Dietro al conflitto in Ucraina operano i grandi attori globali: Usa, Cina, Russia e, a seguire, India, Turchia, Israele, ecc. Quanto sta avvenendo sul territorio ucraino è un conflitto locale e a bassa intensità che vede la Russia difendere i propri interessi sulla frontiera occidentale, ma è anche un conflitto globale perché registra la partecipazione più o meno attiva di tutti i maggiori paesi. Essendo il sistema capitalistico attanagliato da una crisi di produzione di plusvalore, accaparrarsi quest'ultimo diventa sempre più complicato. Gli interessi americani cozzano contro quelli del resto del mondo. La rendita, infatti, permette agli Usa di intascare flussi di valore globale, e qualsiasi movimento che possa mettere anche solo lontanamente in discussione la direzione di tali flussi è visto da Washington come un atto di guerra. Il dominio del dollaro è reso possibile dalla presenza di 800 basi militari sparse per il mondo.
La Russia ha minacciato di estendere il conflitto ai paesi che stanno armando direttamente le truppe ucraine. "Lecito colpire il suolo russo con armi Nato", ha spiegato il viceministro della Difesa inglese. "Altrettanto legittima una rappresaglia", ha risposto il Cremlino. E il ministro degli Esteri di Mosca, Sergei Lavrov, avverte: "C'è il rischio reale di una terza guerra mondiale". L'escalation sta andando fuori controllo, il pericolo nucleare esiste. La guerra non è più lo sbocco della politica che continua con altri mezzi, ma è lo stato permanente di una società basata sulla concorrenza fra individui, aziende, Stati. Essa non ha un principio e una fine. Non vi è più una separazione netta fra pace e guerra. E il fenomeno è strettamente connesso ad un altro, da noi affrontato più volte: la cronicizzazione della crisi di accumulazione, la freccia nel tempo del sistema capitalistico.
Nell'articolo "La ricerca della multipolarità" (2007) notavamo che la situazione economica materiale (il PIL della Cina e dell'India superava già quello degli Stati Uniti) stava mettendo in serie difficoltà la posizione del gigante americano: "gli Stati Uniti non possono permettersi di perdere 'egemonia', non possono ritirarsi in pensione a tagliar cedole. Il mondo non glielo consentirebbe più. Gli Stati Uniti sono costretti a teorizzare l'unipolarismo, perché qualsiasi altra egemonia decreterebbe la loro fine". Nell'articolo "A che punto è l'imperialismo" (2009) scrivevamo: "diminuita potenza e aumentata capacità di dominio degli Stati Uniti rappresentano una contraddizione, che però spiega la necessità da parte di Washington di rastrellare più valore di quanto ne produca. E ciò ha evidentemente a che fare con la formazione di una quantità mai vista di capitale fittizio, che già Marx contrapponeva al capitale reale."
Un mondo capitalistico che negli ultimi anni ha visto entrare in scena potenze in crescita come Cina e India (insieme contano quasi tre miliardi di abitanti) ha seri problemi di gestione. Blocchi imperialisti entrano in conflitto non perché qualcuno l'abbia deciso, ma perché sono deterministicamente portati a farlo. L'Ucraina è un piano di faglia dove si è sprigionata l'energia accumulata; se guardiamo allo scontro in atto nell'Europa orientale con la lente d'ingrandimento puntata su di essa è difficile farsi un'idea su quanto stia accadendo. Allontanando l'obiettivo ci si rende contro che non si tratta di una guerra classica. L'"operazione militare speciale", così è stata chiamata dal Cremlino, serve a distruggere tutto quello che è pericoloso per la Russia: installazioni, basi, sistemi difensivi. Ogni guerra comincia là dove è finita la precedente e quindi siamo alla fine di un ciclo e all'inizio di un altro. Quella attuale vede in catalogo un insieme non coerente di armi vecchie e nuove, dove le prime sono inservibili e le seconde non fanno ancora parte di un sistema integrato. I due missili che avrebbero affondato l'incrociatore Moskva sono di progettazione russa e fabbricazione ucraina, viaggiano a velocità subsonica e in linea di principio non avrebbero potuto affondare una nave dotata di difese aggiornate. Altrimenti quella nave non avrebbe dovuto trovarsi dove si trovava.
Se siamo coerenti con il nostro retroterra storico, tutto quello che hanno detto Marx ed Engels sui rapporti tra le nazioni, soprattutto sul ruolo geopolitico della Russia, deve avere delle conseguenze. La Russia si trova nella particolare condizione di essere un paese arretrato, ma allo stesso tempo il primo dove c'è stata una rivoluzione guidata da un partito comunista, una contraddizione esplosiva. Essa è schiacciata ad Occidente dai paesi della Nato, in una condizione di soffocamento insopportabile per Mosca. Ad Oriente ci sono gli "Stan", quei Paesi un tempo appartenenti all'Unione Sovietica dove circa un centinaio di milioni di persone parlano lingue che risalgono al turco. Se gli Usa bloccano la Russia in Ucraina, Mosca sarà costretta a riversarsi sull'Asia Centrale, pur senza avere la potenza di controllare politicamente ed economicamente l'area. La nostra visione geo-storica ci porta a considerare per il futuro una pesante azione di contenimento della Russia da parte della Nato. Ma quello in corso è un terremoto le cui onde sismiche si stanno diffondendo in tutto mondo e nessuno sembra in grado di controllarne gli effetti. L'America tarderà ad entrare in azione direttamente. Riforniti di nuovi armamenti gli Ucraini, per la Russia sarà finita. Chi sta pagando il prezzo più alto è la popolazione ucraina, massacrata, affamata e costretta a fuggire in altri paesi abbandonando le proprie case.
Non siamo indifferenti a quanto accade, ma naturalmente non ci schieriamo con un fronte borghese o con l'altro, come usano fare i partigiani. Oggi la Russia non ha merci ideologiche da vendere al resto del mondo, gli Usa invece sì. Oltre alla superiorità militare hanno aziende che controllano le sementi del mondo. Chi controlla il petrolio controlla le nazioni, chi controlla il cibo controlla i popoli, affermava Henry Kissinger. L'Europa è al centro di questo conflitto, anche dal punto di vista del coinvolgimento ideologico, e non riesce ad esprimersi come un polo unitario. Nemmeno il proletariato si esprime, dato che non si riconosce come classe. Per questo motivo gli appelli a praticare il disfattismo, almeno per ora, non hanno presa.
Non ci sono dubbi che la sorte del capitalismo sia segnata: crisi economica, ecologica ed energetica, pandemia, crescita della miseria, guerra, ci sono tutti gli ingredienti per una catastrofe sistemica. Pensiamo a quanto sta succedendo a Shanghai dove è in corso un lockdown durissimo per 26 milioni di abitanti e si predispongono test di massa a Pechino. Il blocco sanitario a Shanghai (il cui porto è uno uno degli scali più importanti del mondo) ha ricadute dal punto di vista produttivo (diverse fabbriche che iniziano a chiudere), logistico, e finanziario (le borse asiatiche sono in forte calo). La strategia "zero-Covid" della Cina, vanto del partito-stato cinese, non potrà durare a lungo senza mandare in crisi il commercio mondiale.
In chiusura di teleconferenza si è accennato alle ultime notizie provenienti dagli Stati Uniti e dall'Inghilterra. In seguito allo scoppio della pandemia, molte aziende hanno fatto largo uso dello smart working e ora milioni di lavoratori non vogliono più tornare al lavoro. Di qui il fenomeno delle "Grandi dimissioni", al quale la California risponde valutando la possibilità di ridurre le ore lavorative da 40 a 32 senza modifiche allo stipendio. Un'organizzazione no profit associata all'Università di Oxford ha lanciato il progetto 4 Day Week Global per sensibilizzare governi e istituzioni sulla necessità di lavorare 4 giorni alla settimana. Quest'anno una quarantina di aziende tra Stati Uniti e Canada partecipano al programma della durata di sei mesi. Per cercare di tenere insieme un sistema che si va disgregando, il capitalismo predispone redditi di base e riduzioni dell'orario di lavoro. Anche questo è un segno dei tempi.