Da qualche tempo Tel Aviv stava stipulando accordi con Karthoum nell'ottica di una normalizzazione dei rapporti e per una maggiore integrazione nella regione (vedi Accordi di Abramo), ma ora il confronto si è arenato a causa della guerra civile. Sono in corso colloqui per il cessate il fuoco condotti da Arabia Saudita e Stati Uniti, ma anche altri paesi, come ad esempio la Turchia, stanno cercando di stabilire una trattativa tra le parti. Al momento le agenzie di stampa parlano di oltre 150 mila persone in fuga, ma c'è la possibilità che a breve siano in milioni a spostarsi verso i paesi limitrofi (Chad, Etiopia, Egitto, Repubblica Centrafricana, Eritrea), che non hanno certo una struttura statale solida.
Molti analisti ammettono che è sempre più difficile rimettere insieme i cocci quando un paese sprofonda in queste dinamiche, e ciò è dovuto al fatto che sono saltati gli equilibri a livello internazionale. La nostra corrente ha scritto nel 1950 un articolo intitolato "Corea è il mondo", volto a dimostrare come nella penisola asiatica si stavano concentrando rivalità imperialistiche. Oggi le "Coree" si moltiplicano, i conflitti si generalizzano. Come dice il Papa, quella in atto è una guerra mondiale combattuta a pezzi.
Durante la "guerra fredda" gli scontri tra USA e URSS si svolgevano per procura, il mondo era diviso in due blocchi e questo assetto era, tutto sommato, un fattore di ordine. Oggi, scomparso il blocco sovietico e date la decadenza degli USA e la mancanza di un sostituto alla guida del capitalismo, i problemi regionali vanno fuori controllo e gli scontri tra grandi potenze si sommano a quelli tra piccole potenze e signori della guerra che cercano di ritagliarsi spazi di manovra. Fino a pochi anni fa, ad esempio, l'India era un paese smaccatamente filoamericano, ora sta cercando una sua autonomia sullo scacchiere mondiale.
Dovrebbero essere gli Americani o i Cinesi a gestire questo caos, ma i primi non hanno più la forza per essere presenti ovunque con i propri soldati, e i secondi non hanno una proiezione di potenza globale. La contesa USA-Cina è il tema di un articolo dall'Economist ("China v America: how Xi Jinping plans to narrow the military gap"): la marina cinese è cresciuta enormemente negli ultimi anni, arrivando a superare quantitativamente quella americana (317 unità navali contro 283) ma senza raggiungerne il livello dal punto di vista qualitativo. Ciò che manca alla Cina, inoltre, è l'esperienza militare degli USA. Nel 2023 il budget militare ufficiale di Pechino dovrebbe essere di 224 miliardi di dollari, secondo solo a quello americano, che è circa quattro volte di più. I Cinesi hanno le mani libere e possono concentrarsi su Taiwan, mentre gli Americani devono fare la guardia al mondo intero. Il Pentagono prevede che l'arsenale nucleare cinese sarà quasi quadruplicato entro il 2035. La Cina, sempre secondo The Economist, dovrebbe agire ora per annettere Taiwan, perché tra non molto dovrà fare i conti con gravi sfide interne, ad esempio l'invecchiamento della popolazione, che la priverebbero dello slancio necessario.
Il capitale si è autonomizzato dalle realtà statali, anche da quelle più potenti. Gira per il mondo, compie scorribande dove gli conviene, soprattutto dove collassano gli Stati e si possono fare affari senza avere troppi vincoli. Collassano le piccole nazioni, ma sono a rischio anche i colossi come gli USA.
La Turchia, membro della NATO e fulcro dinamico tra Est e Ovest, è divenuta alleata (per esigenze economiche) della Russia, suo storico rivale. Ankara si avvicina alle elezioni presidenziali e, se vincesse il candidato delle opposizioni Kemal Kilicdaroglu, potrebbe aprirsi un turbolento periodo di transizione (la lira turca è in caduta libera, l'inflazione alle stelle). Se gli scontri interni alla borghesia turca diventassero acuti, l'unica soluzione sarebbe l'impiego della forza da parte dell'esercito. La Turchia è un paese capitalisticamente importante: ha 85 milioni di abitanti, un proletariato combattivo e un'influenza politica che va dalla Libia fino allo Xinjiang.
Come scrive Moisés Naím, invece di ridurre la polarizzazione, le campagne elettorali la ingigantiscono ("Negli Stati Uniti ha vinto la polarizzazione"). Pensiamo al Brasile, il paese più grande del Sudamerica, che ha visto una tensione crescente nelle ultime elezioni presidenziali. I meccanismi storicamente utilizzati dalla borghesia per rinsaldare il proprio dominio di classe e imbonire il proletariato (farsa elettorale), ora promuovono il caos. La società borghese non riesce più a riprodursi in quanto tale, non è più in grado di fare vivere gli uomini alla vecchia maniera: la contraddizione tra contenuto e contenitore, tra lavoro associato e appropriazione individuale, diventa esplosiva. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale.
Oramai, anziché elencare i paesi che hanno a che fare con il marasma sociale e la guerra, è più facile nominare quelli che hanno ancora una parvenza di stabilità. Haiti, sconvolta da anni di guerra civile, non ha più neanche una struttura statale, è in mano a bande e gruppi criminali. Nel paese caraibico ci sono stati 600 morti nel solo mese di aprile. Il 50% per cento della popolazione è sottonutrita, non c'è lavoro, non c'è una struttura economica che possa permettere un qualsiasi tipo di sviluppo. A nessuno interessa intervenire, anche perché le truppe dell'ONU non hanno fatto altro che incancrenire una situazione già drammatica. È significativo che la popolazione inizi a reagire ribellandosi alla violenza subita, scontrandosi con le bande armate. Negli ultimi giorni ci sono state manifestazioni per chiedere aumenti salariali (l'inflazione è quasi al 50%).
Mike Davis, sociologo esperto di sviluppo urbano, nel saggio Il pianeta degli slum si è occupato della condizione in cui versano quei milioni di persone che vivono nelle baraccopoli, dei processi di urbanizzazione svincolati dalla produzione industriale, della parte di umanità che non è più utile ai processi di valorizzazione del capitale. Non si tratta più tanto di esercito industriale di riserva che segue l'andamento del ciclo boom-crisi, quanto di sovrappopolazione assoluta che non ha modo di integrarsi in un mondo che peraltro è sempre più disintegrato.