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  • Resoconto teleriunione  28 giugno 2022

Dall'inflazione all'insurrezione

Durante la teleconferenza di martedì, a cui si sono collegati 15 compagni, abbiamo parlato dell'aumento del prezzo di cibo e carburante, di proudhonismo risorgente, delle caratteristiche dei futuri movimenti rivoluzionari.

Recentemente The Economist ha pubblicato due articoli sulle conseguenze sociali derivanti dal carovita. Il primo ("Hungry and angry"), più riassuntivo, mette in guardia dall'arrivo di una nuova ondata di agitazioni e disordini; il secondo, una versione estesa dal titolo significativo ("From inflation to insurrection"), descrive più dettagliatamente la situazione dei paesi sull'orlo di una crisi sociale ed economica, ed è accompagnato da una cartina in cui sono evidenziate le zone del mondo dove si prevede il manifestarsi di gravi focolai di disordini nei prossimi dodici mesi. Per elaborare la propria previsione, il settimanale inglese ha costruito un modello statistico, basato sui dati raccolti da un progetto di ricerca globale sugli "eventi di agitazione" (ACLED) dal 1997, per valutare la relazione tra inflazione e rivolte, ed ha scoperto che l'aumento dei prezzi di cibo e carburante è il più forte presagio di instabilità politica e sociale.

L'ultima volta in cui il mondo ha subito uno shock sui prezzi dei prodotti alimentari è scoppiata la Primavera araba, che ha portato ad un'ondata di rivolte e, in alcuni casi, a vere e proprie guerre civili (Siria e Libia). Oggi, lo shock economico si inserisce nel contesto della guerra in Ucraina e lascia presagire una nuova ondata di marasma sociale. L'aumento dei prezzi di cibo e carburante è la forma di inflazione più atroce, dice l'Economist, quella che incide maggiormente sulle popolazioni, soprattutto dei paesi poveri, che possono rimandare l'acquisto di beni secondari ma non possono smettere di mangiare o di utilizzare i trasporti per fare la spesa o andare al lavoro.

Secondo uno studio del FMI, 41 paesi, ospitanti il 7% della popolazione mondiale, versano in condizioni economiche drastiche. Il Laos è a forte rischio default; la Turchia è in una condizione molto instabile a causa di una "eterodossa" politica monetaria e del blocco delle importazioni di grano da Russia e Ucraina; in Pakistan, in seguito ad una sorta di colpo di stato, si susseguono rivolte di massa; in India sono scoppiate sommosse contro una riforma che taglia posti di lavoro; nello Sri Lanka, una riforma agraria ha impoverito e affamato il paese e le proteste sono all'ordine del giorno; in Kazakistan, il governo ha richiesto l'aiuto delle forze armate russe per sedare una rivolta; in Tunisia, dove ebbe inizio la Primavera araba nel 2011 e dove metà della popolazione è al di sotto dei 30 anni e un terzo dei giovani è disoccupato, un grande sciopero generale ha bloccato il paese il 16 giugno scorso coinvolgendo quasi tre milioni di lavoratori. L'elenco continua ancora, e dimostra come nella sua avanzata la tempesta economica globale ha esacerbato, in un paese dopo l'altro, i problemi già esistenti. A ciò si aggiunge la dinamica secondo la quale i disordini motivati da fattori socioeconomici sono associati ad ulteriori contrazioni della crescita economica: rivolte e sommosse danneggiano maggiormente economie già in difficoltà, determinano ripercussioni a livello globale in termini di investimenti e, in ultima istanza, ostacolano la crescita del PIL mondiale.

Uno degli aspetti più interessanti dei due articoli è che essi fondano la loro analisi su di un modello matematico. Le conclusioni sono nette, dall'inflazione all'insurrezione il passo può essere breve. La borghesia mette i dati nei computer, li fa girare e scopre uno scenario spaventoso in cui sono i numeri a parlare, rivelandosi molto più materialista dei sedicenti marxisti ancora alle prese con il problema del risveglio delle coscienze. Nei due testi non è menzionata la situazione interna negli Stati Uniti ed in particolare i recenti disordini scoppiati in seguito all'abolizione del diritto all'aborto, ma certamente anch'essi rappresentano un ulteriore elemento di instabilità.

Di fronte all'inasprirsi della crisi alimentare, qualcuno ripesca soluzioni di proudhoniana memoria. Negli ultimi giorni l'articolo "Crisi alimentare globale, guerra e neocolonialismo" è rimbalzato su diversi siti di movimento. I dati riguardo la carenza di cibo sono allarmanti, e l'autore dello scritto ha ben chiaro che tale situazione non è unicamente conseguenza della guerra in corso, che si configura piuttosto quale fattore di accelerazione, bensì il risultato di un processo più ampio e strutturale legato all'attuale modo di produzione. Eppure le conclusioni cui giunge sono disarmanti, invitando a rifarsi all'elaborazione della Via Campesina: "ogni popolo, anche il più piccolo, ha il diritto di produrre il proprio cibo. Il commercio agricolo dovrebbe essere subordinato a questo superiore diritto. Solo il surplus dovrebbe poter essere commercializzato a livello internazionale, e solo bilateralmente. Siamo contro l'OMC e contro la monopolizzazione del commercio agricolo mondiale da parte delle compagnie multinazionali. Come direbbe José Martì: un popolo che non può produrre il proprio cibo è schiavo, non ha la minima forma di libertà. Una società che non produce ciò che mangia sarà dipendente sempre da qualcun altro".

In un mondo integrato come quello d'oggi l'idea della sovranità alimentare fa sorridere. Fa sorridere perché bisognerebbe rivoltare come un calzino questo modo di produzione per ottenere tale risultato, ci vorrebbe una rivoluzione, ma allora perché non ragionare in termini di superamento tout court dell'attuale sistema? A parte ciò, nell'articolo non viene preso in considerazione il dato demografico, e cioè il fatto che in presenza di una popolazione mondiale che sfiora gli otto miliardi non si può pensare di affrontare la questione dell'alimentazione con l'autogestione, la produzione locale e il costituirsi di piccole comunità agricole, a fronte di catene di logistiche e di approvvigionamento già esistenti e che collegano tutto e tutti. Non viene inoltre presa in considerazione la questione della rendita fondiaria, ed in particolare quella differenziale dei terreni agrari. Come abbiamo scritto nell'articolo "Mangime standard per umani":

"Noi non auspichiamo un'agricoltura fatta di piccoli appezzamenti miserabili sui quali vivono contadini abbrutiti dalla fatica, dalla famiglia e dai debiti. La soluzione alla fame non consiste nel ritorno a condizioni arcaiche. Ma sicuramente il capitalismo, che ha un alto rendimento industriale in ogni singola unità produttiva, ha un bassissimo rendimento sociale. In agricoltura non ce la fa nemmeno a programmare il dimensionamento dei poderi secondo le qualità del territorio, non ce la fa a programmare la quantità di prodotti agricoli necessaria da un anno all'altro. La rendita agraria è una ripartizione del plusvalore e, specie in tempo di crisi quando il plusvalore diventa rarefatto, il coltivatore avrebbe bisogno di produrne in proprio senza andare a prelevarlo altrove. Per fare questo dovrebbe sfruttare lavoro salariato sui campi, cosa che è profittevole soltanto per grandi superfici e coltivazioni 'estreme', intensive (ortaggi in serra) ed estensive (cereali, soia), e che è possibile soltanto investendo a grande scala, su grandi superfici ricorrendo alla scienza biochimica per innalzare la produttività."

Chi auspica alla sovranità alimentare punta in ultima analisi a rinsaldare lo Stato e le strutture politiche locali, e lo fa nonostante ci troviamo di fronte ad un collasso sempre più evidente ed esteso delle forme statali. Nei casi più estremi, gli Stati si dissolvono lasciando spazio a guerre per bande (vedi Siria e Libia), mentre nei paesi dove ancora sussiste un minimo di stabilità le sovrastrutture borghesi scricchiolano e le crepe si fanno più profonde. Anacronisticamente, i sovranisti sperano di rafforzare gli Stati contro lo strapotere delle multinazionali e della finanza internazionale proponendo una specie di decentralizzazione localistica proudhoniana.

Nel numero appena uscito della rivista si riportano le parole preoccupate dell'economista-capo del FMI riguardo gli effetti economici della guerra, che come onde sismiche si stanno diffondendo in lungo e in largo. In questa situazione le strutture più adatte ad intervenire sarebbero gli organismi internazionali, i quali potrebbero affrontare i problemi non da un punto di vista settoriale o nazionale, ma globale. Come abbiamo già visto durante le fasi più acute della pandemia, essi però sono impotenti, non riescono ad assumere un ruolo esecutivo a causa dell'anarchia del mercato. E' quindi molto probabile che si prepari un crescendo di rivolte anche più esteso di quello incominciato con le Primavere arabe.

In questi giorni l'Ecuador è teatro di violente mobilitazioni e scioperi che hanno portato anche ad un tentativo di assalto del Parlamento. Le rivolte si ricollegano a quelle scoppiate 2019, nate in contrasto ad un pacchetto di misure imposte dal FMI che portava alla cancellazione di un sussidio sul prezzo del carburante; allora si parlò della Comune di Quito perché in alcuni quartieri della capitale si erano formate delle vere e proprie comunità con cucine comunitarie e strutture di mutuo aiuto, durate qualche mese e che ricordavano quanto visto con Occupy Wall Street. Ora sta succedendo di nuovo qualcosa di simile: la rivolta, animata dalle comunità indigene che successivamente hanno coinvolto studenti e lavoratori, in seguito allo lo sgombero del proprio centro presso la Casa della Cultura di Quito, ha stabilito presso l'Universidad Central il nuovo punto di raccordo, dando vita ad aggregazioni simili a quelle del 2019. Sono così tornate le cucine solidali, le brigate mediche, i centri di raccolta di beni di prima necessità, ecc. Questo tipo di strutture ormai sono diventate un invariante: a partire da Zuccotti Park, le abbiamo ritrovate a Gezi Park a Istanbul, a Honk Kong durante l'Umbrella Revolution, e altrove.

Una crisi alimentare incentivata dalle problematiche inerenti all'aumento delle temperature può provocare milioni di morti. Per quanto riguarda il problema della siccità, già oggi sarebbero disponibili tecniche per massimizzare l'utilizzo dell'acqua, ma non vengono utilizzate sistematicamente perché ogni azienda e ogni Stato decidono per i fatti propri come fare e quali tecnologie adottare. Si arriva quindi al nocciolo della questione: o si cambia sistema oppure si precipita nel caos. Lo hanno compreso anche alcune frange della borghesia, basti pensare allo studio I limiti dello sviluppo: il rapporto, commissionato al MIT dal Club di Roma nel lontano 1972, si chiudeva con un appello ai governi perché si fermassero prima che fosse troppo tardi.

In questo contesto diventa più facile mettere a fuoco l'aspetto non rivendicativo del movimento rivoluzionario prossimo venturo. Trovare qualcosa da rivendicare o quindi da salvare in questa società è oramai diventato un compito arduo, tanto più che oggi il proletariato si è di molto dilatato e rappresenta, oltre alla classe operaia, quelle decine di milioni di senza-riserve estromesse definitivamente dal ciclo produttivo e dal mondo del lavoro. Le immagini che passano in rete o sulle televisioni ci mostrano la disperazione di centinaia di persone che a Melilla tentano di superare il filo spinato che le divide dalla Spagna, o ci raccontano di migranti annegati nel Mediterraneo, soffocati nei camion al confine tra Stati Uniti e Messico, bloccati al confine tra Polonia e Bielorussia. Si tratta dei movimenti di milioni di persone, che nel futuro si amplificheranno perché legati agli effetti della guerra, della siccità e delle carestie.

Che ruolo possono avere cultura e conoscenza nel cambiamento sociale?

La Sinistra Comunista "italiana" (SCi) riteneva che il problema non sta tanto nella mancanza di cultura ma nel fatto che i proletari abbiano inculcata in testa troppa cultura borghese. E diceva anche che le masse arrivano istintivamente a certe conclusioni pur senza aver letto i testi di Marx o Lenin. Se così non fosse, bisognerebbe rimboccarsi le maniche e mettersi a fare attività educativa, magari aprendo scuole o circoli in cui si insegna la cultura proletaria. Nel "Tracciato d'impostazione" (1946) si afferma che "Rivoluzionari (e adotteremo il termine provvisorio di antiformisti) sono i movimenti che proclamano ed attuano l'assalto alle vecchie forme, ed anche prima di saper teorizzare i caratteri del nuovo ordine, tendono a spezzare l'antico, provocando il nascere irresistibile di forme nuove". Da questo punto di vista, il futuro è aperto: potrebbero formarsi movimenti che non si collegano direttamente a Marx o al lavoro della SCi. Dal magma di Occupy Wall Street sono emersi richiami alla storia operaia americana e alla Comune di Parigi ma non si può dire che OWS è stato un movimento marxista: esso aveva aspetti del tutto nuovi rispetto a quelli del passato, con punti di forza e limiti. Potrebbe quindi darsi lo sviluppo di movimenti senza le caratteristiche o l'estetica di quelli del passato, senza l'iconografia legata alla Terza Internazionale. Non è nemmeno da escludere che nel vivo della lotta venga riscoperto il lavoro della SCi, per la quale il comunismo non è un'ideologia e tantomeno è riducibile a una dottrina politica, ma un'esigenza di specie che dovrà necessariamente affermarsi.

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