Nella fabbrica materie prime, mezzi di produzione, prodotto finito, rappresentano masse determinate di tempo di lavoro, dunque valore, anche se non avviene lo scambio. Marx puntualizza che il valore d’uso della forza-lavoro è la sorgente del valore mentre il valore d’uso della macchina (la tecnologia!) è un corpo nero che assorbe valore.
Da ciò ne viene che l’intero sistema tecnologico e gli stessi beni di consumo sono strutturati in vista del valore che è il loro unico fine. Perciò l’intero sistema tecnologico e gli stessi beni di consumo sono strutturati in vista del valore che è il loro vero fine. Perciò l’intero sistema della produzione borghese è solo mediatamente utilizzabile nella prima fase del socialismo: non si tratta di superare la mercificazione ma occorre anche invertire l’oggettività alienata dello stesso valore d’uso. Insomma la tecnica deve essere subordinata ai fini umani.
Facciamo attenzione: se tutto funzionasse come all’interno della fabbrica il processo di valorizzazione verrebbe esteso su tutta la società ad ogni livello ed in qualunque istante di vita. Avremmo l’apoteosi del capitale, il sogno realizzato: la giornata lavorativa di 24 ore! Altro che fine del capitalismo! Ed è da vedersi se Internet come ultima forma del capitale fisso non sia indirizzata su questa strada (vedere il nuovo feticismo della new Economy!).
Per quanto riguarda l’accettazione della teoria del valore-lavoro non mi sembra che la borghesia si sia convertita. Lo sforzo più grande che essa ha fatto è stato il tentativo di recupero di Ricardo col lavoro teorico di Sraffa, ma i prezzi sraffiani non hanno niente a che vedere col valore, sono puri formali coefficienti algebrici di cose e non può essere che così poiché una classe sfruttatrice per quanto obsoleta non aspira certo a suicidarsi teoricamente.
Vi saluto ed auguro buon lavoro.
Grazie per la tua lettera sulla rivista, soprattutto per le osservazioni che, contrariamente alle pessime abitudini imperanti, non sono polemiche ma intese a rendere migliorabile un lavoro. Come al solito le osservazioni ci sono utili sia dal punto di vista delle verifiche continue, sia per valutare la percezione che altri hanno della nostra attività, che ovviamente non è fine a sé stessa ma è riverberata all'esterno in una rete piccola ma ormai ben consolidata.
Le questioni da te sollevate sono importanti e a nostro avviso la Sinistra ne ha anticipato alcune risposte fin dagli anni '20. Tutte coinvolgono temi su cui stiamo lavorando da tempo e che si possono ricondurre ad un concetto generale: quello materialistico e anti-utopistico di "non-creazione", applicato all'avvento della società nuova. In altre parole, la non-esistenza potenziale del capitalismo giunto alla sua fase statale e finanziaria (Marx, Engels) e la conseguente esistenza potenziale della società futura (Sinistra). I riferimenti a questo tema sono sparsi nei testi della corrente e nelle nostre Lettere ai compagni, specialmente quelle degli ultimi anni. La stessa citazione dai Grundrisse di Marx che abbiamo posto come manchette del nostro sito Internet è su questa lunghezza d'onda.
Ora, il processo di formazione del Capitale avviene certamente tramite la sfera della produzione, ma converrai che, se la prendiamo in considerazione isolatamente, in essa non avviene altro che produzione e non valorizzazione (anzi, Marx afferma che nel processo di produzione in effetti avviene una svalorizzazione). Se la massa precedente di valore messo in processo non viene a sua volta valorizzata, il ciclo non può neppure esistere. Infatti occorre il mercato per avere il processo completo da D a D' attraverso P. Da D a P non succede null'altro che input alla produzione.
L'osservazione che tu fai è quindi esatta soltanto se si fotografa il capitalismo in quanto tale, senza tener conto che esso ha tutti gli elementi che servono all'affermazione della società futura. Il capitalismo non è un mero processo di valorizzazione D-D'; esso è soprattutto processo di produzione sociale, cioè ciò che esiste fra il primo e il secondo "D". Con occhi comunisti, cioè cercando ciò che ci interessa, vediamo che i due estremi del processo stanno prima e dopo la fabbrica, elemento portante in cui non esiste valorizzazione, ma mero piano di produzione tramite valori d'uso per ottenere un oggetto complesso a partire da semilavorati, energia, lavoro umano ecc. Non è vero che nella fabbrica entrano "chiaramente" quantità determinate di valore. Questo è possibile dirlo soltanto se si parla di valore che si valorizza. Ma nella fabbrica reale (cioè, dice Marx, quella che non si confronta con la metafisica del Capitale, col carattere feticistico della merce) non intervengono segni di valore nei movimenti degli oggetti e degli uomini; intervengono solo quantità fisiche, numeri, pesi, capacità, ore di lavoro, ecc. Di per sé la produzione assorbe oggetti, che erano capitale più forza-lavoro, e ne erode il valore fino ad esaurirlo del tutto nel ciclo. Il capitalismo è il processo completo che comprende il mercato, mentre la società nuova elimina il mercato e tiene la produzione: sparisce il valore, rimane la "contabilità" in quantità fisiche (meglio dire statistica).
Secondo la terminologia della Sinistra, il capitalismo è azienda-fabbrica; soltanto che, mentre l'azienda è necessariamente fabbrica, la fabbrica può essere non-azienda e così sarà nella società futura. Allora, anche oggi la fabbrica, che diventa azienda solo nella misura in cui deve fare i conti con il mercato, presa a sé, cioè vista da un comunista, non è ancora azienda, perciò può prefigurare un modello sociale che prescinda da criteri di valore. Con Marx possiamo quindi insistere sul fatto che nella fabbrica esiste un piano di produzione finalizzato, che è come dire un rovesciamento della prassi in confronto all'anarchia totale al di fuori di essa (concorrenza, processi non lineari di influenza fra capitalisti, quindi non prevedibili per definizione).
E' vero che questo è uno schema astratto (riduzionistico, si sarebbe detto un tempo), ma non è arbitrario, perché la fabbrica esiste, ed esiste anche la possibilità di dimostrare, come faremo nel prossimo numero della rivista [questo numero, ndr], il fatto che dalla fabbrica il sistema tende ad estendersi alla società, come avevano già sottolineato Lenin nell'Imperialismo e, qualche anno dopo, Bucharin nella Transizione.
La tecnologia in questo processo non è per nulla neutrale. La macchina diventa l'automa generale ricordato nel cap. XIII del Capitale (vol. I), e l'automa, cioè il sistema di macchine, completa il processo di metamorfosi dall'operaio isolato all'operaio sociale. Il quale può essere soltanto molti operai, e solo tutti insieme producono merci per il mercato facendo operazioni che hanno un senso solo se fanno parte di un piano; l'operaio parziale non produce merce, non produce valore, perché la sua funzione è parte di un tutto (Il Capitale, Libro I, cap. XII). In una società che produce secondo il modello "a una fabbrica", ogni unità produttiva è come l'operaio parziale, cioè non produce merci né valore.
Crediamo pure che sia sbagliato concepire il sistema della produzione borghese come utilizzabile nella prima fase del socialismo anche se solo in modo mediato: il sistema in quanto tale non è utilizzabile per niente, mentre è utilizzabile per intero "il sistema di macchine", che con l'operaio sociale è la metafora della produzione sociale. Questo perché tale sistema è già materialmente slegato dalla legge del valore. Tutto ciò ci sembra particolarmente evidente quando utilizzi la proposizione "occorre invertire l'oggettività alienata del valore d'uso". In ambiente capitalistico avanzato la rivoluzione non avrà più il compito immediato di "costruire" qualcosa a partire da eredità precedenti: essa non avrà che da liberare caratteristiche comuniste già esistenti, compresa l'oggettiva funzione del valore d'uso per nulla mediata ma già operante in tutta la sua forza nei colossi produttivi.
Noi insistiamo parecchio, come avrai notato, nel riprendere dai testi queste parti che ci sembrano molto più importanti delle vecchie diatribe sui fronti unici o sulle questioni nazionali che oggi non hanno più senso; in mancanza del partito formale che si occupa di tattica, crediamo che si possa aderire meglio al partito storico cercando di approfondire l'indagine sulle basi materiali della rivoluzione. Perciò non stupirti se abbiamo difficoltà a capire quando dici che un modello di fabbrica esteso alla società intera è l'apoteosi del Capitale: se tutto il mondo tenesse conto soltanto di unità fisiche e applicazione di lavoro medio, il tutto secondo un piano scientifico di produzione, dove sarebbe il mercato che permette il passaggio da D a D', cioè la valorizzazione?
Ma diremo di più: secondo Marx il motore storico delle società basate sullo scambio, e quindi al massimo grado del capitalismo, è la differenza. Nel nostro caso differenza di valore, e precisamente differenza dei valori singoli (prezzo di costo), che si confrontano con il valore generale (prezzo di produzione). Questa differenza nella produzione moderna può venire soltanto da una pluralità di fabbriche differenti. Ora, il valore generale prodotto ex novo (V = v + p) è la somma dei prezzi di produzione delle varie sfere; perciò se fosse vero che il modello a fabbrica unica è l'apoteosi del Capitale, essa sarebbe, nello stesso tempo, la sua fine. Se infatti tutto fosse valore indifferenziato non ci sarebbe anarchia di mercato, non esisterebbe la concorrenza, più nulla sarebbe valore. Del resto Marx giunge alla conclusione che il Capitale rappresenta il limite fondamentale del capitalismo, in quanto quest'ultimo è un modo di produzione basato esclusivamente sul risultato D-D' senza badare a P, che così diventa produzione per il Capitale e non per la società dei produttori (cap. XV del III libro).
A nostro avviso molte delle difficoltà di comprensione delle basi oggettive della società futura derivano dall'abitudine di pensare secondo gli schemi "costruttivistici" ereditati politicamente durante l'infausto periodo della bolscevizzazione e assimilati a tutti i livelli fino al giorno d'oggi. Essendo una rivoluzione doppia, la rivoluzione russa doveva certamente porsi compiti costruttivi rispetto al capitalismo, compiti che oggi sono superati in tutto il mondo; ma persino nelle Due tattiche Lenin mette in evidenza che chi comanda è il comunismo e non la situazione del momento. Immaginare oggi che durante la futura fase di transizione in qualsiasi paese il partito possa adottare forme di "edificazione" mediate ci sembra poco aderente alla maturità dei tempi.
Tra l'altro la Sinistra Comunista ha sempre combattuto anche per una visione del partito coerente con quanto andiamo ripetendo qui: il partito è disegnato oggi dai suoi compiti nella società di domani (Partito e azione di classe, 1921). Crediamo valga la pena di soffermarci su certi lavori anticipatori della Sinistra, perché il comunismo non edifica mai, distrugge soltanto, abbatte barriere, liberando forze che ci sono. Su tutto ciò sarebbe interessante ricevere contributi.
Sull'insieme delle tecnologie informatiche, intese come massa del capitale costante, siamo i meno "feticisti" di tutti. Basta guardare, al di là della grancassa attuale, quanto esse rappresentino in percentuale nell'economia degli Stati Uniti, il paese più avanzato in questo campo: un misero 8%. Il problema non consiste tanto nel valore della massa delle attrezzature e nemmeno del software, quanto nell'effetto dell'informatizzazione sull'economia "tradizionale", dato che le new technologies non danno produzione diretta ma servono a gestire il restante 92% delle old. L'informazione è aumento di produttività a costo molto basso e sappiamo che ciò vuol dire, tenendo fermi gli altri parametri, aumento del saggio di profitto, cioè una controtendenza alla legge generale della sua caduta. Ecco il perché della corsa dei capitalisti alle nuove tecnologie: esse hanno grandi effetti immediati in rapporto al capitale anticipato. Questi effetti dell'informazione sul ciclo produttivo vanno però collegati al rapporto storico fra capitale anticipato e numero di ore lavorative che servono a valorizzarlo. Siccome nel bilancio totale della forza-lavoro negli ultimi vent'anni abbiamo un netto calo mondiale degli occupati salariati,* ecco realizzati non solo una tendenza ma un dato di fatto: oggi molti meno operai (lavoro vivo) mettono in moto molto più capitale (lavoro morto). Da tener presente che il dato è assoluto, mentre per il conto di classe esso va rapportato all'insieme della popolazione, la quale è aumentata enormemente, rendendo la situazione di crisi latente peggiore di quanto non appaia.
Infine la questione della legge del valore accettata dalla borghesia: Sraffa non c'entra; il fatto eclatante non consiste nella "accettazione", che non ci sarà mai, bensì nell'utilizzo normale di tale legge per capirci qualcosa fra le varie economie nazionali. Siccome c'era bisogno di un criterio unico, e siccome questo non può che essere basato su "osservabili" cioè su elementi quantificabili, come dice Bordiga in Elementi, ecco che dagli anni '70 la borghesia ha adottato Marx: la somma del "valore aggiunto" prodotto dai vari settori, ossia la somma dei redditi, ossia quella dei prezzi di produzione, che in ogni caso ci dà: V = v + p, appunto. I borghesi possono dire che Marx è in soffitta, ma è bello per noi constatare che senza la sua più importante scoperta essi non sono neppure in grado di capire che cosa sia il loro idolatrato PIL.
* Il dato in nostro possesso riguarda il mondo, ad esclusione della Russia e della Cina. Quest’ultima da sola potrebbe scombussolare le statistiche mondiali sull’occupazione (ma non sulla produzione per ora). In Cina sono aumentati i salariati urbani ma drasticamente diminuiti quelli agricoli e dei servizi. Le Monde diplomatique calcola che vi siano 100 milioni di disoccupati, che saranno il doppio entro il 2002.
(Doppia direzione pubblicata sulla rivista n° 1 - settembre 2000.)