutto tornerà come prima, ma è un'illusione perché non potranno fare marcia indietro a causa di quel processo individuato da Marx ed Engels, secondo il quale il capitalismo è costretto a negare sé stesso. Nel Manifesto è scritto che la borghesia è una classe che per esistere deve continuamente rivoluzionare sé stessa.
Questa settimana c'è stato lo sciopero ad Amazon. L'aspetto importante della vicenda è che i confederali sembrano essere arrivati alla conclusione che di fronte ad un gigante di tali dimensioni bisogna muoversi con le dovute proporzioni. In ultima analisi, la prospettiva deve essere quella di una mobilitazione internazionale, anche perché Amazon ha la capacità di rispondere a situazioni avverse spostando il traffico di merci da un hub all'altro, e da un paese all'altro. Questa stessa grande rete deve essere utilizzata anche da chi sta dall'altra parte della barricata a livello globale; tanto più la pressione sui lavoratori si fa internazionale, a maggior ragione la risposta deve essere internazionale. Questi sono fatti materiali che pongono in evidenza una verità vecchia di più di un secolo: proletari di tutti i paesi, unitevi!.
In chiusura di teleconferenza abbiamo fatto alcune considerazioni riguardo l'impronta ecologica della specie umana sul pianeta.
La produzione di antibiotici, che finiscono per sviluppare batteri resistenti (contro i quali l'industria privata fatica a mettere a punto nuovi farmaci battericidi poichè l'investimento non rende); la creazione di terrificanti allevamenti intensivi e la deforestazione di grandi aree, che favoriscono i meccanismi di spillover e l'insorgenza di epidemie; il surriscaldamento globale, che scioglie i ghiacci in Groenlandia e porta all'innalzamento degli oceani: sono solo alcune delle gravi problematiche della nostra società, alle quali la borghesia non è assolutamente in grado di far fronte. Ne è esempio lampante la pandemia in corso.
Nell'articolo "Un modello dinamico di crisi" del 2008 avevamo visto come già nel 1961 l'umanità fosse arrivata a consumare il 50% della biocapacità media del pianeta, e nel 2003 il 125%. L'impronta ecologica offre la misura di quanto s'è allargato il divario fra l'equilibrio termodinamico e la dissipazione di energia, cioè di risorse che, perdurando il sistema capitalistico, andranno irreversibilmente perdute, e delle gravi conseguenze che si potrebbero presentare.