La storia è un continuum punteggiato da eventi che gli uomini "scelgono" per periodizzarla secondo criteri utili al lavoro che stanno facendo. Alcuni "punti di svolta" risultano poi comuni a molti osservatori, mentre altri sono individuati solo da pochi. Sabino Cassese nel saggio Lo Stato fascista è tra coloro che evidenziano la continuità tra la fase precedente e quella successiva al fascismo mussoliniano. Nel testo viene citato Alfredo Rocco, padre del codice di procedura penale rimasto in vigore dal 1930 al 1988, che dello stato fascista dà questa definizione:
"Ma in che consiste questo Stato fascista? In che si differenzia esso dallo Stato liberale democratico? [..] Lo Stato liberale democratico non domina le forze esistenti nel Paese, ma ne è dominato: sono queste che decidono, lo Stato subisce la decisione e la esegue [...] Lo Stato fascista è [...] lo Stato che realizza al massimo della potenza e della coesione l'organizzazione giuridica della società."
Ma anche quest'ultimo stato, che pensa di essere il soggetto, è in realtà un oggetto in mano al Capitale. Il fascismo non nasce dal nulla, esso acquisisce elementi già presenti nella società e li ridefinisce alla luce di una disciplina unitaria dal punto di vista economico, politico e militare. Lo stesso corporativismo, visto come qualcosa di caratteristico del Ventennio, prende spunto dalla tradizione sociale cristiana; si pensi ad esempio all'enciclica Rerum Novarum scritta da papa Leone XIII e citata in "Le scissioni sindacali in Italia" (Battaglia Comunista del 1949).
Sempre in tema di continuità, si veda anche il progetto governativo delineato da Giovanni Giolitti durante l'occupazione delle fabbriche nel 1919-'20. Il politico piemontese propone la cogestione, ovvero la possibilità di riconoscere alle associazioni economiche dei lavoratori un ruolo "attivo" per attuare un controllo della produzione, una commissione mista tra operai, sindacati e industriali. Lo stesso Giolitti in Memorie della mia vita, ricordando quel periodo, scrive:
"Il concetto del controllo degli operai nelle vicende delle industrie in cui sono occupati, non ha nulla di rivoluzionario, e non è che una estensione dei rapporti che intercedono anche attualmente fra sindacati operai ed industriali per il regolamento dei contratti di lavoro e per la determinazione della misura dei salari."
Il giolittismo quindi è stato più che sufficiente per sconfiggere le spinte rivoluzionarie operaie, e la vittoria del fascismo una diretta conseguenza di tale rinculo: una esigenza del capitalismo di darsi un assetto sistemico tramite una grande auto-riforma politico-economica.
Lo storico Giuseppe Berta nel saggio Conflitto industriale e struttura d'impresa alla Fiat 1919-1979 analizza un episodio significativo occorso durante il Bienno Rosso a Torino: data l'apparente incontrollabilità della situazione, nei primi giorni dell'ottobre del 1920 Giovanni Agnelli rassegna le dimissioni dalla carica di amministratore delegato della Fiat, con l'intenzione di proporre alle organizzazioni operaie di prendere in mano l'azienda automobilistica per trasformarla in una cooperativa. Il successivo 28 ottobre fa sapere all'assemblea degli azionisti che Fiom e CgdL non hanno accettato la proposta (che tra l'altro avrebbe comportato il grosso problema degli indennizzi agli azionisti). Sulla possibile svolta avviata da Agnelli, Gramsci scrive un articolo sull'Avanti! il 1° ottobre intitolato "La Fiat diventerà una cooperativa?". Nel Quaderno del carcere n. 22 (1934), trattando il tema del fordismo-americanismo, poi ricorderà il Biennio Rosso e gli abboccamenti tentati dalla dirigenza della Fiat verso il gruppo dell'Ordine Nuovo, allora interprete in Italia di una forma di americanismo tra le masse operaie.
In realtà quella di trasformare la Fiat in una cooperativa non era una proposta realistica, ma un'abile mossa di Agnelli per dimostrare che nessuno era in grado di dirigere l'azienda se non gli imprenditori. Passata la grande paura, sconfitto il movimento di occupazione delle fabbriche e andato al potere Mussolini, le associazioni dei lavoratori vengono inglobate nella macchina statale, mentre il PNF diventa il nuovo interlocutore degli imprenditori.
A noi interessa analizzare la forma specifica che assume il fascismo nei diversi paesi, ma ancor di più il processo materiale che lo ha fatto diventare un fenomeno internazionale. Esso si presenta già durante la Prima guerra mondiale come il tentativo del Capitale di salvare sé stesso attraverso una socializzazione di segno capitalista. Come alcuni storici arrivano ad affermare, per esempio Bruno Settis in Fordismi. Storia politica della produzione di massa, anche il fordismo è un fenomeno internazionale e trae le sue origini dalle necessità di razionalizzazione della società che partono dall'industria, ovviamente all'interno dei confini nazionali e con tutte le contraddizioni del caso (il capitolo III del saggio di Settis si intitola La razionalizzazione in un mondo non razionale).
Detto questo, bisogna ribadire che il capitalismo nasce statale e rimarrà tale fino alla morte ("Armamento ed investimento", in Battaglia Comunista del 1951). La nostra corrente parla chiaramente di capitalismo di stato a partire dai Comuni e dalle Repubbliche Marinare; da allora la borghesia non ha mai rinunciato al fascismo, tant'è che il fondatore dell'economica liberale, Adam Smith, nella sua Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni sostiene l'esigenza di controllare il fatto economico visto che la "mano invisibile" del mercato non basta.
Dato che per tutto il secondo dopoguerra il fascismo-corporativismo non ha fatto che consolidarsi, il movimento antiforma per rompere le catene capitalistiche necessiterà di una potenza mai vista prima. Tuttavia, questa non è una questione che può essere risolta volontaristicamente: il "movimento reale" marcia anche in assenza di grandi movimenti proletari e facilita i compiti alla futura rivoluzione.
Commentando l'articolo "Fuga dal sindacato: perso mezzo milione di iscritti in due anni", pubblicato su Repubblica il 4.9.18, è venuto spontaneo il paragone con la situazione in cui versano i partiti, le parrocchie, e tutte quelle strutture che una volta erano efficienti e ramificate nella società, mentre oggi sono diventate delle cellule depotenziate di un sistema che ha fatto il suo tempo, assolutamente incapaci di frenare l'esplosione sociale prossima ventura. Uno su tutte il grande bastione controrivoluzionario rappresentato dal PCI, oramai un ricordo del passato, con feste dell'Unità frequentate solo da ristretti gruppi di funzionari e dismesse una dopo l'altra. Anche un altro retaggio del fascio-stalinismo si sta dissolvendo, il culto del lavoro. Il posto di lavoro non esiste più e la maggior parte dei giovani sono o disoccupati impegnati in stage gratuiti o occupati con lavoretti pagati pochi euro: un esercito di proletari supersfruttati, scaraventati nella sovrappopolazione assoluta che il capitalismo deve mantenere invece di sfruttare.
In chiusura di teleconferenza, si è accennato alle ultime notizie provenienti dagli scenari di guerra in Libia e Siria, e all'attivismo economico-politico della Cina.
In Libia il governo Sarraj, che controllava a malapena l'area di Tripoli, è ora messo alle strette dall'entrata in città di milizie ostili. Dalla deposizione di Gheddafi, le forze presenti nel paese non sono più riuscite a mettere in piedi una parvenza di Stato, sostituito invece da formazioni armate che si ricattano tra di loro per ottenere benefici economici. In Siria è in corso l'offensiva del governo Assad, sostenuto dagli iraniani e dall'aviazione russa, sulla roccaforte ribelle di Idlib; gli americani avvertono della possibilità di un'ulteriore catastrofe umanitaria in un'area già fuori controllo. Insomma, siamo alla guerra di tutti contro tutti.
In questi giorni molti giornali trattano dell'espansione cinese in Africa. Durante l'ultimo forum di cooperazione Africa-Cina, Pechino ha offerto 60 miliardi di finanziamenti - anche per lo sviluppo della nuova Via della seta - ad una cinquantina di capi di stato africani. La cifra è irrisoria rispetto alle esigenze del Capitale di valorizzare le migliaia di miliardi che sono attualmente congelati, ma al tempo stesso essa dimostra che Pechino si sta comprando pezzi di pianeta, garantendosi lo sfruttamento delle risorse e soprattutto delle terre coltivabili. Il "land grabbing", ovvero l'accaparramento della terra altrui, ha pesanti effetti sugli instabili equilibri del pianeta, su popolazioni già ridotte alla fame.