Il capitalismo produce le condizioni del comunismo in quanto esigenza storica oggettiva. Uno degli aspetti peculiari del lavoro della Sinistra Comunista e nostro è la ricerca dei caratteri anticipatori della società futura già operanti nell'attuale modo di produzione, perché "se noi non potessimo già scorgere nascoste in questa società - così com'è - le condizioni materiali di produzione e di relazioni fra gli uomini, corrispondenti ad una società senza classi, ogni sforzo per farla saltare sarebbe donchisciottesco". La prossima forma sociale, al pari delle altre che l'hanno preceduta, nasce da quella vecchia ricavando dalle sue rovine i materiali che ritiene utili a sé stessa. Ma non attingendo ai materiali specifici della società morente, bensì selezionando quelli che anticipano la società nascente e cioè quei saggi di organizzazione comunistica ravvisabili in particolari settori.
Se si dimostra che il comunismo è presente anche a livelli meno profondi, che ha ormai alterato l'essenza del capitalismo ovvero il dominio totalizzante della proprietà privata che trasforma tutto in merce, allora si dimostra non solo la necessità storica del comunismo, ma anche la sua presenza fisica anticipata. È in quest'ottica che ci interessa prendere in considerazione l'ultimo libro di Jeremy Rifkin, La società a costo marginale zero, e quello di Paul Mason, Postcapitalismo.
Ci interessa anche perché queste analisi non emergono da ambienti marxisti o comunisti, ma da rappresentanti della borghesia, elementi dell'altra classe che a fronte di cambiamenti troppo vistosi dello sviluppo tecnologico, scientifico e sociale non riescono più a vedere un futuro capitalista e sono costretti, da potenti spinte materiali che agiscono nella società, a trattare della fine del capitalismo (eclissi per Rifkin, e postcapitalismo per Mason), magari in forma utopica, proudhoniana, sicuramente riformista e contraddittoria, ma, comunque, a prenderne atto riempiendo pagine e pagine lette da una vastissimo pubblico di lettori.
Chi è Rifkin
Dico un vastissimo pubblico di lettori perché nel caso di Jeremy Rifkin non si tratta solo di un docente universitario con la penna facile. Rifkin, oltre ad essere famoso per il suo impegno nel movimento pacifista e ambientalista americano, interviene periodicamente come opinionista pubblicando articoli su numerosi quotidiani e periodici europei, tra i quali il britannico "The Guardian", lo spagnolo "El Pais", l'italiano "L'Espresso" e la tedesca "Suddeutsche Zeitung". Rilevante anche la sua presenza come ospite di numerosi programmi televisivi statunitensi e non (CNN e Che tempo che fa). In Europa è stato attivo come consigliere di alcuni statisti e capi di governo (tra cui Romano Prodi) ed è stato consulente anche di grandi multinazionali come la Cisco e la Siemens. The National Journal, una delle maggiori riviste americane di politica, considera Rifkin una fra le 150 personalità che influiscono maggiormente sull'amministrazione pubblica degli Stati Uniti.
Nei suoi numerosi saggi, tradotti in più di 20 lingue e per la maggior parte diventati best-seller, Rifkin si è dimostrato capace di registrare e proiettare nel futuro quanto accade nel mondo dell'economia, senza però riuscire a trarne tutti gli insegnamenti e rimanendo perciò nel campo del riformismo sostenuto dalla concezione di un capitalismo perpetuo.
E' il caso per esempio della Fine del lavoro, del 1995, in cui la dimostrazione della tendenza inesorabile del capitalismo all'aumento della produttività e quindi alla sostituzione del capitale variabile con il capitale costante grazie ai progressi della progressiva automazione, sfocia nella previsione di uno sviluppo e di un rafforzamento del terzo settore, quello no profit, in grado di assorbire l'eccesso di manodopera grazie alla tassazione dei sovraprofitti dei settori industriali.
Lo stesso tema viene ripreso ne L'era dell'accesso, del 2000, in cui viene trattata la smaterializzazione delle merci: con lo sviluppo del terzo settore il sopravvento dei servizi sulla produzione materiale causerà la perdita di importanza della proprietà fisica a favore del controllo dei flussi di valore, creando il monopolio dell'accesso. Anche in questo caso rimane un approccio di tipo riformista.
Ben diverso invece ciò che Rifkin era stato costretto a concludere in Entropia, testo del 1980 in cui l'autore sviluppa la teoria di Georgescou-Roegen secondo cui ogni scienza e quindi anche quella economica è soggetta alle leggi della fisica e in particolare al secondo principio della termodinamica. Ne deriva che qualsiasi processo economico che produce merci materiali diminuisce la disponibilità di energia nel futuro e quindi la possibilità futura di produrre altre merci e cose materiali; ogni sistema è irreversibilmente dissipativo. Nonostante la mole di considerazioni ecologiche, Rifkin è portato a delineare un capitalismo la cui stessa natura intrinseca ne segnerà la fine.
L'impedimento fisico al progresso dell'attuale modo di produzione, dimostrato su basi scientifiche in Entropia, scomparirà negli scritti successivi, lasciando spazio alla registrazione dei fatti senza il collegamento alla legge che li spiega. Al solito, la dinamica in atto viene abbandonata in virtù di una serie di istantanee della realtà.
La società a costo marginale zero
Ne La società a costo marginale zero tutti questi temi ritornano con forza, ma qualcosa sembra cambiato dato che il sottotitolo annuncia l'eclissi del capitalismo. Esattamente recita: L'Internet delle cose, l'ascesa del commons collaborativo, l'eclissi del capitalismo.
La tesi di Rifkin è che di qui a pochi decenni, circa intorno al 2050, la società attuale farà il grande salto dal capitalismo di mercato al commons collaborativo, e cioè ad un nuovo paradigma economico basato sulla condivisione e la collaborazione, distribuito a rete e fondato su una nuova matrice energia-comunicazione-logistica definita Internet delle Cose. Ciò che ha portato a questa grande possibilità è stato lo stesso meccanismo propulsivo che nel passato ha spinto il capitalismo a risultati straordinari e che oggi invece ne sta minando le basi. La produttività, che nella nostra epoca è diventata estrema grazie alle innovazioni in campo tecnologico e scientifico, sta determinando una situazione per cui una parte sempre maggiore dei beni e servizi che costituiscono la vita economica della società muove verso il quasi azzeramento dei costi marginali e diventa praticamente gratuita. Questo comporta da una parte profitti sempre inferiori che minano profondamente le basi del capitalismo, e dall'altra il passaggio da una società del possesso a quella dell'accesso in cui prevale l'abbondanza sulla scarsità. I primi effetti del costo marginale quasi pari a zero si sono visti nel settore della musica, dell'editoria e dell'intrattenimento in genere.
Il salto al nuovo paradigma vedrà anche l'affermarsi di una nuova figura sociale, quella del prosumer, in cui l'individuo sarà allo stesso tempo consumatore e produttore dei beni necessari alla propria esistenza.
Ciò che permetterà l'avvento del nuovo paradigma e che già oggi sta spingendo a tappe forzate il capitalismo verso la sua fase finale è l'internet delle Cose. L'Internet delle Cose è una nuova potente infrastruttura, integrata e intelligente, capace di collegare, attraverso dei sensori, ogni tipo di oggetto, dalle automobili allo spazzolino da denti, dal contatore per l'energia elettrica al telefonino, dal prodotto sullo scaffale nel supermercato al software che gestisce gli ordini del magazzino. Grazie ad una piattaforma tecnologica di questo tipo ogni oggetto dotato di sensore può comunicare dati su sé stesso e allo stesso tempo accedere ad informazioni aggregate da parte di altri oggetti.
L'idea di "far parlare" gli oggetti tra loro non è recente. L'espressione internet delle cose risale al 1995, ma al tempo lo sviluppo fu frenato anche perché il costo dei sensori e degli attuatori integrati nelle "cose" era troppo elevato. Oggi una piattaforma di questo tipo, distribuita a livello globale, è invece immaginabile perché anche in questo settore, come in molti altri, si è verificato un drastico calo dei prezzi. Tra il 2012 e il 2013 il costo dei tag, i chip per l'identificazione a radiofrequenza (RFID, Radio-Frequency Identification), impiegati per controllare e rintracciare le cose (capaci di trasmettere i dati utilizzando l'energia dei segnali radio che li interrogano), è crollato del 40% arrivando al prezzo di meno di 10 centesimi di dollaro l'uno. Negli ultimi cinque anni anche il prezzo dei sistemi microelettromeccanici (MEMS, Micro-Electro-Mechanical Systems), fra cui giroscopi, accelerometri e sensori di pressione, è crollato dell'80-90%. Un altro fattore di accelerazione è stata l'adozione di un nuovo protocollo Internet, l'Ipv6, che porta il numero di dispositivi collegabili alla rete da 4 miliardi 300 milioni a 340.000 miliardi di trilioni di trilioni. Una quantità di indirizzi univoci idonea ad accogliere in Rete, oltre i due miliardi di utenti "umani", i miliardi di oggetti in circolazione.
L'applicazione dell'internet delle cose, che è per sua natura una piattaforma distribuita, collaborativa e paritaria, ai settori centrali quali la logistica, la comunicazione e l'energia (es. fonti rinnovabili) costituirà la base indispensabile e complementare del nuovo paradigma.
Collegare tutti e tutto attraverso l'internet delle cose e avere a disposizione una mole mai vista prima di dati reali sul mondo, i big data, permette, dice Rifkin, di raccordare l'ambiente artificiale e quello naturale in una rete operativa continua, ottimizzando l'efficienza termodinamica della società e costituendo una rete neuronale globale, aperta, diffusa e collaborativa. E gli uomini saranno i nodi di questo sistema nervoso che può essere pensato "come una sorta di protesi, un modo per estendere il corpo sociale".
L'avvento del nuovo paradigma si rivela nell'immane marea di iniziative e progetti che sta montando nel commons collaborativo, ambito che ormai non può più essere considerato come parte dei filoni economici principali ma che va ad incidere sempre più pesantemente sull'economia di mercato. L'abbassamento dei costi dato dallo sviluppo tecnologico interessa i più svariati settori: da quello dell'editoria, dei media e dell'intrattenimento, a quello della produzione di energia da fonti rinnovabili. Ma ci sono anche altre importanti anticipazioni già operanti del nuovo paradigma, ad esempio la modalità di produzione che sarà peculiare del Commons collaborativo: il processo chiamato "stampa 3D".
Tale processo funziona tramite programmi, spesso open source, che indirizzano plastica fusa, metallo fuso o altre materie prime all'interno di una stampante per formare, livello dopo livello, un prodotto materiale, un oggetto che esce dalla macchina completo di tutte le sue parti, anche quelle mobili. La stampante può essere programmata per stampare un'infinità varietà di prodotti - ad oggi per esempio sono impiegate per produrre gioielli, parti di aereo, protesi umane e altro – e in commercio se ne possono trovare di tipo economico, alla portata dei più, favorendo l'affermazione della figura del prosumer, consumatore e produttore allo stesso tempo di beni fabbricati in proprio.
La stampa 3D si distingue dalla produzione centralizzata per diversi aspetti:
1 – esclusa l'elaborazione del software, il ruolo dell'uomo è marginale e perciò è più pertinente parlare di produzione digitalizza anziché manifatturiera;
2 – i programmi per la stampa sono open source, e cioè a disposizione di tutti. L'eliminazione della proprietà intellettuale (leggi: nessun onere per i brevetti) ha abbassato i costi di stampa favorendo anche in questo settore una crescita esponenziale. Tale crescita è stata inoltre incentivata dal calo di prezzo delle stampanti 3D attraverso lo stesso meccanismo visto con i computer o i telefoni cellulari: nel 2002 la prima stampante low cost messa in commercio costava 30.000$, oggi il prezzo base di una macchina ad alta qualità si aggira sui 1500$.
3 – il processo produttivo è organizzato in maniera completamene diversa rispetto a quello tradizionale. Si è passati da un procedimento sottrattivo (le materie prime vengono tagliate, vagliate e poi assemblate), in cui una notevole quantità di materiale va sprecata, ad uno di tipo additivo che richiede un decimo del materiale necessario per la produzione basata su sottrazione. Ne consegue un aumento dell'efficienza e della produttività.
4 – le stampanti 3D sono in grado di stampare i propri pezzi di ricambio e sono agilmente riconfigurabili, impossibile a pensarsi per le linee fisse delle fabbriche tradizionali.
La rivoluzione della stampa 3D è cominciata nel 1980. All'inizio le stampanti erano molto costose e venivano utilizzate per creare prototipi; quando hacker e hobbisti cominciarono ad interessarsene si passò alla personalizzazione del prodotto iniziando a concepire gli "atomi come bit" e a immaginare l'espansione dell'open source dal mondo dei software a quello delle cose. "Hardware open source" divenne così il grido di battaglia di un gruppo eterogeneo di inventori e appassionati che si indentificavano nel Movimento dei maker.
Dal 2005 la stampa 3D è poi entrata in una nuova fase. Innanzitutto fu lanciato il progetto della RepRap, la prima stampante open source che poteva essere fabbricata con mezzi facilmente reperibili e che poteva replicare se stessa. Oggi riesce a riprodurre il 48% delle sue parti. Nel 2008 nasce inoltre il sito Thingiverse, luogo di incontro della comunità degli stampatori 3D che offre file con progetti digitali open source realizzati sia con licenza GPL sia Creative Commons. Ma la spinta maggiore venne dall'introduzione del Fab Lab, nel 2005. Il progetto, pensato nel MIT Center for Bits and Atoms, una filiazione del MIT Media Lab, ha l'obiettivo di offrire un laboratorio dove chiunque possa trovare gli strumenti con cui realizzare i propri progetti a stampa 3D e utilizzarli. Lo statuto della Fab Foundation insiste sull'impegno dell'organizzazione per il libero accesso e l'apprendimento paritario. I laboratori sono attrezzati con vari tipi di apparecchiature per una produzione flessibile, tra i quali macchine per il taglio laser, router, stampanti 3D, mini-mill e i relativi software open source. Oggi esistono più di 70 Fab Lab.
L'idea, spiega il fondatore del progetto, è quella di fornire gli strumenti e il materiale con cui chiunque possa costruire qualsiasi cosa possa immaginare. Grazie a esso, l'innovazione esce dai laboratori d'élite delle università di fama mondiale e delle multinazionali e si diffonde nelle varie regioni e comunità, dove diventa ricerca collaborativa, vitale espressione operativa del potere laterale paritario. I Fab Lab sono i nuovi arsenali high-tech, in cui gli hacker DIY (do it yourself) si stanno fabbricando le armi con cui eclissare l'ordine economico esistente.
Per rendere effettivamente la stampa 3D un processo locale e autosufficiente è necessario che la materia prima utilizzata per creare i filamenti sia abbondante e localmente disponibile. Sono vari i progetti di ricerca che vanno in questa direzione.
La Staples, ditta di forniture per ufficio, ha lanciato una stampante 3D che utilizza carta economica secondo un processo denominato "laminazione a deposizione selettiva" e che produce oggetti solidi a colori di consistenza pari a quella del legno; viene usata per la produzione di oggetti artigianali, modelli architettonici e persino chirurgici per la ricostruzione facciale. Il costo della carta caricata è il 5% di quello delle materie prime fino ad ora utilizzate.
Un altro esempio rappresentativo è quello di Filabot, un nuovissimo dispositivo, grande quanto una scatola da scarpe, che macina e fonde vecchi articoli casalinghi in plastica (cestini, DVD, bottiglie, tubi idraulici, occhiali da sole, bottiglie per il latte, ecc.), che viene poi immessa da una tramoggia in un contenitore dove viene fusa mediante una resistenza. Il materiale fuso viene convogliato da appositi ugelli su rulli di dimensionamento che ne ricavano filamenti plastici, i quali a loro volta vengono avvolti su una bobina per stampa 3D. Un Filabot assemblato costa 649$.
La stampa 3D interessa anche il settore edilizio. Sebbene la tecnologia sia ancora in fase di ricerca e sviluppo, sono numerosi gli studi e le sperimentazioni in questo campo.
Presso l'Università della California è in corso un progetto che sperimenta il contour crafting, la costruzione per contorni, pensato per stampare edifici attraverso una fibra di cemento composita e modellabile che può essere estrusa e che risulta abbastanza resistente da consentire ad un muro stampato di non cadere durante la fase di costruzione. Il promotore del progetto sostiene che un esemplare di queste gigantesche stampanti costerà qualche centinaio di migliaia di dollari. Una nuova casa potrebbe allora essere stampata a costi di gran lunga inferiori a quelli dell'edilizia standard, sia per il costo contenuto dei materiali compositi usati sia per la natura additiva del processo di produzione digitalizzata, che utilizza molto meno materiale e molta meno manodopera.
Quello dell'Università della California non è un caso isolato. Il centro ricerche del MIT sta usando la stampa 3D per arrivare a realizzare la struttura di una casa in una sola giornata praticamente senza l'impiego di manodopera, e l'Agenzia Spaziale europea sta lavorando alla verifica di impiegare la stampa 3D per costruire una base permanente sulla Luna.
La stampa 3D è stata utilizzata anche per stampare automobili. La Urbee, una biposto ibrida elettrica pensata per funzionare con l'energia solare ed eolica, è già stata testata sul campo. La sua carrozzeria è stata realizzata in soli dieci pezzi e senza alcun scarto di materiale.
Il Movimento dei maker che ha portato allo sviluppo e alla diffusione della stampa 3D si è ispirato a quattro principi:
1 - la condivisione open source delle nuove invenzioni;
2 - la promozione di una cultura dell'apprendimento collaborativo;
3 - la tensione all'autosufficienza comunitaria;
4 - l'impegno a seguire prassi di produzione sostenibili.
Ma più in profondità sta cominciando a delinearsi un programma ancora più radicale, sebbene ancora inattuato e in larga misura inconsapevole. In tutto il mondo si sta espandendo la cultura del Do It Yourself, sull'onda dell'idea di usare i bit per organizzare gli atomi, e i suoi protagonisti si dedicano con passione alla creazione di software originali per stampare e condividere oggetti.
"L'aspetto veramente rivoluzionario della stampa 3D, quello che la promuoverà da subcultura hobbista a nuovo paradigma economico, è il delinearsi di un' infrastruttura per maker. Questo sviluppo diffonderà nuove prassi imprenditoriali, che in virtù della loro efficienza e della loro produttività porteranno la produzione e la distribuzione di beni e servizi a costi marginali quasi nulli, propiziando la nostra uscita dall'era capitalistica e il nostro ingresso nell'era collaborativa."
"La stampa 3D è un esempio di produttività estrema: con la democratizzazione della produzione, alla fine chiunque potrà accedere ai mezzi di produzione, e quindi la questione di chi debba possedere e controllare i mezzi di produzione diventerà inutile, così come il capitalismo".
Rispetto all'utilizzo e alla diffusione delle stampanti 3D Rifkin mostra una sorta di esaltazione della piccola produzione, della produzione locale, della delocalizzazione. Questi dispositivi possono essere effettivamente utili in alcuni casi, magari per costruire protesi personalizzate o comunque oggetti che non possono essere ripetuti in serie, ma in altri casi non possono essere utilizzate perché esistono prodotti che sono il risultato di processi produttivi molto complessi e per cui conviene, per avere un costo marginale molto basso, centralizzare al massimo la produzione.
Rifkin mantiene invece una visione proudhoniana della produzione nella società futura. Ma il passaggio dal regno della necessità a quello della libertà non significa un ritorno a piccole comunità, seppur tra loro collegate, basate sull'autonomia e l'autosostentamento, ma un piano complessivo di specie attraverso cui tutte le questioni legate alla produzione energetica, all'ambiente e alla dissipazione delle risorse possono essere affrontate e anche risolte con le tecnologie che abbiamo già oggi a disposizione.
Rimane comunque interessante lo sviluppo della stampa 3D e della possibilità che i dispositivi funzionino con materie prime diverse in relazione a quanto ha sempre detto la nostra corrente sui mezzi di produzione: sono questi ultimi a doversi spostare verso gli uomini e non viceversa (migrazioni, punto di Forlì).
I MOOC e l'istruzione a costo marginale zero
Con l'avvento del Commons collaborativo anche il processo educativo sta subendo una grande trasformazione. La pedagogia dell'apprendimento sta andando incontro ad una revisione radicale così come il modo in cui l'istruzione è offerta e finanziata. Nel breve arco degli ultimi due/tre anni il fenomeno dei costi marginali quasi zero, e cioè la possibilità di accesso a vari servizi quasi gratuitamente è penetrato in profondità nel tessuto dell'istruzione superiore grazie ai programmi d'insegnamento online: si tratta dei massive open online course, i cosiddetti MOOC.
Il capitalismo è perciò sotto attacco anche su questo versante. Scrive Rifkin:
"L'idea dell'apprendimento come esperienza autonoma e privata e della conoscenza come un'acquisizione da considerare una forma di proprietà esclusiva è perfettamente in linea con il contesto capitalistico, dove il comportamento umano è concepito in termini analoghi. Nell'era collaborativa, l'apprendimento è considerato come un processo di crowdsourcing e la conoscenza viene trattata come un bene condiviso pubblicamente, a disposizione di tutti, in linea con la concezione che riconosce al comportamento umano un carattere profondamente sociale e naturalmente interattivo."
La grande trasformazione è cominciata nel 2011 con la messa online del primo MOOC. In quell'anno un professore della Stanford University ha offerto online un corso "libero" sull'intelligenza artificiale, un ciclo di lezioni del tutto simile a quello che teneva nelle aule dell'università. Alla data di inizio gli studenti iscritti erano 160.000 collegati da tutto il mondo e 23.000 avrebbero seguito il corso fino alla fine. Visto il successo, l'esperimento si è trasformato in un'università online di nome Udacity e dal quel momento si è scatenata la corsa alla formazione online.
Poco tempo dopo è nato un sito concorrente, quello dell'università commerciale online Coursera che ha sviluppato un altro tipo di approccio alla formazione online. Mentre Udacity organizza i propri corsi, Coursera riunisce alcune delle più importanti istituzioni accademiche in un consorzio collaborativo che offre un ricco programma di studi affidato ad alcuni dei migliori docenti universitari del mondo. Ad oggi conta oltre 100 università. Sulla scia di Coursera è nato anche edX, un consorzio no-profit costituito da Harvard e MIT che coinvolge 30 università.
Il modello più o meno seguito da tutti è basato su tre pilastri:
1 – il corso è formato da segmenti video della durata di 5-10 minuti presentati dal docente e accompagnata da vari espedienti grafici o visivi, che gli studenti possono mettere in pausa e rivedere quante volte vogliono, vengono inoltre forniti materiali propedeutici e facoltativi per chi volesse approfondire;
2 – la pratica e la padronanza dell'argomento sono incentivate da un set di domande al termine di ogni video con la valutazione automatica e qualora fosse necessario un controllo "umano", il test viene corretto dagli altri corsisti;
3 – la formazione di gruppi di studio virtuali al di là delle frontiere geografiche che favoriscono l'autoapprendimento e la nascita della classe globale.
Nel febbraio 2013 Coursera contava circa 2 milioni 700.000 studenti, sparsi in 196 paesi, mentre il primo corso edX, tenutosi nel 2012, ha registrato 155.000 iscrizioni.
Ma in che modo le università online coprono i costi fissi dei MOOC?
Le università che partecipano al progetto di Coursera versano all'organizzazione circa 8 dollari a studente per l'utilizzo della piattaforma e chiedono a ogni studente un contributo compreso tra i 30 e i 60 dollari a corso, poco o nulla rispetto all'iscrizione all'università. Ma il fatto interessante è che, se non si è interessati ad avere una certificazione della frequenza, è possibile seguire i corsi gratuitamente, partecipando alle prove d'esame e al lavoro di gruppo.
Le università di livello internazionale stanno scommettendo sull'idea che la portata globale dei MOOC e la visibilità che essi procureranno finiranno per richiamare agli uffici iscrizione delle loro facoltà di punta gli studenti più brillanti. Come i loro equivalenti nel mondo del commercio, esse sperano di ottenere profittevoli ritorni grazie al fenomeno della «coda lunga», cioè offrire corsi gratuiti online a milioni di studenti per attirarne anche solo una piccola percentuale nei loro campus.
"Con questo non si vuol dire che i college e le università tradizionali scompariranno, ma solo che la loro missione cambierà in modo radicale e il loro ruolo, con il dilagare dei MOOC, diminuirà d'importanza. Oggi gli amministratori e i docenti delle università continuano a illudersi che i corsi online aperti a tutto il mondo attireranno gli studenti verso il redditizio sistema di istruzione convenzionale. Non si sono ancora resi pienamente conto che il progressivo azzerarsi dei costi marginali di istruzione nel Commons virtuale globale che essi stessi stanno creando andrà imponendosi come nuovo paradigma dell'insegnamento superiore e che la formazione in strutture tradizionali finirà per giocare un ruolo sempre più circoscritto, meramente complementare."
L'ultimo lavoratore
La stessa tecnologia informatica, il settore IT, che grazie a Internet sta spingendo le comunicazioni, l'energia, la produzione manifatturiera e l'istruzione superiore verso il libero, o quasi, accesso, va nella stessa direzione con il lavoro dell'uomo. Del tema ne abbiamo parlato spesso nelle nostre teleriunioni e oggi è ormai al centro dei dibattiti sulla stampa mainstream. L'espressione "disoccupazione tecnologica" coniata da Keynes nel suo breve saggio Prospettive economiche per i nostri nipoti della fine degli anni 30 del ‘900 è ai nostri giorni una realtà conosciuta.
Nel capitolo dedicato a questo aspetto della fine del capitalismo, Rifkin riprende brevemente quanto scritto nel 1995 ne La fine del lavoro, dimostrando che la sostituzione dell'uomo ad opera dei progressi dell'automazione ha coinvolto o coinvolgerà non solo i settori per cui era facile prevedere un tale esito, come la manifattura, la logistica o la siderurgia, ma anche quelli che erano ritenuti in qualche modo esclusi da tale trasformazione, ad esempio il settore tessile o cognitivo.
Gli esempi sono ormai numerosissimi:
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dal progetto di Foxconn per l'introduzione nel proprio stabilimento cinese di 1 milione di robot, agli stabilimenti elettronici della Philips, nei Paesi Bassi, dove 128 bracci robotizzati producono ad un ritmo talmente esasperato che si è reso necessario inserirli in teche di vetro affinché non ferissero i pochi addetti al controllo;
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da Amazon, nel settore della logistica, che sta cominciando a servirsi di veicoli intelligenti a guida automatizzata, robot e sistemi di stoccaggio automatizzati fino ai veicoli senza conducente, a Walmart, nel settore della distribuzione, per esempio con l'implementazione di casse automatiche o di servizi per il pagamento della spesa tramite smartphone.
L'utilizzo dei big data - e anche di questo abbiamo parlato nelle riunioni sulla serie Lezioni di Futuro del Sole24Ore – insieme ad algoritmi sempre più sofisticati e ai progressi sul fronte dell'Intelligenza Artificiale sono arrivati a scardinare i meccanismi di produzione anche di settori considerati immuni alla dilagante automazione come quello della conoscenza. Spesso abbiamo parlato di programmi capaci di redarre resoconti sportivi e articoli di cronaca, ma possiamo prendere ad esempio anche eDiscovery, un tipo di software in grado di setacciare milioni di documenti legali alla ricerca di schemi di comportamento, linee di pensiero, concetti, ecc., ovviamente ad una velocità e con una precisione d'analisi inarrivabile anche al più preparato dei giuristi. Insomma, anche gli avvocati sono a rischio estinzione.
Un altro esempio interessante è il computer IBM Watson, che monta un sistema cognitivo in grado di integrare «l'elaborazione del linguaggio naturale, l'apprendimento automatico e la generazione e la valutazione di ipotesi». La IBM Healthcare Analytics lo userà per aiutare i medici a effettuare diagnosi rapide e accurate analizzando big data memorizzati nelle cartelle cliniche elettroniche di milioni di pazienti, così come nelle riviste mediche.
Tutte queste attività, iniziative, progetti basate sulla condivisione e la collaborazione, e organizzate intorno a commons, cioè beni comuni, stanno cambiando profondamente la nostra società nel senso che i valori le norme e i cambiamenti peculiari del capitalismo stanno diventando obsoleti e sono sostituiti da altri che sono in netta contrapposizione. La proprietà lascia spazio alla condivisione, la concorrenza alla collaborazione, la gerarchia alla relazione tra pari, il mercato alle reti, e, grazie al costo marginale zero, la scarsità all'abbondanza. Una delle manifestazioni più evidenti di questa trasformazione in atto, che Rifkin definisce "culturale", è rappresentata dal movimento per il software libero.
Il movimento per il free software e movimenti
Il Movimento per il software libero nasce con la rivoluzione informatica. Uno dei suoi rappresentanti più conosciuti è il fondatore Richard Stallmann. Convinto che il codice dei software sarebbe diventato la lingua usata per la comunicazione tra le persone e tra persone e cose, e che quindi la privatizzazione dei nuovi mezzi di comunicazione fosse immorale, negli anni '80 Stallmann chiama a raccolta i migliori programmatori in circolazione e crea il sistema operativo GNU, basato su software libero e concepito per essere utilizzato e modificato da chiunque. Successivamente, nel 1985, fonda la Free Software Foundation enunciando le quattro libertà che ne costituivano il fondamento:
- la libertà di utilizzare il programma, per qualsiasi scopo;
- la libertà di studiarne il funzionamento e di modificarlo secondo le proprie esigenze;
- la libertà di redistribuire copie del programma in modo da aiutare il prossimo;
- la libertà di distribuire ad altri copie delle proprie versioni modificate.
Stallman mise a punto un sistema di licenze software gratuite che battezzò GNU General Public License (GNU GPL). Le licenze, cui diede il nomignolo di «copyleft», erano concepite come una forma alternativa di copyright attraverso cui l'autore riconosce «a ogni persona che riceve una copia di un lavoro il permesso di riprodurla, adattarla o distribuirla in ulteriori copie, a condizione che tutte le copie e gli adattamenti derivati siano soggetti a questo stesso tipo di licenza».
Grazie alla GPL prende forma un Commons per la libera condivisione del software.
Appena sei anni dopo, un giovane studente dell'Università di Helsinki, Linus Torvalds, progetta un software kernel gratuito per sistemi operativi Unix-like destinato a personal computer (PC), compatibile con il progetto GNU di Stallman e distribuito con licenza GPL della Free Software Foundation, aprendo a migliaia di prosumers sparsi in tutto il mondo la possibilità di collaborare liberamente via Internet al miglioramento del codice software.
Ma GNU/Linux dimostrava qualcosa di ancora più importante: collaborando alla creazione di software libero in un Commons globale era possibile raggiungere risultati migliori che sviluppando software di proprietà esclusiva nel contesto del mercato capitalistico. (Wikipedia)
Lo sviluppo del kernel Linux dimostrava che grazie a Internet era possibile aggregare gruppi di programmatori molto più ampi di quanto qualsiasi produttore commerciale potesse permettersi, persone confluite in un corpo pressoché privo di gerarchie per sviluppare un progetto destinato a produrre oltre un milione di stringhe di codice sorgente: una collaborazione tra volontari non pagati e geograficamente disseminati di proporzioni fino allora neppure immaginabili nella storia dell'umanità.
Quello che era iniziato come un esercizio per pochi appassionati si è poi trasformato in un movimento sociale grazie alla diffusione di Internet. D'un tratto milioni di persone connesse in un'unica rete potevano dedicarsi alla creazione di nuovi spazi virtuali in cui socializzare. Con l'affermarsi dei social media l'attenzione si è trasferita dal codice alla conversazione e Internet è diventata la piazza virtuale del globo, il luogo di incontro in cui condividere file musicali, video, fotografie, notizie.
Il movimento per il software libero si è trovato improvvisamente inscritto in un movimento assai più ampio. Si stava facendo strada la concezione di Internet come un luogo in cui le persone creano capitale sociale anziché capitale commerciale. La democratizzazione globale della cultura è resa possibile da un mezzo di comunicazione, Internet, che risponde a una logica di collaborazione, di distribuzione, di espansione a scala laterale. Tale logica operativa favorisce l'autogestione democratica in forma di Commons aperto.
Nella società, dice Rifkin, possiamo osservare una tendenza generale, che probabilmente ha preso le mosse dal movimento hacker, per la difesa e la riappropriazione dei beni comuni, e contro l'accaparramento capitalista.
L'ondata di manifestazioni pubbliche spontanee prodottasi negli ultimi quindici anni, dimostrazioni di massa scoppiate apparentemente dal nulla in tutti i continenti rovesciando governi e innescando rivolgimenti sociali, vertono sulle questioni sociali più disparate, ma c'è un tratto che le accomuna: piuttosto che manifestazioni orchestrate sono moti spontanei, perlopiù senza leader, caratterizzati da un'essenziale informalità e da un sostanziale spirito di interconnessione. I partecipanti si radunano nelle piazze centrali delle grandi città e vi si accampano: là sfidano i poteri forti e danno vita a una comunità alternativa che esprime il proprio entusiasmo per il Commons sociale.
"I vari movimenti hanno obiettivi diversi, ma sono accomunati da un'identica istanza simbolica: la determinazione a reclamare la pubblica piazza, e così facendo a riaprire i molti altri Commons che sono stati espropriati, mercificati, politicizzati e sequestrati in nome degli interessi particolari di una minoranza privilegiata. La gioventù alienata di piazza Tahrir durante la Primavera araba, gli occupanti di Wall Street, i manifestanti di Gezi Park, a Istanbul, il furioso sottoproletariato sceso nelle strade di San Paolo, in Brasile, sono la prima linea di un fenomeno culturale in evoluzione, il cui obiettivo di fondo è contrastare l'appropriazione privatistica dei beni collettivi in tutte le sue forme, per instaurare una cultura della trasparenza, antigerarchica e collaborativa."
Il passaggio dal possesso all'accesso e la sharing economy
Di Sharing economy ne abbiamo parlato spesso ma comunque può essere utile elencare alcuni degli elementi già attivi nella società a dimostrazione che i valori fondanti del capitalismo quali la proprietà privata e quindi l'esclusione dell'altro stanno perdendo terreno rispetto all'avanzata di un'economia basata sulla condivisione e sulla collaborazione generando nuovi valori.
Airbnb, couchsurfing, bike sharing, car sharing, carpooling, siti per il prestito di giocattoli, oggetti riciclati, capi di vestiario usati, …
Quando l'attività economica produttiva di una società si avvicina a costi marginali zero, la teoria economica classica e neoclassica non ha più nulla da dire. Se i costi marginali rasentano l'azzeramento, il profitto viene meno, perché il mercato non può più fare il prezzo di beni e servizi, essendo diventati pressoché gratuiti. Se la maggior parte delle cose diventano quasi gratuite, la logica operativa che fa del capitalismo un sistema per produrre e distribuire beni e servizi perde ogni significato. Ciò accade perché la dinamica del sistema capitalistico trae alimento dalla scarsità. Risorse, beni e servizi scarsi hanno un valore di scambio e possono acquisire sul mercato un prezzo superiore al loro costo di produzione. Ma se il costo marginale di produzione di quei beni e di quei servizi scende quasi a zero, il loro prezzo si approssima alla soglia della gratuità e il sistema capitalistico perde la possibilità di fare leva sulla scarsità e la capacità di approfittare della dipendenza altrui. Si opera così un duplice affrancamento, quello dai prezzi, la gratuità, e quello dalla scarsità. Quando il costo marginale per produrre ogni unità aggiuntiva di un bene o di un servizio si avvicina allo zero, è segno che alla scarsità è subentrata l'abbondanza. Lo scambio di valore perde allora senso, perché chiunque può procurarsi da sé gran parte di quanto gli serve senza doverlo pagare. I prodotti e i servizi hanno un valore d'utilizzo e di condivisione, ma cessano di avere un valore di scambio.
"L'idea di organizzare la vita economica intorno all'abbondanza e al valore d'utilizzo e di condivisione anziché intorno alla scarsità e al valore di scambio è talmente lontana dal nostro modo di concepire la teoria e la prassi economica da risultarci quasi inconcepibile. Ma proprio questo è lo stato di cose che sta iniziando a prendere piede in ampi settori dell'economia, là dove le nuove tecnologie rendono possibili livelli di efficienza e produttività che annullano i costi di produzione delle unità e dei servizi aggiuntivi, cioè di tutto ciò che non è investimento iniziale o spesa generale."
Chi è Paul Mason
Nel caso di Paul Mason e del suo libro Postcapitalismo i temi affrontati da Rifkin tornano tutti, anche se da un punto di vista più pratico, diciamo pure movimentista-attivista e non quindi di tipo accademico.
Paul Mason è un giornalista televisivo britannico che si è occupato di economia presso la BBC e Channel4. Dall'inizio dell'anno è consulente, insieme all'ex ministro greco dell'economia Varoufakis, dell'entourage del partito laburista di Corbyn. Se per Rifkin il fatto importante era che il personaggio è di per sé importante, nel caso dello "sconosciuto" Mason è da segnalare che il suo libro è stato tradotto in 11 lingue raggiungendo un pubblico che va ben oltre l'isola di Albione. Il titolo completo del libro è Postcapitalismo. Una guida per il nostro futuro, ed è stato pubblicato nel 2015.
Post capitalismo
Anche Mason sostiene che il capitalismo è arrivato al tramonto, anzi che siamo già in una fase di transizione verso un nuovo tipo di società. La crisi del 2008 non ha solo portato alla fine del modello neoliberista e ad una crisi di ordine globale, ma rappresenta una sfasatura di più lungo termine tra i sistemi di mercato e un'economia basata sull'informazione. Con lo sviluppo delle tecnologie degli ultimi vent'anni, che sono radicalmente diverse rispetto alle innovazioni che ha prodotto nel corso del suo sviluppo il modo di produzione attuale, l'umanità è entrata nell'infocapitalismo, il quale però non funziona ed è anzi già possibile scorgere all'interno di esso le forme essenziali di un'economia postcapitalista. Qualcosa di più dinamico sta prendendo forma all'interno del vecchio sistema e anche se per ora passa inosservato, finirà per aprire una breccia ricostruendo l'economia intorno a nuovi valori e nuovi comportamenti.
Il capitalismo è un sistema complesso che va al di là delle persone, delle multinazionali e delle superpotenze ed ha sempre mostrato una capacità di adattamento che gli ha permesso di uscire dalle varie crisi che ha attraversato. Ma oggi qualcosa si è inceppato. Questa capacità di adattamento si è esaurita poiché il capitalismo ha dato vita ad innovazioni tecnologiche che non sono con esso compatibili, che non funzionano da volano come accaduto nel passato ma hanno invece fatto emergere spontaneamente manifestazioni concrete del futuro modo di produzione. L'informatica, e tutto ciò che comporta, come lo sviluppo dell'internet delle cose, il world wide web, l'automazione, un'umanità interconnessa in rete, ecc., è una macchina che spinge al ribasso il prezzo dei beni e dei servizi e riduce drasticamente il tempo di lavoro necessario per mandare avanti la vita sul pianeta.
Grazie allo sviluppo informatico e allo sviluppo della rete siamo circondati da un nuovo strato della realtà basato sull'informazione. Un esempio utile può essere quello di un aereo di linea che è stato progettato, provato e costruito virtualmente milioni di volte tramite software, vola grazie ad un computer e fornisce in tempo reale informazioni ai suoi costruttori. E' una macchina intelligente e allo stesso tempo il nodo di una rete; ha un contenuto informativo e aggiunge valore informativo, oltre che fisico, al mondo.
Il grande processo tecnologico del XXI secolo non è solo fatto di nuovi oggetti e processi, ma anche di vecchi oggetti e processi diventati intelligenti.
I tre effetti già osservabili provocati dalle nuove tecnologie sono:
- la riduzione della necessità del lavoro attraverso l'automazione con una conseguente compenetrazione tra tempo di lavoro e tempo di vita e quindi una modifica profonda del rapporto tra salario e lavoro;
- la creazione di beni di informazione che corrompono il meccanismo della formazione dei prezzi sul mercato contrapponendo l'abbondanza alla scarsità;
- l'ascesa di una produzione collaborativa libera dai dettami del mercato della gerarchia manageriale.
Questi tre fattori hanno già determinato oggi, nell'infocapitalismo, la nascita una nuova sottocultura imprenditoriale che è basata sulla condivisione: la sharing economy, fondata su beni comuni (commons) e produzione paritaria (p2p production).
L'esempio più significativo della diffusione di beni, servizi e organizzazioni che non rispondono più ai principi del capitalismo è Wikipedia. Fondata nel 2001, l'enciclopedia collaborativa ha 208 dipendenti e migliaia di persone che scrivono e modificano le voci dell'enciclopedia gratuitamente.
Con 8,5 miliardi di pagine visualizzate ogni mese, il sito di Wikipedia si gioca la posizione di sesto sito più popolare del mondo con Amazon. Secondo una stima, se fosse gestito come un sito commerciale, Wikipedia potrebbe realizzare ricavi per 2,8 miliardi di dollari all'anno.
Ma Wikipedia non fa profitti. E in questo modo rende quasi impossibile per chiunque altro fare profitti nello stesso settore.
L'insegnamento economico che si può trarre da un fenomeno come Wikipedia è che la rete rende possibile organizzare la produzione in modo decentralizzato e collaborativo, senza ricorrere né al mercato né alla gerarchia manageriale.
Il meccanismo di difesa messo in atto dal capitalismo è la formazione di monopoli su una scala che non ha precedenti. È il solo modo in cui un'industria può funzionare nell'infocapitalismo. I marchi simbolo dell'info-tech hanno bisogno del predominio totale: Google deve essere l'unico motore di ricerca; Facebook l'unico luogo in cui costruire la propria identità online; Twitter l'unico in cui diffondere le proprie opinioni; iTunes il negozio di musica online di riferimento.
Fino all'avvento dei beni d'informazione condivisibili, la legge fondamentale dell'economia era che tutto è scarso. I concetti di domanda e offerta presuppongono la scarsità. Oggi esistono beni che non sono scarsi, bensì sovrabbondanti, tanto che domanda e offerta diventano irrilevanti e la missione dei monopoli diventa perciò impedire il libero accesso all'abbondanza. La missione della Apple, propriamente parlando, è impedire l'abbondanza di musica.
L'utilizzo massiccio di internet da parte di milioni di persone genera una mole massiccia di informazione che aziende come Amazon, Facebook, Google, ecc. si accaparrano per trarne profitto. Amazon, per esempio, funziona offrendo suggerimenti per gli acquisti basati sulle scelte precedenti, oppure nei supermercati: aggregando i dati dei loro clienti e impedendo che tutti gli altri li utilizzino, le grandi catene di supermercati ricavano un vantaggio commerciale enorme.
Nell'infocapitalismo la cattura e il monopolio delle esternalità portano ad un sottoutilizzo dell'informazione. In una società non di mercato tutte queste informazioni potrebbero essere utilizzate pienamente per l'organizzazione della vita di specie. Se un'economia di mercato con proprietà intellettuale porta a sottoutilizzare l'informazione, allora un'economia basata sul pieno utilizzo dell'informazione è incompatibile con il mercato o con diritti assoluti di proprietà intellettuale. Questa contraddizione sta emergendo con sempre maggior forza nel e contro il capitalismo. Per esempio, l'esternalità di Wikipedia è l'accesso libero alla conoscenza, non un vantaggio di mercato.
Un bene d'informazione è diverso da qualsiasi altra merce finora prodotta. E un'economia basata principalmente sui beni d'informazione si comporterà in modo diverso da una basata sulla fabbricazione di oggetti e la fornitura di servizi perché quando è possibile copiare-incollare qualcosa, si può riprodurlo gratis. In gergo economico, ha «costo marginale zero».
Le tecnologie informatiche, insomma, distruggono il normale meccanismo dei prezzi, mentre la concorrenza spinge i prezzi al ribasso, avvicinandoli al costo di produzione.
Riprendendo un'affermazione di Kevin Kelly, Mason pone l'accento sulla trasformazione messa in atto dalle nuove tecnologie ma ci tiene a precisare che la macchina intelligente non è il computer ma la Rete e cioè la connessione tra le cose e le persone, attraverso cui è emersa una nuova economia impostata su dinamiche differenti rispetto a quelle del mercato.
Prima di tutto attraverso l'open source di cui abbiamo già parlato. Il successo riscontrato dall'open source ha dimostrato che nuove forme di proprietà e gestione diventano non solo possibili, ma imperative in un'economia ricca di informazione. Dimostra che ci sono cose, nei beni d'informazione, che nemmeno i monopoli riescono a monopolizzare. Un programma open source può essere utilizzato da tutti ma nessuno può rivendicarne la proprietà privata. Questo tipo di logica ha finito per erodere spazi di mercato. Prendiamo Google. Google è un'impresa capitalista a tutti gli effetti, ma nel perseguire il proprio interesse è costretta a battersi affinché alcuni standard siano aperti e alcuni software siano liberi. Google non è postcapitalista, ma finché manterrà open source Android sarà costretta ad agire in un modo che prefigura forme di proprietà e di scambio non capitalistiche, anche se, come emerge dalle indagini dell'Unione Europea, usa questa posizione per ritagliarsi un ruolo dominante.
L'ascesa della potenza di calcolo fisica a basso costo e delle reti di comunicazione ha messo i mezzi di produzione dei beni intellettuali nelle mani di tante persone. Tutto questo ha portato all'affermazione di meccanismi non di mercato: un'azione decentralizzata di individui che opera attraverso forme di organizzazione collaborative e volontarie e produce nuove forme di economia «tra pari» (peer-to-peer), nell'ambito delle quali il denaro è assente o non rappresenta la misura principale del valore.
L'economia di rete è emersa, ed è diventata sociale. Nel 1997, appena il 2 per cento della popolazione mondiale aveva accesso a Internet: ora siamo al 38 per cento, e nei paesi sviluppati al 75.
Nello spazio di un decennio, la rete ha pervaso le nostre esistenze. Oggi siamo implicitamente consapevoli che la rete è la macchina.
Nella transizione dall'infocapitalismo al postcapitalismo il protagonista di questa grande trasformazione, ci dice Mason, non sarà più la classe operaia così come l'abbiamo immaginata nel Novecento. Il sistema di mercato non verrà distrutto dall'alto ma prenderà le mosse da qualcosa di più dinamico che inizialmente prenderà forma all'interno del vecchio sistema e che finirà per ricostruire un'economia intorno a nuovi valori e comportamenti. Dal 2008 in avanti abbiamo infatti assistito ad un nuovo tipo di rivolte che ha dimostrato che in una società altamente complessa e basata sull'informazione la rivoluzione avrà caratteristiche molto diverse da quelle del XX secolo.
Si tratta di un movimento molto più ampio che coinvolge l'intera società, il 99% contro l'1%. Oggi la fabbrica è l'intera società e la Rete, così come ogni grande officina o manifattura di duecento anni fa, è una sorta di società politica che nessun parlamento può far tacere e nessun magistrato sciogliere. Certo, in tempi di crisi gli stati possono chiudere Facebook, Twitter e perfino internet o l'intera rete mobile. Ma non a lungo perché paralizzerebbero l'economia. Sarebbe come, citando il sociologo Manuel Castells, de-elettrificare un paese.
Mettendo milioni di persone in rete, economicamente sfruttate ma con l'interna intelligenza umana a portata di dito, l'infocapitalismo ha creato un nuovo agente del cambiamento della storia: l'essere umano istruito e connesso (La transizione dall'infocapitalismo al postcapitalismo è già in corso ma non possiamo aspettare che si dispieghi spontaneamente perché incombono su di noi due serie minacce: il surriscaldamento globale e il boom demografico, oltre ad un futuro certo di caos economico).
Mason quindi termina un libro con una proposta operativa, un progetto concreto (Project Zero) per accelerare il passaggio alla nuova società. La base ideologica a cui si richiama è quella del riformismo rivoluzionario e l'obiettivo è quello di ampliare le tecnologie, i modelli di impresa e i comportamento in grado di "sciogliere" le forze di mercato, socializzare la conoscenza, e utilizzare il potere dello Stato per guidare la società verso la condivisione, la collaborazione, la sharing economy, ma appoggiandosi su dati concreti e programmi sperimentali oggi resi possibili dalle nuove tecnologie come l'internet delle cose e i big data.
E conclude: "Oggi la contraddizione più grande è quella tra la possibilità di beni e informazioni gratuiti e abbondanti da un lato e dall'altro un sistema di monopoli, banche e governi che cercano di mantenerli privati, scarsi e commerciabili. Tutto si riconduce ad uno scontro tra rete e gerarchia: tra le vecchie forme di società modellate intorno al capitalismo e le nuove forme che prefigurano la società del futuro."
Conclusioni
Dai due testi risulta evidente che entrambi gli autori, Mason e Rifkin si trovano in una contraddizione micidiale: entrambi spendono centinaia di pagine per dimostrare quanto sia vicino il futuro, anzi che è già qui, e poi si appellano a soluzioni basate sulle rovine di questa società morente. Chiedono maggiore regolamentazione e un intervento più deciso degli stati contro le privatizzazioni neoliberiste, l'inquinamento del pianeta e lo sfruttamento degli uomini. Se Rifkin pensa che il nuovo modello aziendale del commons collaborativo è rappresentato dalle cooperative dove lo scopo non è il profitto ma il capitale sociale e questo è già visibile oggi, Mason auspica un potere statale forte e giusto scagliato contro il mostro neoliberista.
Ma, lo dicevamo all'inizio, non è questo piano del discorso che ci interessa. E sempre in quest'ottica non è interessante fare una critica dettagliata alle contraddittorie posizioni politiche di Rifkin o alle velleità teoriche di Mason che pensa di aggiustare o aggiornare Marx.
Una critica in questi termini è assolutamente inutile. Rifkin e Mason dimostrano di non aver a disposizione gli strumenti adatti per comprendere a pieno la profonda trasformazione in atto. Quello che piuttosto ci interessa sottolineare è che i processi in corso nella società, delle fortissime spinte materiali, portano i borghesi a delineare chiaramente la spinta di una parte sempre più corposa della società verso il regno della liberta, verso la società dell'abbondanza contro la parte che vuole rimanere nel regno della necessità. Sono costretti a descrivere lo scontro in atto tra modi di produzione e l'impatto che le dinamiche di un capitalismo che nega se stesso ha nella nostra quotidianità.
Oltre all'eclatante fenomeno storico delle "capitolazioni borghesi di fronte al marxismo" possiamo inoltre osservare degli "effetti collaterali" minori, come ad esempio l'adozione da parte di alcuni non-comunisti (e persino borghesi) di termini e nozioni che fanno parte del nostro bagaglio teorico. È un dato di fatto e lo notiamo con giusta soddisfazione nel linguaggio quotidiano dicendo che i nostri avversari sono costretti a scendere sul "nostro" terreno. In realtà è la rivoluzione in corso che obbliga sia noi che i nostri avversari a scendere sul "suo" terreno.
Il Capitale e la sua non-esistenza
Nel Capitale Marx scrive che l'attuale modo di produzione ha dato dimostrazione della propria non esistenza potenziale. La nostra corrente riprende il discorso in Scienza economica marxista in quanto programma rivoluzionario e in Proprietà e capitale affermando la non esistenza del capitalismo (togliendo la parola potenziale) e sviluppando il tema del Capitale senza capitalisti e dei capitalisti senza Capitale.
In Entropia Rifkin sostiene che la società capitalista è entropica e va verso la sua morte termica. Dal punto di vista scientifico è perciò contemplata l'ipotesi della sua scomparsa automatica, altrimenti dovremmo immaginare un capitalismo eterno, ipotesi che invece non è data dal punto di vista dell'entropia.
Riprendendo l'Età dell'accesso, proviamo ad immaginare una società comunistica avanzata in cui l'accesso ad un servizio sia pagato con un canone, e cioè che l'automobile, la lavatrice, la casa, ecc. non vengono più comprate e possedute ma pagate con un canone, rese quindi accessibili. Dal punto di vista dello scontro di modi di produzione, se facciamo l'ipotesi, lecita dal punto di vista logico, di una società che permette a tutti l'accesso a beni che non vengono più posseduti individualmente e materialmente, possiamo vedere l'attuarsi di un'erogazione di forza lavoro in cambio di un servizio, e la scomparsa della merce in quanto tale. Non è più capitalismo.
Ma quello che più dimostra che il capitalismo ha una natura transitoria è il fatto che ha un andamento crescita di tipo sinusoidale, cioè ha una partenza lenta, una crescita esponenziale, un punto di flesso e una curva che va verso un asintoto. Ma l'asintoto per il capitalismo non esiste: se non c'è una dinamica di crescita, il capitalismo non può esistere.
Tutti i discorsi sulla possibilità o meno di rovesciare il capitalismo vanno riferiti al fatto che esso ha una sua caratteristica storica, come del resto tutte le società di classe. Il suo limite non può essere rappresentato neanche dai cosiddetti commons, finché sopravvivrà potrà anche arrivare a farci pagare l'aria che respiriamo. Di fatto però, il giorno in cui pagheremo l'aria, l'acqua, il petrolio, il gas, ecc., secondo un flusso e non secondo una quantità discreta, il capitalismo non esisterà più. Quindi la non esistenza scientifica del capitalismo è dimostrata.
Esistono delle difficoltà di approccio perché siamo abituati a discretizzare, a vedere un pezzettino per volta, ma nella sua dinamica storica il capitalismo è morto. Oggi, non domani.
Se si analizza il decorso storico del capitalismo diventa una fesseria la domanda di chi lo fa cadere. E' chiaro che se oggi i movimenti in atto dal 2011 in poi si sincronizzassero e abbattessero il capitalismo si risparmierebbe del tempo. Quindi il problema non è più se succederà ma quando succederà. E cioè vedere la rivoluzione dal punto di vista dell'insurrezione come acceleratore di storia e non come facitore di storia.
(Traccia svolta durante il 63° incontro redazionale)