Cap. VI - Duplice natura del processo produttivo.
Per poter andare avanti col nostro lavoro, dobbiamo vedere sotto esatta luce l'affermazione appena fatta: ossia che la cooperazione è "soltanto un modo particolare d'esistenza del capitale". Questa affermazione sta ad indicare che nella presente società, l'unione di molti operai - tale da dar vita all' operaio complessivo sociale - aumenta la forza produttiva del lavoro più che nei precedenti modi di produzione, e che questa forza produttiva nuova non va a vantaggio dei bisogni reali dell'umanità, bensì a vantaggio del capitale. Quando si dice che la cooperazione è soltanto un modo particolare d'esistenza del capitale, si afferma che, a differenza dei modi di produzione schiavista e feudale - senza il lavoro associato, senza la cooperazione di molte singole forze-lavoro concentrate in un unico luogo di produzione, il capitale non potrebbe esistere; si afferma che, all'interno dell'attuale modo di produzione, la cooperazione è funzione del capitale; che quest'ultimo allarga e sviluppa la cooperazione in quanto essa permette l'aumento delle forze produttive che possono accelerare, a sua volta, la valorizzazione sempre maggiore del capitale stesso. Ecco, dunque, in che senso la cooperazione è "soltanto un modo particolare d'esistenza del capitale".Anche la nostra macchina per produrre stivali, all'interno del modo di produzione capitalistico, è soltanto un modo particolare d'esistenza del capitale, in quanto intorno ad essa si coagulano dei rapporti sociali che son dati dalla costante insicurezza economica del proletariato salariato sfruttato dal grasso e sfottente borghese sfruttatore. Detto questo, però, dobbiamo subito aggiungere che la macchina per fare stivali non è soltanto un modo particolare d'esistenza del capitale, in quanto, una volta distrutti i rapporti economici e sociali della produzione capitalistica delle merci, essa sarà usata nella società futura, e quindi vedrà coagulati attorno ad essa dei rapporti sociali non più mercantili, ma comunisti.
Questa contraddizione è data dalla duplice natura del processo produttivo stesso il quale, come abbiamo già detto in precedenza, da una parte è processo lavorativo sociale per la fabbricazione di un prodotto, dall'altra parte processo di valorizzazione del capitale.
Il valore stesso di una merce è di duplice natura. In esso non possiamo vedere un unico valore. Il valore di scambio posseduto dalla merce è contemporaneamente accompagnato da un suo valore d'uso. I nostri stivali, prodotti dal ciclo produttivo capitalistico, hanno un valore di scambio quando si presentano nella circolazione e vengono scambiati con equivalente denaro - o una qualsiasi altra merce di equivalente valore - da un qualsiasi acquirente, ma quest'ultimo non li comprerebbe mai se in essi non vedesse un valore di altra natura, che è appunto il valore d'uso, che gli permette di calzarli, cioè di usarli per propria personale utilità.
Dunque, come sarebbe errato riferirsi al duplice valore della merce nei termini di o valore di scambio o valore d'uso, lo stesso si deve dire per il processo di produzione il quale nello stesso momento si presenta nel suo duplice aspetto di processo lavorativo sociale per la fabbricazione di un prodotto e processo di valorizzazione di capitale.
Già dallo studio dei fenomeni naturali nonchè dallo studio dell'evoluzione della specie umana apprendiamo che non vi possono essere linee rigide e nette
"perfino la linea di separazione tra vertebrati e invertebrati non è già più rigida, tanto poco quanto lo è quella fra pesci ed anfibi e quella tra uccelli e rettili scompare ogni giorno di più. Tra compognathus e archaeopteryx mancano ancora solo pochi tipi intermedi, e becchi d'uccello con denti affiorano in entrambi gli emisferi. Il : "o questo, o quello!" diventa sempre più insufficiente. Negli animali il concetto di individuo non si può assolutamente definire in modo netto. Non soltanto non si può dire se un dato animale è un individuo o una colonia, ma neanche dove, nello sviluppo, un individuo termina e l'altro comincia (gravidanza). Ad un tale grado della concezione della natura, in cui tutte le differenze si risolvono l'una nell'altra attraverso gradini intermedi, tutti gli opposti passano l'uno nell'altro attraverso termini intermedi, il vecchio metodo di pensiero metafisico non basta più. La dialettica, che appunto non conosce hard end fast lines (linee rigide e nette), nè incondizionati, definitivi: "o - o!", che fa passare l'una nell'altra le differenziazioni metafisiche rigide, e consocie, quand'è necessario, accanto all'"o - o!" anche il "tanto questo, quanto quello!", è l'unico metodo di pensiero appropriato ad essa nella sua istanza più elevata. Per l'uso quotidiano, per il commercio scientifico al minuto, la categoria metafisica conserva ancora, sì, la sua validità."
Detto questo, appare con maggior chiarezza il fatto seguente: se è vero che la forza produttiva data dalla cooperazione si realizza solamente nel processo produttivo e che, in questo, tale forza cessa di appartenere agli operai, diventando strumento del capitale, ciò non significa che la cooperazione termini di possedere una duplice natura contraddittoria che è data, da una parte ("tanto questo...") dalla valorizzazione del capitale e, dall'altra ("...quanto quello!") dalla negazione dello stesso modo di produzione e di distribuzione del capitale.
Nella società comunista di domani avremo ancora - allargato alla scala mondiale - "un processo produttivo sociale per la fabbricazione di un prodotto", come avremo ancora stivali e macchine per fare stivali; quello che non avremo più sarà un "processo di valorizzazione del capitale" passante attraverso la produzione di stivali e la produzione di macchine per fare stivali.
Comincia già a delinearsi da questo momento come sia il capitalismo stesso a sviluppare il proprio becchino, la propria negazione: quella forza economica che lo distruggerà - passante attraverso l'atto politico rivoluzionario - fino a diventare l'universale forza economica del mondo di domani: il modo di produzione e di distribuzione comunista.
Cap. VII - Divisione del lavoro e manifattura.
"Quella cooperazione che poggia sulla divisione del lavoro si crea la propria figura classica nella manifattura, e predomina come forma caratteristica del processo di produzione capitalistico durante il vero e proprio periodo della manifattura, il quale, così all'ingrosso, va dalla metà del secolo XVI all'ultimo terzo del XVIII. L'origine della manifattura è duplice."
"Da un lato, parte dalla combinazione di mestieri di tipo differente, autonomi, i quali vengono ridotti a dipendenze e unilateralità fino al punto da costituire ormai operazioni parziali reciprocamente integrantesi del processo di produzione di una sola e medesima merce. Dall'altro lato, la manifattura parte dalla cooperazione di artigiani dello stesso tipo, disgrega lo stesso mestiere individuale nelle differenti operazioni particolari, e le isola e le rende indipendenti fino al punto che ciascuna di esse diviene funzione esclusiva di un operaio particolare. Quindi la manifattura, da una parte introduce e sviluppa ulteriormente le divisione del lavoro in un processo di produzione; dall'altra parte combina mestieri prima separati. Ma qualunque ne sia il punto particolare di partenza, la sua figura conclusiva è sempre la stessa: un meccanismo di produzione i cui organi sono uomini."
Se è vero che in ogni tempo ed all'interno di ogni modo di produzione, l'elemento soggettivo interno al suo meccanismo è dato da uomini, ora non troviamo più dei produttori che agiscono individualmente come, ad es., nel caso dell'artigiano, il quale conosceva tutto il ciclo della produzione di un determinato prodotto.
"Se noi ora entriamo più da vicino nei particolari, è evidente in primo luogo, che un operaio il quale esegua per tutta la vita sempre la stessa ed unica operazione semplice, trasforma tutto il proprio corpo nello strumento di quella operazione, automatico ed unilaterale, e che quindi consuma per essa meno tempo dell'artigiano che esegue, avvicendandole, tutta una serie di operazioni. Ma l'operaio complessivo combinato, che costituisce il meccanismo vivente della manifattura, consiste unicamente di tali operai parziali unilaterali. Quindi in confronto con il mestiere artigianale indipendente si produce di più in meno tempo, ossia viene aumentata la forza produttiva del lavoro."
Già da questa situazione possiamo far risalire il concetto di catena di montaggio.
Entra in campo a questo punto la divisione del lavoro. A differenza dell'artigiano che conosceva tutto il ciclo della produzione, l'operaio parziale ne conosce solo una parte. La conoscenza del ciclo di produzione viene spezzata, divisa, articolata in tante parti quanti sono gli operai parziali presenti nel luogo di lavoro. La conoscenza di insieme di tale ciclo è data dall'insieme degli operai parziali, ossia dall'operaio complessivo. La divisione del lavoro fra tanti operai parziali, è contemporaneamente unità del processo di lavoro nell'operaio complessivo.
L'aumentata produttività di questo operaio complessivo è data dal fatto che sempre più si otturano i pori della perdita di tempo che avviene fra una fase e l'altra dello stesso processo produttivo.
"L'artigiano che esegue successivamente i diversi procedimenti parziali nella produzione di un manufatto, è costretto a cambiare ora di posto, ora di strumenti. Il passaggio da un'operazione all'altra interrompe il corso del suo lavoro e forma come dei pori nella sua giornata lavorativa. Questi pori si chiudono appena l'artigiano esegue continuamente per tutta la giornata una sola ed identica operazione, ossia scompaiono man mano che diminuisce la varietà della sua operazione. Qui l'aumentata produttività si deve o al crescere del dispendio di forza-lavoro in un dato periodo di tempo, dunque a crescente intensità del lavoro, oppure ad una diminuzione del consumo improduttivo di forza-lavoro. Infatti l'eccedente nel dispendio di forze richiesto da ogni passaggio dalla quiete al moto trova una compensazione quando la rapidità normale una volta raggiunta presenti una durata più lunga."
Se la manifattura presenta un'aumentata produttività del lavoro rispetto all'artigianato precedente, essa presenta pure dei limiti che dovranno essere superati dalla successiva grande industria.
"Il principio della divisione del lavoro che è peculiare della manifattura, esige un isolamento delle differenti fasi della produzione, che sono rese indipendenti le une dalle altre come altrettanti lavori parziali di tipo artigiano."
Aprendo una piccola parentesi, dobbiamo dire che, in questo caso, per "isolamento delle differenti fasi di produzione", si deve intendere che la produzione è ancora dispersa, ed anche qualora si assista alla concentrazione in un sol luogo questa è affidata al caso che non all'affermarsi ancora del modo di produzione del capitale. E' chiaro l'esempio del Capitale a proposito della produzione di orologi.
"Da opera individuale di un artigiano di Norimberga, l'orologio si è trasformato in un prodotto sociale di un numero stragrande di operai parziali, come quelli addetti al meccanismo grezzo, alla molla, al quadrante, alla spirale, alla foratura delle pietre ed alla lavorazione delle leve a rubino, alle lancette, alla cassa, alle viti, alla doratura, con molte suddivisioni,... (...) Poche parti soltanto dell'orologio passano attraverso mani differenti, e tutte queste membra dejecta si ricompongono solo nella mano che infine le collega in un tutto meccanico. Tale rapporto esterno tra il prodotto finito e i suoi diversi elementi lascia il caso, qui come manufatti analoghi, la combinazione degli operai parziali nella stessa officina. I lavori parziali stessi possono essere compiuti a loro volta come lavorazioni artigiane indipendenti l'una dall'altra, come avviene nel Cantone di Vaud a Neuchatel, mentre per es. a Ginevra esistono grandi manifatture di orologi, cioè ha luogo la cooperazione immediata dei lavori parziali sotto il comando d'un solo capitale."
Chiusa la parentesi, ritorniamo al discorso precedente a proposito dell'isolamento delle diverse fasi della produzione.
Produrre e conservare la connessione tra le funzioni isolate rende necessario un continuo trasporto del manufatto da una mano all'altra e da un processo all'altro. Dal punto di vista della grande industria ciò si presenta come limite caratteristico, costoso ed immanente al principio della manifattura.
"Consideriamo una quantità determinata di materie prime, ad es., di stracci nella manifattura della carta o di filo d'acciaio nella manifattura degli aghi: vediamo che la materia prima percorre nelle mani dei differenti operai parziali, una successione temporale graduale di fasi di produzione, fino alla forma definitiva. Consideriamo invece l'officina come un solo meccanismo complessivo: vediamo che la materia prima si trova simultaneamente in tutte le sue fasi di produzione, tutte in una volta. L'operaio complessivo combinato di operai parziali tira il filo con una parte delle sue molte mani armate di strumenti, mentre con le altre mani e strumenti lo stende, con altre lo taglia, lo appuntisce, ecc.. I diversi processi graduali sono trasformati da una successione temporale in una giustapposizione spaziale. Di qui la fornitura di una maggiore quantità di merce finita nello stesso spazio di tempo."
Se la grande industria deve soppiantare la manifattura, ciò non significa che sparirà l'operaio complessivo, vale a dire la cooperazione dei diversi operai parziali che la caratterizza. Infatti, con la grande industria, la cooperazione sarà portata ad un livello ancora più alto. Ciò potrebbe sembrare, a prima vista, in contraddizione con l'affermazione che
"macchinario specifico del periodo della manifattura rimane l' operaio complessivo stesso, combinato di molti operai parziali."
In tale periodo, infatti, l'uso delle macchine avviene in modo sporadico.
"Il periodo della manifattura, che presto esprime come principio consapevole la diminuzione del tempo di lavoro necessario alla produzione delle merci, sviluppa sporadicamente anche l'uso delle macchine, particolarmente per certi primi processi semplici da eseguirsi in grosso e con grande dispendio di forza. Così, per esempio, nella manifattura della carta la triturazione degli stracci viene ben presto eseguita con pile a cilindro, nella metallurgia la frantumazione dei metalli con le cosiddette Pochmulen (mulino battitore). L'impero romano aveva tramandato la forza elementare di ogni meccanismo con il mulino ad acqua. Il periodo dei maestri artigiani ci ha lasciato in eredità le grandi invenzioni della bussola, della polvere pirica, della tipografia e dell' orologio automatico. Tuttavia, nel complesso, le macchine vi hanno rappresentato quella parte secondaria che Adam Smith assegnava loro accanto alla divisione del lavoro. Importantissimo divenne nel secolo XVII l'uso sporadico delle macchine perchè esse offrirono ai grandi matematici del tempo punti di appoggio pratici ed incitamento alla creazione della meccanica moderna."
Capire correttamente che "macchinario specifico del periodo della manifattura rimane l'operaio complessivo stesso, combinato di molti operai parziali", significa capire,inoltre, che durante il periodo della manifattura, lo strumento di produzione è manipolato dall'operaio, mentre nel periodo successivo - quello della grande industria - è l'insieme degli strumenti semplici della produzione, trasformati ora nella grande macchina ed ancora di più nei grandi impianti industriali odierni, a manipolare l'operaio. A differenza della manifattura, dunque, la grande industria non vede come suo "macchinario specifico" esclusivamente l'operaio complessivo, bensì l'insieme delle grandi macchine al cui interno è legato l'operaio complessivo.
L'operaio complessivo, "macchinario specifico" della manifattura, non scompare dunque con questa; al contrario, egli permane e diventa strumento subordinato degli insiemi di grandi macchine. La sua presenza rimane sempre fondamentale, perchè senza di esso non potrebbe esistere pluslavoro, quindi plusvalore, quindi valorizzazione del capitale. Non bisogna mai dimenticare che, sia durante il periodo della manifattura, sia successivamente fino all'attuale periodo della grande industria, è sempre il lavoro vivo che valorizza, che vivifica il lavoro morto. E tale lavoro vivo si presenta sempre nella forma della cooperazione dei diversi operai parziali, formanti l'unico operaio complessivo.
Cap. VIII - Divisione del lavoro nella manifattura e divisione del lavoro nella società.
"Abbiamo considerato prima l'origine della manifattura; poi i suoi elementi semplici, cioè l'operaio parziale ed il suo strumento; infine il suo meccanismo complessivo. Ora toccheremo in breve il rapporto fra la divisione manifatturiera del lavoro e la divisione sociale del lavoro, la quale costituisce la base generale di ogni produzione di merci."
"Il presupposto materiale della divisione del lavoro nella manifattura è l'esistenza di un certo numero di operai adoperati contemporaneamente; quello della divisione del lavoro nella società è la grandezza della popolazione e la sua densità, che qui prende il posto dell' agglomerazione nella stessa officina. Ma questa densità è qualcosa di relativo. Un paese a popolazione relativamente scarsa, con mezzi di comunicazione sviluppati, ha una popolazione più densa di un paese più popolato con mezzi di comunicazione poco sviluppati; a questo modo gli Stati settentrionali dell'unione americana hanno una popolazione più densa dell'India. Poichè la produzione e la circolazione delle merci sono presupposto generale del modo di produzione capitalistico, la divisione del lavoro di tipo manifatturiero richiede una divisione del lavoro all'interno della società che sia già giunta ad un certo grado di maturazione. Viceversa, la divisione del lavoro di tipo manifatturiero sviluppa e moltiplica, per reazione, la divisione sociale del lavoro. Man mano che gli strumenti di lavoro si differenziano fra di loro, si differenziano sempre più anche gli strumenti che producono i mestieri stessi. Appena la conduzione di tipo manifatturiero si impadronisce di un mestiere che fino a quel momento era connesso ad altri mestieri come mestiere principale o secondario e veniva eseguito dallo stesso produttore, si hanno subito separazione e reciproca indipendenza. Appena la manifattura s'impadronisce di uno stadio particolare di produzione d'una merce, i differenti stadi di produzione di questa merce si trasformano in differenti mestieri indipendenti."
Vediamo dunque come vi sia una continua azione di causa ed effetto fra i due tipi di divisione del lavoro: quella manifatturiera e quella all'interno della società.
Riepilogando: dalla divisione sociale del lavoro (teniamo ben presente che "a fondamento di ogni divisione del lavoro sviluppata e mediata attraverso scambio di merci, è la separazione di città e campagna" ) si sviluppa la manifattura; dalla divisione del lavoro manifatturiera si sviluppano strumenti di produzione che danno vita, a poco a poco, a distinte ed indipendenti nuove branche di produzione manifatturiera, la cui conseguenza è quella di portare ad un livello più elevato la divisione sociale del lavoro.
"L'ampliamento del mercato mondiale ed il sistema coloniale, che fan parte della sfera delle condizioni generali della sua esistenza, forniscono al periodo manifatturiero abbondante materiale per la divisione del lavoro entro la società, ponendo dappertutto le basi di quel perfezionamento delle specializzazioni e di un frazionamento dell'uomo che fece prorompere a suo tempo già A. Ferguson, il maestro di A. Smith, nell'esclamazione: "Noi facciamo una nazione di iloti, e non ci sono uomini liberi fra di noi"."
La continua interdipendenza fra la divisione manifatturiera del lavoro e la divisione sociale del lavoro, porta a chiedere se non vi sia una qualche differenza fra di esse. Vi è indubbiamente, come vedremo, una fondamentale differenza: non tanto quantitativa, quanto qualitativa.
"Nonostante le numerose analogie ed i nessi fra la divisione del lavoro all'interno della società e quella entro un'officina, esse sono non solo differenti per grado, ma anche per natura. L'analogia sembra indiscutibilmente più lampante là dove un vincolo interno fa intrecciare l'una all'altra differenti branche di attività. Per es., l'allevatore di bestiame produce pelli, il conciatore trasforma le pelli in cuoio, il calzolaio trasforma il cuoio in stivali. Qui ciascuno produce un prodotto graduato, e l'ultima forma finita è il prodotto combinato dei loro lavori particolari. Si aggiungono le svariate branche di lavoro che forniscono mezzi di produzione all'allevatore di bestiame, al conciatore, al calzolaio. Ora ci si può immaginare, con Adam Smith, che questa divisione sociale del lavoro si distingua da quella di tipo manifatturiero solo soggettivamente, cioè per l'osservatore, che qua può cogliere con un solo sguardo in un solo luogo i molteplici lavori particolari, mentre là la dispersione di questi su grandi superfici ed il gran numero di persone occupate in ogni ramo particolare oscurano la visione del nesso che li riunisce."
"Nelle manifatture vere e proprie, egli dice, la divisione del lavoro appare maggiore perchè "coloro che sono impiegati in ogni differente branca di lavoro possono spesso essere raccolti nello stesso luogo di lavoro, e abbracciati con un solo sguardo dallo spettatore. Invece in quelle grandi manifatture (!) che sono destinate a soddisfare i grandi bisogni della gran massa della popolazione, in ogni singola branca di lavoro sono occupati tanti operai, che è impossibile raccoglierli tutti nello stesso luogo di lavoro ... la divisione del lavoro non è così ovvia neppure approssimativamente." (A. Smith, Wealth of nations, ...)"
"Ma che cos'è che produce il nesso fra i lavori indipendenti dell'allevatore di bestiame, del conciatore, del calzolaio? L'esistenza dei loro rispettivi prodotti come merci. Ed invece che cos'è che caratterizza la divisione del lavoro di tipo manifatturiero? Che l'operaio parziale non produce nessuna merce. E' solo il prodotto comune degli operai parziali che si trasforma in merce."
Si può anche dire che il rapporto che intercorre fra il borghese proprietario di un'industria di stivali ed il compratore degli stessi è un rapporto mediato dalla legge del valore, dello scambio di equivalenti, vale a dire da stivali contro un suo equivalente in denaro: questo caratterizza gli stivali come merce, ed il rapporto fra i nostri due uomini diventa un rapporto fra compratore e venditore, cioè un rapporto mercantile. Il proprietario di stivali entra in tale rapporto col compratore, non all'interno della produzione, ma all'esterno: nella sfera della circolazione.
Ben diversamente si presenta il problema, prima che gli stivali arrivino alla sfera della circolazione, cioè all'interno del processo di produzione.
La divisione del lavoro all'interno della fabbrica assegna ad ogni operaio parziale la produzione di una parte soltanto dello stivale. Le diverse parti dello stivale si riuniranno poi, alla fine del ciclo produttivo, nello stivale finito. Solo a questo punto lo stivale potrà essere definito una merce, in quanto è arrivato il momento in cui si appresta ad entrare nel mercato ed a porsi di fronte ad un suo qualsiasi equivalente. Prima di questo momento, le sue singole parti sono dei prodotti e non delle merci, contengono un valore d'uso ma non un valore di scambio, ed i rapporti reciproci fra gli uomini - quegli operai parziali che formano le singole membra dell'operaio complessivo - che queste parti di stivale (tacco, suola, tomaia, ecc.) mettono in movimento, non sono dei rapporti mediati dalla legge del valore, dallo scambio di equivalenti; vale a dire: non sono dei rapporti mercantili e capitalistici, bensì sono rapporti che negano il modo di produzione e di distribuzione capitalistico.
Se, all'interno della nostra fabbrica di stivali, ammettessimo, in via puramente ipotetica e per un solo momento, che l'operaio addetto alla produzione dei tacchi pretendesse un equivalente per i "suoi" tacchi, prima di passarli nelle mani dell'altro operaio che ha il compito di incollarli alle suole, vedremmo che la produzione di stivali si bloccherebbe di colpo, a meno che non intervenisse il nostro borghese - o qualche salariato al suo posto - a licenziare in tronco quell'operaio dal comportamento ... troppo borghese.
E' vero che il singolo operaio è posto nel processo di produzione dal capitalista e che fra di essi vi è una compra-vendita (forza-lavoro contro denaro): un rapporto, quindi, economico e sociale mercantile e tipicamente capitalistico. Però, è necessario fare una distinzione temporale e spaziale fra la compra-vendita della forza-lavoro e la messa in opera della stessa forza-lavoro.Lacompra-vendita avviene in un primo momento ed in uno spazio determinato che è la sfera della circolazione o, ricordando quanto detto in precedenza, nella sfera della divisione sociale del lavoro; l'uso, invece, della forza-lavoro avviene in un secondo momento ed in un differente spazio che è dato dalla sfera della produzione, ovvero dalla sfera della divisione manifatturiera del lavoro.
E' un po' "infantile" (si auspica sempre la buona fede!), dunque, sottolineare una verità presente all'interno della circolazione per negare un'altra lampante - e carica di conseguenze - verità presente all'interno della produzione di ogni singola merce.
Cap. IX - Negazione della negazione.
"La concezione materialistica della storia parte dal principio che la produzione e, con la produzione, lo scambio dei suoi prodotti sono la base di ogni ordinamento sociale; che, in ogni società che si presenta nella storia, la distribuzione dei prodotti, e con essa l'articolazione della società in classi o Stati, si modella su ciò che si produce, sul modo come si produce e sul modo come si scambia ciò che si produce. Conseguentemente le cause ultime di ogni mutamento sociale e di ogni rivolgimento politico vanno ricercate non nella testa degli uomini, nella loro crescente conoscenza della verità eterna e dell'eterna giustizia, ma nei mutamenti nel modo di produzione e di scambio; esse vanno ricercate non nella filosofia, ma nell' economia dell'epoca che si considera. Il sorgere della conoscenza che le istituzioni sociali vigenti sono irrazionali ed ingiuste, che la ragione è diventata un non-senso, il beneficio un malanno, è solo un segno del fatto che nei metodi di produzione e nelle forme di scambio si sono inavvertitamente verificati dei mutamenti per i quali non è più adeguato quell'ordinamento sociale che si attagliava a condizioni economiche precedenti. Con ciò è detto nello stesso tempo che i mezzi per eliminare gli inconvenienti che sono stati scoperti devono del pari esistere, più o meno sviluppati, negli stessi mutati rapporti di produzione. Questi mezzi non devono, diciamo, essere inventati dal cervello, ma essere scoperti per mezzo del cervello nei fatti materiali esistenti della produzione."
Nel capitolo VI, a proposito della duplice natura del processo produttivo, abbiamo ricordato come il mondo delle forze economiche e sociali (il discorso vale per tutti i fenomeni della natura) non possa venir affrontato esclusivamente nei termini di "o questo, o quello!", bensì, visto nel suo incessante movimento, nei termini di "tanto questo, quanto quello!".
Nella Introduzione a Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, Marx si chiede dove si trovi la possibilità reale della emancipazione tedesca e risponde che essa si trova
"nella formazione di una classe con catene radicali, di una classe della società civile la quale non sia una classe della società civile, di un ceto che sia la dissoluzione di tutti i ceti, di una sfera che per i suoi patimenti universali possieda un carattere universale e non rivendichi alcun diritto particolare, poichè contro di essa viene esercitata non una ingiustizia particolare bensì l'ingiustizia senz'altro, la quale non può più appellarsi ad un titolo storico ma al titolo umano, che non si trova in contrasto unilaterale verso le conseguenze, ma in contrasto universale verso tutte le premesse del sistema politico tedesco; di una sfera, infine, che non può emancipare se stessa senza emanciparsi da tutte le rimanenti sfere della società e con ciò stesso emancipare tutte le rimanenti sfere della società, la quale, in una parola, è la perdita completa dell'uomo, e può dunque guadagnare nuovamente se stessa soltanto attraverso il completo recupero dell'uomo. Questa dissoluzione della società in quanto ceto particolare è il proletariato."
Abbiamo, quindi, una classe che, nello stesso tempo, è una classe dell'attuale società e non è una classe dell'attuale società. E' una classe dell'attuale società quando, attraverso la sua collocazione all'interno del processo produttivo, produce plusvalore e quindi valorizza il capitale; ma nello stesso tempo non è una classe dell'attuale società in quanto, all'interno del ciclo della produzione del capitale, essa vive, entro sè stessa - nel rapporto produttivo fra i diversi operai parziali - un rapporto non mercantile, un rapporto negante il modo di produzione e di distribuzione capitalistico, vale a dire un modo di produzione e di distribuzione comunista.
Un nuovo modo di produzione, dunque, che vive all'interno del vecchio modo di produzione: vivente, operante, palpitante, oggi in direzione di un completo sviluppo domani, in seguito alla rivoluzione proletaria mondiale; non solo, dunque, un modo di produzione "potenziale", "in divenire".
Nel capitolo del Capitale su La cosiddetta accumulazione originaria, possiamo vedere come sia lo stesso processo di accumulazione e concentrazione del capitale a generare, al suo interno, la propria negazione che è data - ripetiamolo pure - non da una volontà o desiderio di chissà chi, ma da un vero e proprio modo di produzione che nasce e si sviluppa sempre più all'interno del vecchio modo di produzione.
"A che cosa si riduce l'accumulazione originaria del capitale, cioè la sua genesi storica? In quanto non è trasformazione immediata di schiavi e di servi della gleba in operai salariati, cioè semplice cambiamento di forma, l'accumulazione originaria del capitale significa soltanto l' espropriazione dei produttori immediati, cioè la dissoluzione della proprietà privata fondata sul lavoro personale. (...) Questo modo di produzione presuppone uno sminuzzamento del suolo e degli altri mezzi di produzione; ed esclude, oltre alla concentrazione dei mezzi di produzione, anche la cooperazione, la divisione del lavoro all'interno degli stessi processi di produzione, la dominazione e la disciplina della natura da parte della società, il libero sviluppo delle forze produttive sociali. Esso è compatibile solo con dei limiti ristretti, spontanei e naturali, della produzione e della società. Volerlo perpetuare significherebbe, come dice bene il Pecquer, "decretare la mediocrità generale". Quando è salito ad un certo grado, questo modo di produzione genera i mezzi materiali della propria distruzione. A partire da questo momento, in seno alla società si muovono forze e passioni che si sentono incatenate da quel modo di produzione: esso deve essere distrutto e viene distrutto. La sua distruzione, che è la trasformazione dei mezzi di produzione individuali e dispersi in mezzi di produzione socialmente concentrati, e quindi la trasformazione della proprietà minuscola di molti nella proprietà colossale di pochi, quindi l'espropriazione della gran massa della popolazione, che viene privata della terra, dei mezzi di sussistenza e degli strumenti di lavoro; questa terribile e difficile espropriazione della massa della popolazione costituisce la preistoria del capitale. (...) Appena questo processo di trasformazione ha decomposto a sufficienza l'antica società in profondità ed estensione, appena i lavoratori sono trasformati in proletari e le loro condizioni di lavoro in capitale, appena il modo di produzione capitalistico si regge su basi proprie, assumono una nuova forma la ulteriore socializzazione del lavoro e l'ulteriore trasformazione della terra e degli altri mezzi di produzione in mezzi di produzione sfruttati socialmente, cioè in mezzi di produzione collettivi, e quindi assume una forma nuova anche l'ulteriore espropriazione dei proprietari privati. Ora quello che deve essere espropriato non è più il lavoratore indipendente che lavora per sé, ma il capitalista che sfrutta molti operai. Questa espropriazione si compie attraverso il gioco delle leggi immanenti della stessa produzione capitalistica, attraverso la centralizzazione dei capitali. Ogni capitalista ne colpisce molti altri per suo conto. Di pari passo con questa centralizzazione ossia con l'espropriazione di molti capitalisti da parte di pochi, si sviluppa su scala sempre crescente la forma cooperativa del processo di lavoro, la consapevole applicazione tecnica della scienza, lo sfruttamento metodico della terra, la trasformazione dei mezzi di lavoro utilizzati solo collettivamente, la economia dei mezzi di produzione mediante loro uso come mezzi di produzione del lavoro combinato, sociale, mentre tutti i popoli vengono via via intricati nella rete del mercato mondiale e così si sviluppa in misura sempre crescente il carattere internazionale del regime capitalistico. (...) La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili con il loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l'ultima ora della proprietà privata e capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati. Il modo di appropriazione capitalistico che nasce dal modo di produzione capitalistico, e quindi la proprietà privata capitalistica, sono la prima negazione della proprietà privata individuale, fondata sul lavoro personale. Ma la produzione capitalistica genera essa stessa, con l'ineluttabilità di un processo naturale, la propria negazione. E' la negazione della negazione. E questo non ristabilisce la proprietà privata, ma invece la proprietà individuale fondata sulla conquista dell'era capitalistica, sulla cooperazione e sul possesso collettivo della terra e dei mezzi di produzione prodotti dal lavoro stesso. La trasformazione della proprietà privata sminuzzata poggiante sul lavoro personale degli individui in proprietà capitalistica è naturalmente un processo incomparabilmente più lungo, più duro e più difficile della trasformazione della proprietà capitalistica, che già poggia di fatto sulla conduzione sociale della produzione, in proprietà sociale. Là si trattava dell'espropriazione della massa della popolazione da parte di pochi usurpatori, qui si tratta della espropriazione di pochi usurpatori da parte della massa del popolo."
Basterebbero solamente queste poche paginette del Capitale per chiarire come la società comunista non debba essere "inventata" alla maniera utopista, o "costruita" (che è mille volte peggio e controrivoluzionario) alla maniera staliniana. Inoltre, bastano queste poche pagine per rispondere a chi vede (non certo con gli occhi del proletariato rivoluzionario) nel Capitale di Marx una "semplice descrizione" del modo di produzione capitalistico, oppure semplicemente un "metodo" per leggere l'attualità.
La Luxembourg diceva che Marx ha potuto scrivere il Capitale perchè era comunista. Verissimo: ed in quanto comunista, ha potuto criticare il modo di produzione capitalistico solo perchè vedeva già operante al suo interno, seppure in forma embrionale, il modo di produzione e di distribuzione comunista. Il Capitale, appunto, non è solamente la descrizione del modo capitalistico di produzione delle merci, ma soprattutto esso è la sua orazione funebre, e quindi l'affermazione della sua negazione, ovvero l'affermazione di un modo di produzione nuovo, ad esso superiore: il comunismo.
Cap. X - Produzione manifatturiera ed anarchia sociale.
Riprendiamo ora il discorso, temporaneamente interrotto, a proposito della divisione del lavoro nella manifattura e nella società.
La divisione del lavoro all'interno della società è mediata dalla compra-vendita dei prodotti di differenti branche di lavoro; la connessione fra i lavori parziali della manifattura è mediata dalla vendita di differenti forze-lavoro allo stesso capitalista, il quale le impiega come forza-lavoro combinata.
"La divisione del lavoro di tipo manifatturiero presuppone la concentrazione dei mezzi di produzione in mano ad un solo capitalista; la divisione sociale del lavoro presuppone la dispersione dei mezzi di produzione fra molti produttori di merci indipendenti l'uno dall'altro."
Il modo di produzione e di distribuzione capitalistico, dunque, possiede un carattere essenzialmente anarchico: da una parte esso concentra delle forze produttive per andare, subito dopo, ad una maggiore dispersione di altrettante forze produttive.
"Invece della subordinazione di determinate masse d'operai a determinate funzioni per la bronzea legge del numero relativo, ossia della proporzionalità esistente nella manifattura, il caso e l'arbitrio si scapricciano a distribuire i produttori di merci ed i loro mezzi di produzione fra le differenti branche sociali del lavoro. Certo, le differenti sfere della produzione cercano costantemente di mettersi in equilibrio: da una parte, ogni produttore di merci deve produrre un valore d'uso, quindi deve soddisfare un particolare bisogno sociale, ma il volume di questi bisogni è differente quantitativamente, e c'è un legame intimo che concatena in un sistema spontaneo e naturale le differenti masse di bisogni; d'altra parte, la legge del valore delle merci determina quanto la società può spendere, nella produzione di ogni particolare genere di merci, della somma di tempo relativo che ha disponibile. Ma questa tendenza costante delle differenti sfere della produzione ad equilibrarsi si attua soltanto come reazione contro la costante distruzione di questo equilibrio. La regola seguita a priori e secondo un piano nella divisione del lavoro all'interno dell'officina, opera soltanto a posteriori nella divisione del lavoro all'interno della società, come necessità naturale interiore, muta, percepibile negli sbalzi barometrici dei prezzi del mercato, che sopraffà l'arbitrio sregolato dei produttori di merci. La divisione del lavoro di tipo manifatturiero presuppone l'autorità incondizionata del capitalista su uomini che costituiscono solo le membra di un meccanismo complessivo di sua proprietà; la divisione sociale del lavoro contrappone gli uni agli altri produttori indipendenti di merci, i quali non riconoscono altra autorità che quella della concorrenza, cioè la costrizione esercitata su di essi dalla pressione dei loro interessi reciproci; come anche nel regno animale il bellum omnia contra omnes preserva più o meno le condizioni di esistenza di tutte le specie. Quindi, nella stessa coscienza borghese che celebra la divisione del lavoro di tipo manifatturiero, l'annessione a vita dell'operaio ad una operazione di dettaglio e la subordinazione incondizionata dell'operaio parziale al capitale, esaltandole come un'organizzazione del lavoro che ne aumenta la forza produttiva, denuncia con altrettanto clamore ogni consapevole controllo e regolamento sociale del processo sociale di produzione, chiamandolo intromissione negli inviolabili diritti della proprietà, nella libertà e nell'autodeterminantesi "genialità" del capitalista individuale. E' assai caratteristico che gli entusiasti apologeti del sistema delle fabbriche, polemizzando contro ogni organizzazione generale del lavoro sociale, non sappiano dire niente di peggio, fuorchè: tale organizzazione tresformerebbe in una fabbrica tutta la società."
All'autorità presente all'interno della manifattura, si contrappone dunque la totale assenza di autorità centralizzatrice all'interno della società. Alla concentrazione e coordinazione dei diversi operai parziali (o produttori parziali) in un unico operaio complessivo all'interno di una singola industria, si contrappone la totale assenza di coordinazione dei diversi produttori di merci sparsi all'interno dell'intera società. Alla concorrenza fra i diversi produttori di merci, indipendenti l'uno dall'altro, all'interno dell'attuale società, si contrappone l'assoluta mancanza di concorrenza fra i diversi operai parziali, durante il processo produttivo di una singola merce, all'interno della manifattura e della successiva grande industria. La concorrenza è la vita della società borghese, ma se si volesse introdurla all'interno della manifattura - cioè, all'interno del piano di produzione funzionale alla produzione di ogni singola merce - la produzione capitalistica sarebbe costretta a cessare all'istante, con la conseguente morte della stessa società borghese. Ma una morte di questo tipo è semplicemente impossibile, in quanto significherebbe far girare all'indietro la ruota della storia: il capitalismo morirà per mezzo del suo superamento - la società comunista - e non grazie ad un arretramento verso una società pre-manifatturiera, artigianale.
"L'anarchia della divisione sociale del lavoro ed il dispotismo della divisione del lavoro a tipo manifatturiero sono portato l'una dell'altro nella società del modo capitalistico di produzione; invece forme di società precedenti ad essa, nella quale la separazione dei mestieri prima si è sviluppata spontaneamente, poi si è cristallizzata ed infine è stata consolidata legislativamente, offrono da una parte il quadro di una organizzazione del lavoro sociale secondo un piano, ed autoritario, ma dall'altra parte escludono completamente la divisione del lavoro entro l'officina, oppure la sviluppano solo su scala infima o solo sporadicamente e casualmente."
Rimandiamo direttamente alle pagine del Capitale quanti vogliono seguire più da vicino il discorso a proposito delle comunità primitive, dove si vede assenza di divisione del lavoro a tipo manifatturiero e presenza di piano sociale di produzione: pagine che portano alla conclusione che la divisione manifatturiera del lavoro è una creazione del tutto specifica del modo di produzione capitalistico.
Ciò che ci interessa, in questo momento, è di sottolineare non solo l'importanza, ma la necessità del piano di produzione.
Cap. XI - Operaio parziale e piano di produzione.
L'individuale operaio salariato che entra nel processo produttivo del capitale, perde la propria individualità, di trasforma, da operaio parziale accanto a tanti altri operai parziali, in un operaio complessivo.
Durante il processo di produzione di una merce, l'operaio si presenta sotto una duplice natura: egli è il soggetto della valorizzazione del capitale nello stesso momento in cui è il soggetto della negazione delle leggi del modo di produzione capitalistico.
Non, dunque, "o questo, o quello!", non "negazione in divenire", ma "tanto questo, quanto quello!".
I rapporti che l'operaio vive con gli altri uomini, all'interno della società, sono mediati dalla legge del valore: quando viene a contatto col suo padrone di casa, quando deve vestirsi, quando deve mangiare, ecc.; egli viene in contatto con questi uomini soltanto attraverso il denaro, in uno scambio di equivalenti - denaro contro le merci di cui ha bisogno - che regola tutto il mondo mercantile e capitalistico.
Anche quando entra in rapporto con il borghese industriale, l'operaio ha un rapporto mediato dalle leggi del valore: egli vende al capitalista - o al rappresentante del capitalista - la propria forza-lavoro in cambio di un salario giornaliero, settimanale o mensile. Da questo momento, come l'operaio può disporre liberamente del proprio salario, e di conseguenza delle merci con questo comperate, così il capitalista può disporre liberamente della forza-lavoro dell'operaio stesso. Quest'ultimo viene posto nel ciclo della produzione di una merce, ed in tale ciclo viene a trovarsi accanto a tanti altri operai posti nelle sue stesse condizioni. Ad ognuno di essi viene affidato un preciso compito, tale da formare una catena o rete produttiva. E' a questo punto che il ciclo della produzione si mette in moto.
E' a partire da questo momento che l'operaio ci mostra la propria natura di negazione del modo di produzione e di circolazione del capitale. E' a partire da questo momento che il nostro dirigente, ossequioso alle leggi di mercato, osserva come, nel momento della produzione della singola merce, all'interno del piano di produzione della singola merce, l'operaio sottoposto alla sua autorità incondizionata viva, operi sulla base della costante Mortificazione delle stesse leggi di mercato.
Il mettersi in moto dell'operaio parziale, mostra come questi abbia avuto un rapporto mercantile con il capitalista. ma questo stesso mettersi in moto dell'operaio parziale ci mostra un rapporto costante con un altro operaio parziale che non può essere mediato dalla legge del valore. In una fabbrica di automobili si vede come gli operai che producono carrozzeria consegnano il loro prodotto, una volta portato a termine, agli operai che hanno il compito della verniciatura, i quali a loro volta passeranno il loro prodotto a quegli operai che hanno il compito dei controlli, i quali a loro volta passeranno tutto agli addetti ai magazzini e parcheggi, ecc.. Gli uni non scambiano, non vendono agli altri operai quanto si è formato attraverso il loro lavoro; fra di loro non vi è un rapporto produttivo mediato dalla legge del valore, dal denaro e da tutte le categorie fondamentali dell'economia borghese. Se così fosse, come abbiamo già detto in precedenza, il ciclo di produzione dell'automobile si arresterebbe immediatamente. Gli uni non si appropriano del prodotto (attenzione: in questo caso parliamo di prodotto = non merce!) degli altri, ma semplicemente lo usano per arricchirlo incorporandovi del nuovo lavoro.
Dunque, "l'operaio parziale - come abbiamo visto in precedenza con Marx - non produce nessuna merce". Non solo questo: dobbiamo aggiungere che all'interno del ciclo di produzione di ogni singola merce, l'operaio parziale, nel rapporto giornaliero con gli altri operai parziali, formanti l'operaio complessivo, ci mostra costantemente - all'interno del generale modo di produzione capitalistico - l'esistenza di un modo di produzione e di distribuzione comunista.
Vien da domandarsi, a questo punto: e quando abbiamo la merce, allora?
Rispondiamo: il prodotto, o valore d'uso, dell'operaio complessivo si trasformerà in merce quando esso entrerà in rapporto con un suo equivalente, vale a dire quando uscirà dai magazzini della manifattura, dell'officina, della grande industria, ed entrerà nel mercato. Solamente in questo momento abbiamo la merce; solamente in questo momento il capitalista realizza il plusvalore incorporato dagli operai nell'automobile, degli stivali o di qualsiasi altro prodotto.
L'insieme degli operai parziali all'interno del processo di produzione forma dunque l'operaio complessivo, il quale è sottoposto all'autorità incondizionata del capitalista. Questa autorità del capitalista non dev'essere giudicata dai rivoluzionari in maniera democratoide e moralista, bensì da un punto di vista economico e produttivo, cioè materialista. L'autorità incondizionata del capitalista dev'essere vista come un polo in antitesi a quello della mancanza totale di autorità e coordinamento che avviene all'interno della sfera della circolazione, che è data cioè dalla concorrenza fra i molti produttori possessori di merci, la quale determina, a sua volta, la più totale anarchia della produzione. L'autorità incondizionata del capitalista all'interno del processo di produzione di una singola merce sta all'autorità incondizionata della classe dei capitalisti all'interno del generale modo di produzione capitalistico, come la divisione del lavoro all'interno di una manifattura o di una grande fabbrica sta alla divisione del lavoro all'interno della società: fra i primi ed i secondi termini non vi è una differenza solamente quantitativa, ma qualitativa.
L'insieme di questi termini ci mostra la contraddizione fondamentale del modo di produzione capitalistico: da una parte vi sta il bellum omnia contra omnes, la concorrenza, i rapporti fra uomini mediati dalla legge del valore, dallo scambio fra equivalenti, dal denaro; dall'altra parte, stanno rapporti sociali che non sono mediati da queste categorie dell'economia borghese. da una parte esiste la totale mancanza di coordinamento produttivo che porta all'anarchia economica, mentre dall'altra, la socializzazione del processo produttivo della singola merce ci mostra quel piano di produzione che permette di combattere la continua dispersione e distruzione di forze produttive.
"La società tutta intera ha questo di comune con l'interno di una fabbrica, che anch'essa ha la sua divisione del lavoro. Se si prendesse per modello la divisione del lavoro in una fabbrica moderna per farne l'applicazione all'intera società, la società meglio organizzata per la produzione delle ricchezze sarebbe incontestabilmente quella che avesse un solo imprenditore a dirigerla, il quale distribuisse i compiti ai diversi membri della comunità secondo una regola fissata in precedenza. Ma non è affatto così. Mentre all'interno di una fabbrica moderna la divisione del lavoro è minuziosamente regolata dall'autorità dell'imprenditore, la società moderna non ha altra regola, altra autorità, per distribuire il lavoro, che la libera concorrenza. Si può anche stabilire, come principio generale, che, quanto meno l'autorità presiede alla divisione del lavoro all'interno della società, tanto più la divisione del lavoro si sviluppa all'interno di una fabbrica, e vi è sottoposta all'autorità di uno solo. Così, l'autorità nella fabbrica e quella nella società. in rapporto alla divisione del lavoro, sono in ragione inversa l'una all'altra"
La cooperazione, dunque, dell'insieme degli operai parziali, formanti l'operaio complessivo, il produttore socializzato, permette quel piano di produzione che caratterizza le comunità del comunismo primitivo, oltre a caratterizzare, domani, la nuova società comunista che si svilupperà alla scala mondiale.
Chi non capisce queste pagine e volesse fare della stupida polemica, utile a stendere chi è già steso, può chiedere con ironia: è dunque la presenza autoritaria del capitalista, all'interno di una fabbrica o di un qualsiasi processo di produzione, a mostrarci la caratteristica fondamentale di domani?
Rispondiamo: che c'entra il capitalista? Già a pagina 21 di questo lavoro, abbiamo visto come sia la stessa accumulazione capitalistica ad espellere dal processo di produzione la persona fisica del capitalista, mettendo al suo posto tutta una serie di "ufficiali superiori e di sottufficiali industriali, i quali durante il processo di lavoro comandano in nome del capitalista".
Se al posto, dunque, di "autorità incondizionata del capitalista" poniamo "l'autorità incondizionata dei managers d'industria", cambia forse qualcosa?; e se al posto di quest'ultima poniamo l' "autorità di un piano di produzione dato in precedenza", non siamo, sostanzialmente, al punto di prima?
E' evidente che, sotto qualsiasi forma si presenti questa autorità, essa è legata al concetto di piano di produzione e quindi in esso va visto non tanto il dominio economico e politico del borghese, quanto l'assenza di contrasti d'interessi particolari (quelli propri dell'economia politica) all'interno del processo di produzione di una singola merce.
Cap. XII - Macchine e grande industria
Con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico, la manifattura, ad un certo punto, non riesce più a soddisfare la sempre crescente necessità di plusvalore del capitale e quindi deve essere soppiantata. Comincia a svilupparsi su scala sempre crescente la produzione di macchine per la produzione di altre macchine, la cui funzione non è certamente quella di ridurre lo sforzo umano.
"John Stuart Mill dice nei suoi "Principi d'economia politica": E' dubbio se tutte le invenzioni meccaniche fatte finora abbiano alleviato la fatica quotidiana d'un qualsiasi essere umano. Ma questo non è neppure lo scopo del macchinario quando è applicato capitalisticamente. Come ogni altro sviluppo della forza produttiva del lavoro, il macchinario ha il compito di ridurre la merce più a buon mercato ed abbreviare quella parte della giornata lavorativa che l'operaio usa per se stesso, per prolungare quell'altra parte della giornata lavorativa che l'operaio da gratuitamente al capitalista: è un mezzo per la produzione di plusvalore. Nella manifattura la rivoluzione del modo di lavoro prende come punto di partenza la forza-lavoro; nella grande industria, il mezzo di lavoro".
Con lo sviluppo delle macchine e quindi con il conseguente sviluppo del sistema delle macchine racchiuso nelle grandi fabbriche, cambia anche la posizione che aveva in precedenza l'operaio difronte al proprio strumento di produzione.
"Nella manifattura sono operai, isolati o a gruppi, che devono eseguire col loro strumento ogni particolare processo parziale. L'operaio viene appropriato al processo, ma prima il processo è stato adattato all'operaio. Questo principio soggettivo della divisione del lavoro scompare nella produzione meccanica. Qui il processo complessivo viene considerato oggettivamente, in sè e per sè, viene analizzato nelle sue fasi costitutive, ed il problema di eseguire ciascun processo parziale e di collegare i diversi processi parziali viene risolto per mezzo dell'applicazione tecnica della meccanica, della chimica, ecc.; anche qui è ovvio che la concezione teorica dev'essere come sempre completata con l'esperienza pratica accumulata su grande scala. Ogni macchina parziale fornisce la materia prima alla prima macchina che segue nella serie; e poichè operano tutte contemporaneamente, tanto nei diversi gradi del suo processo di formazione, quanto in transizione da una fase all'altra della produzione. Come nella manifattura, la cooperazione immediata degli operai parziali crea determinate proporzioni numeriche fra i particolari gruppi di operai, così, nel sistema organico delle macchine, il fatto che macchine parziali si tengano occupate costantemente e reciprocamente, crea una determinata proporzione fra il loro numero, il loro volume e la loro velocità. La macchina operatrice combinata che ora è un sistema articolato di singole macchine operatrici eterogenee e di gruppi di esse, è tanto più perfetta quanto più e continuativo il suo processo complessivo, cioè quante meno interruzioni si hanno nel passaggio dalla prima all'ultima fase, e dunque quanto più è il meccanismo, invece della mano dell'uomo, ad inoltrarla da una fase all'altra della produzione. Nella manifattura l'isolamento dei processi particolari è un principio che vien dato dalla stessa divisione del lavoro; invece nella fabbrica sviluppata domina la continuità dei processi particolari."
"Nella manifattura e nell'artigianato, l'operaio si serve dello strumento, nella fabbrica è l'operaio che serve la macchina. Là dall'operaio parte il movimento dei mezzi di lavoro, il cui movimento qui egli deve seguire. Nella manifattura gli operai costituiscono le articolazioni di un organismo vivente. Nella fabbrica esiste un meccanismo morto indipendente da essi, e gli operai vi sono incorporati come appendici umane (...) Mediante la trasformazione in macchina automatica, il mezzo di lavoro si contrappone all'operaio durante lo stesso processo lavorativo quale capitale, quale lavoro morto che domina e succhia la forza-lavoro vivente."
Dobbiamo a questo punto porci la seguente domanda: se da soggetto che usa il proprio strumento di produzione, l'operaio viene trasformato in oggetto che viene usato dal nuovo strumento di produzione (il sistema delle macchine), significa forse che cambia anche la natura del rapporto dei diversi operai parziali fra di loro, all'interno del ciclo produttivo di ogni singola merce? Se nel periodo della manifattura "l'operaio parziale non produce nessuna merce", quindi vive un rapporto, con l'altro operaio parziale, che non sono mediati dalla legge del valore, dello scambio degli equivalenti, del denaro, tale sua caratteristica viene forse alterata, distrutta nel successivo periodo della grande industria?
"Come macchinario, il mezzo di lavoro viene ad avere un modo di esistenza materiale che porta con sè la sostituzione della forza dell'uomo con forze naturali e della routine derivata dall'esperienza con l'applicazione consapevole delle scienze della natura. Nella manifattura l'articolazione del processo lavorativo sociale è puramente soggettiva, è una combinazione di operai parziali; nel sistema delle macchine, la grande industria possiede un organismo di produzione del tutto oggettivo, che l'operaio trova davanti a sè, come condizione materiale di produzione già pronta. Nella cooperazione semplice ed anche in quella specificata mediante la divisione del lavoro, la soppressione dell'operaio isolato da parte dell'operaio socializzato, appare ancora sempre più o meno casuale. Il macchinario, salvo alcune eccezioni, funziona soltanto in mano al lavoro immediatamente socializzato, ossia al lavoro in comune. Ora, il carattere cooperativo del processo lavorativo diviene dunque necessità tecnica imposta dalla natura del mezzo di lavoro stesso."
Riprendendo quanto già detto a pag. 20, ricordiamo che
"la concentrazione di masse piuttosto grandi di mezzi di produzione in mano di singoli capitalisti è condizione materiale della cooperazione degli operai salariati, e la misura della cooperazione, ossia la scala della produzione, dipende dalla misura di tale concentrazione."
Da ciò si vede chiaramente come la concentrazione dei mezzi di produzione, la cooperazione e la scala della produzione siano direttamente proporzionali fra di loro: lo sviluppo di uno qualsiasi di questi termini, determina automaticamente lo sviluppo degli altri.
L'esempio dell'odierna industria chimica illustra con maggior precisione tali concetti. L'operaio collocato in un tale ciclo produttivo si trova difronte delle macchine estremamente enormi, delle quali egli diventa una semplice rotella, e la cui complessità è tale che diventa difficile delimitare con obbiettiva precisione due reparti (sistemi di macchine) attigui, definendo, ad es., dove esattamente finisca un reparto per la produzione di DiCloroEtano e dove cominci l'altro per la produzione di CloruroVinile Monomero ed in che punto vi sia netta separazione col successivo nel quale si produce PoliVinileCloruro.
La sostituzione, dunque, della manifattura da parte della grande industria non altera, bensì rafforza ed espande quel rapporto comunista che gli operai parziali vivono,
nel loro rapporto reciproco all'interno del ciclo di produzione di una determinata merce.
Cap. XIII - Crisi e produzione socializzata
All'interno del modo di produzione e di distribuzione capitalistico
"domina l'anarchia della produzione sociale. Ma la produzione di merci, come ogni altra forma di produzione, ha le sue leggi specifiche, immanenti, inseparabili da essa. E queste leggi si attuano malgrado l'anarchia, in essa e per mezzo di essa. Esse compaiono nell'unica forma di nesso sociale che continua ad esistere, nello scambio, e si fanno valere sui prodotti individuali come leggi coattive della concorrenza. Da principio esse sono quindi sconosciute a questi stessi produttori e devono essere scoperte da loro a poco a poco e solo con una lunga esperienza. Esse dunque si attuano senza i produttori e contro i produttori. Il prodotto domina i produttori. Nella società medioevale, specialmente nei primi secoli, la produzione era essenzialmente indirizzata al consumo personale. Essa appagava in prevalenza soltanto i bisogni del produttore e della sua famiglia."
Solo molto più tardi,
"allorchè pervenne a produrre un'eccedenza sul proprio fabbisogno e sui versamenti in natura dovuti al signore feudale, solo allora cominciò a produrre anche merci; questa eccedenza immessa nello scambio, offerta in vendita, divenne merce. Gli artigiani cittadini dovettero, certo, già sin dal principio, produrre per lo scambio. Ma essi provvedevano col proprio lavoro anche alla massima parte del loro fabbisogno personale: avevano orti e piccoli campi, mandavano il loro bestiame nel bosco comunale che forniva loro inoltre legname da costruzione e legna da ardere; le donne filavano il lino, la lana, ecc.. La produzione per lo scambio, la produzione di merci era solo sul nascere. Da qui scambio limitato, mercato limitato, modo di produzione stabile; isolamento locale verso l'esterno ed unione locale all'interno; la marca nella campagna, la corporazione nella città. Ma con l'estensione della produzione di merci e specialmente con l'apparire del modo di produzione capitalistico, entrarono più apertamente e più potentemente in azione le leggi della produzione di merci sinora latenti. I vecchi vincoli si allentarono, le vecchie barriere che isolavano furono infrante, i produttori si trasformarono sempre più in produttori di merci indipendenti ed isolati. Apparve l'anarchia della produzione sociale e sempre più fu spinta al suo estremo. Ma il principale strumento con cui il modo di produzione capitalistico accresceva questa anarchia della produzione sociale era precisamente l'opposto dell'anarchia: era la crescente organizzazione della produzione, in quanto produzione sociale, in ogni singola azienda produttiva. Con questa leva, esso mise fine alla vecchia pacifica stabilità. Laddove veniva introdotto in un ramo d'industria, non tollerava accanto a sè nessun modo di produzione più vecchio. Laddove si impadroniva di un mestiere ne distruggeva la vecchia forma artigiana. Il campo del lavoro divenne un campo di battaglia. Le grandi scoperte geografiche e le colonizzazioni che seguirono moltiplicarono i territori di sbocco e accelerarono la trasformazione dell'artigianato in manifattura. La lotta non scoppiò soltanto fra i singoli produttori di una località; le lotte locali sviluppandosi divennero a loro volta lotte nazionali, come le guerre commerciali dei secoli XVII e XVIII. Finalmente la grande industria e la creazione del mercato mondiale resero universale la lotta ed a un tempo le conferirono una violenza inaudita. Fra i singoli capitalisti, così come fra intere industrie ed interi paesi, il problema della loro esistenza viene deciso dalle condizioni più o meno favorevoli della produzione, che possono essere naturali o artificiali. Chi soccombe viene eliminato senza nessun riguardo. E' la lotta darwiniana per l'esistenza dell'individuo trasportata con accresciuto furore dalla natura alla società. Il punto di vista dell'animale nella natura appare come l'apice dell'umano sviluppo. La contraddizione fra produzione sociale ed appropriazione capitalistica si riproduce come antagonismo fra l'organizzazione della produzione nella singola fabbrica e l'anarchia della produzione nel complesso della società. Il modo di produzione capitalistico si muove entro queste due forme nelle quali si manifesta quella contraddizione che gli è immanente per la sua origine e descrive, senza possibilità di uscirne, quel "circolo vizioso" che già Fourier vi aveva scoperto. Ciò che Fourier non poteva invero ancora scorgere ai suoi tempi, si è che questo circolo progressivamente si restringe, che il movimento rappresenta piuttosto una spirale, e che, come quello dei pianeti, raggiungerà la sua fine collidendo col suo centro. E' la forza motrice dell'anarchia sociale della produzione che trasforma sempre più la grande maggioranza degli uomini in proletari e, a loro volta, sono le masse proletarie che mettono termine, infine, all'anarchia della produzione. E' la forza motrice dell'anarchia sociale della produzione che trasforma l'infinita perfettibilità delle macchine della grande industria in un'obbligazione che impone al singolo capitalista industriale di perfezionare sempre più le proprie macchine, pena la rovina."
"La perfettibilità delle macchine moderne, spinta al punto più alto, si trasforma, mediante l'anarchia della produzione nella società, in un'imposizione che costringe il singolo capitalista industriale a migliorare incessantemente le proprie macchine, ad elevarne la forza produttiva. La semplice possibilità effettiva di estendere l'ambito della sua produzione, si trasforma per lui in un'imposizione di egual natura. La enorme forza espansiva della grande industria, difronte alla quale quella dei gas è un vero gioco da bambini, si presenta ora ai nostri occhi come un bisogno di espansione sia qualitativa che quantitativa che si fa beffa di ogni pressione contraria. Questa pressione contraria è formata dal consumo, dallo smercio, dai mercati per i prodotti della grande industria. Ma la capacità di espansione dei mercati sia estensiva che intensiva, è dominata anzitutto da leggi affatto diverse, che agiscono in modo molto energico. La espansione dei mercati non può andare di pari passo con quella della produzione. La collusione diviene inevitabile e poichè non può presentare nessuna soluzione sino a che non manda a pezzi lo stesso modo di produzione capitalistico, diventa periodica. La produzione genera un nuovo "circolo vizioso".
"In effetti, nel 1825, anno in cui scoppiò la prima crisi generale, tutto il mondo industriale e commerciale, la produzione e lo scambio di tutti i popoli civili e delle loro appendici più o meno barbariche, si sfasciano una volta ogni dieci anni circa. Il commercio langue, i mercati sono ingombri, si accumulano i prodotti tanto numerosi quanto inesitabili, il denaro contante diviene invisibile, il credito scompare, le fabbriche si fermano, le masse operaie, pur avendo prodotto troppi mezzi di sussistenza, mancano di mezzi di sussistenza; fallimenti e vendite all'asta si susseguono. La stagnazione dura per anni. Forze produttive e prodotti vengono dilapidati e distrutti in gran copia, fino a che finalmente le masse di merci defluiscono grazie ad una svalutazione più o meno grande, e produzione e scambio riprendono a poco a poco il loro cammino. Gradualmente la loro andatura si accelera, si mette al trotto, il trotto dell'industria si trasforma in galoppo e questo si accelera fino ad assumere l'andatura sfrenata di una vera corsa ad ostacoli industriale, commerciale, creditizia e speculativa, per ricadere finalmente, dopo salti da rompersi il collo, nel baratro del crac. E così sempre da capo."
"Ed il carattere di queste crisi è così nettamente marcato, che Fourier le ha colte tutte quante, allorchè definì la prima come crisi pléthorique, crisi di sovrabbondanza. Nella crisi la contraddizione fra produzione sociale ed appropriazione capitalistica perviene allo scoppio violento. La circolazione delle merci è momentaneamente annientata; il mezzo della circolazione, il denaro, diviene un ostacolo per la circolazione; tutte le leggi della produzione e della circolazione delle merci vengono sovvertite. Il modo di produzione si ribella contro il modo dello scambio, le forze produttive si ribellano contro il modo di produzione che esse hanno già superato. Il fatto che l'organizzazione sociale della produzione nell'interno della fabbrica ha raggiunto il punto in cui diventa incompatibile con l'anarchia della produzione esistente nella società accanto ad essa ed al disopra di essa, questo fatto viene reso tangibile agli stessi capitalisti dalla potente concentrazione dei capitali che ha luogo durante la crisi, mediante la rovina di un gran numero di grondi capitalisti. Tutto il meccanismo del modo di produzione si arresta sotto la pressione delle forze produttive che esso stesso produce. Esso non riesce più a trasformare in capitale tutta questa massa di mezzi di produzione: essi giacciono inoperosi e, precisamente per questa ragione, anche l'esercito di riserva industriale è costretto a restare inoperoso. Mezzi di produzione, mezzi di sussistenza, operai disponibili, tutti gli elementi della produzione e della ricchezza generale, esistono in sovrabbondanza. Ma la "sovrabbondanza diventa fonte di miseria e di penuria" (Fourier) perchè è esattamente essa che ostacola la trasformazione dei mezzi di produzione e di sussistenza.
Da una parte dunque viene conclamata la incapacità del modo di produzione capitalistico di continuare a dirigere queste forze produttive. Dall'altra, queste stesse forze produttive spingono con forza sempre crescente alla soppressione della contraddizione, alla propria emancipazione dal loro carattere di capitale, all'effettivo riconoscimento del loro carattere di forze produttive sociali. E' questa reazione al proprio carattere di capitale delle forze produttive nel loro rigoglioso sviluppo, è questa progressiva spinta a far riconoscere la propria natura sociale, ciò che obbliga la stessa classe capitalistica a trattare sempre più come sociali queste stesse forze produttive, nella misura in cui è possibile, in generale, sul piano dei rapporti capitalistici. Tutto il periodo di grande prosperità nell'industria, colla sua illimitata inflazione creditizia, quanto lo stesso crac con la rovina di grandi imprese capitalistiche, spingono a quella forma di socializzazione di masse considerevolmente grandi di mezzi di produzione, che incontriamo nelle diverse società anonime. Molti di questi mezzi di produzione e di scambio sono sin dal principio così enormi da escludere, come ad es. avviene nelle strade ferrate, ogni altra forma di sfruttamento capitalistico. Ad un certo grado dello sviluppo neanche questa forma è più sufficiente. I grandi produttori nazionali di uno stesso ramo di produzione industriale si riuniscono in un "trust", in un'associazione avente lo scopo di regolare la produzione; essi determinano la quantità totale da produrre, se la ripartiscono fra di loro ed impongono così il prezzo di vendita stabilito in precedenza. Ma poichè tali trust, quando gli affari cominciano ad andare male, per lo più si dissolvono, proprio per questa ragione essi spingono ad una forma ancora più concentrata di socializzazione: tutto il ramo d'industria si trasforma in un'unica società anonima; la concorrenza nazionale cede il posto al monopolio nazionale di quest'unica società."
"Nei trust la libera concorrenza si trasforma in monopolio, la produzione, priva di un piano, della società capitalistica, capitola davanti alla produzione, secondo un piano, dell'irrompente società socialista. Certo in primo tempo tutto questo avviene ancora a tutto vantaggio dei capitalisti. Ma qui lo sfruttamento diviene così tangibile da dover necessariamente crollare."
"In un modo o nell'altro, con trust o senza trust, una cosa è certa: che il rappresentante ufficiale della società capitalistica, lo Stato, deve alla fine assumerne la direzione. La necessità della trasformazione in proprietà statale si manifesta anzitutto nei grandi organismi di comunicazione: poste, telegrafi, ferrovie. Se le crisi hanno rivelato l'incapacità della borghesia a dirigere ulteriormente le moderne forze produttive, la trasformazione dei grandi organismi di produzione e di traffico in società anonime ed in proprietà statale, mostra che la borghesia non è indispensabile per il raggiungimento di questo fine. Tutte le funzioni sociali del capitalista sono oggi compiute da impiegati salariati. Il capitalista non ha più nessuna attività sociale che non sia l'intascare rendite, il tagliare cedole ed il giocare in borsa, dove i capitalisti si spogliano a vicenda dei loro capitali."
"Ma nè la trasformazione in società anonime, nè la trasformazione in proprietà statale, sopprime il carattere di capitale delle forze produttive. Nelle società anonime questo carattere è evidente. E a sua volta lo Stato moderno è l'organizzazione che la società capitalistica si dà per mantenere il modi di produzione capitalistico difronte agli attacchi sia degli operai sia dei singoli capitalisti. Lo Stato moderno, qualunque ne sia la forma è una macchina essenzialmente capitalistica, uno Stato dei capitalisti, il capitalista collettivo ideale. Quanto più si appropria le forze produttive, tanto più diventa un capitalista collettivo, tanto maggiore è il numero dei cittadini che esso sfrutta. Gli operai rimangono degli operai salariati. Il rapporto capitalistico non viene soppresso, viene invece spinto al suo apice. Ma giunto all'apice si rovescia. La proprietà statale delle forze produttive, non è la soluzione del conflitto, ma racchiude in sè il mezzo formale, la chiave della soluzione. Questa soluzione può consistere solo nel fatto che si riconosca in effetti la matura sociale delle moderne forze produttive e che quindi il modo di produzione, di appropriazione e di scambio sia messo in armonia con il carattere sociale dei mezzi di produzione. E questo può accadere solo a condizione che, apertamente e senza tergiversazioni, la società si impadronisca delle forze produttive le quali si sottraggono ad ogni altra direzione che non sia quella sua. Così il carattere sociale dei mezzi di produzione e dei prodotti che oggi si volge contro gli stessi produttori, che sconvolge periodicamente il modo di produzione e di scambio, e si impone come forza possente e distruttiva solo come cieca legge naturale, viene fatto valere con piena consapevolezza dai produttori e, da causa di turbamento e sconvolgimento periodico, si trasforma nella più potente leva della produzione stessa. Le forze socialmente attive agiscono in modo assolutamente uguale alle forze naturali: in maniera cieca, distruttiva, sino a quando non le riconosciamo e non facciamo i conti con esse. Ma una volta che le abbiamo conosciute, che ne abbiamo compreso il modo d'agire, la direzione e gli effetti, dipende solo da noi il sottometterle sempre più al nostro volere e per mezzo di esse raggiungere i nostri fini. E questo vale in modo particolare per le odierne potenti forze produttive. Fino a quando ostinatamente ci rifiuteremo di intenderne la natura ed il carattere, ed a questa intelligenza si oppongono il modo di produzione capitalistico ed i suoi sostenitori, queste forze agiranno malgrado noi e contro di noi e, come abbiamo diffusamente esposto, queste forze ci domineranno. Ma una volta che siano comprese nella loro natura, esse, nelle mani dei produttori associati, possono essere trasformate da demoniache dominatrici in docili serve. E' questa la differenza fra la forza distruttiva dell'elettricità nel lampo della tempesta e l'elettricità domata del telegrafo e della lampada ad arco; la differenza fra l'incendio ed il fuoco che agisce al servizio dell'uomo. Quando le odierne forze produttive saranno considerate in questo modo, conformemente alla loro natura finalmente conosciuta, all'anarchia sociale della produzione subentrerà una regolamentazione socialmente pianificata della produzione, conforme ai bisogni sia della comunità che di ogni singolo. Così il modo di appropriazione capitalistico, il cui prodotto asservisce anzitutto chi lo produce, ma poi anche colui che se lo appropria, viene sostituito dal modo di appropriazione dei prodotti fondato sulla natura stessa dei moderni mezzi di produzione: da una parte da un'appropriazione direttamente sociale come mezzo per mantenere ed allargare la produzione, dall'altra da un'appropriazione direttamente individuale come mezzo di sussistenza e di godimento."
Cap. XIV - Vittoria dell'aziendismo?
Abbiamo parlato, nel corso di questo lavoro, di rapporti comunisti già esistenti all'interno del ciclo di produzione di ogni singola merce, come pure abbiamo parlato dell'autorità incondizionata del capitalista su quegli operai che gli hanno venduto la propria forza-lavoro, quale presupposto del piano di produzione.
Si troverà sempre, adesso, chi - lasciando perdere gli stipendiati della malafede - pretenderà di ironizzare sulle posizioni qui presentate (e non solamente nostre!), ripetendo, senza nulla aver capito: "comunismo di fabbrica, comunismo di fabbrica!", ecc., come introduzione ad autentiche fesserie, tipo: "per voi la fabbrica rappresenta il comunismo".
Seguendo di pari passo il Capitale, abbiamo visto come esso sia critica appassionata dell'economia politica, cioè critica di tutti quei rapporti sociali che sono mediati dalla legge del valore, dal denaro, ecc., e quindi contemporaneamente ("tanto questo, tanto quello!") affermazione e rivendicazione di una società dove i rapporti fra gli uomini non siano mediati da tale legge del valore, dallo scambio fra equivalenti, dal denaro; dunque, continua rivendicazione della società comunista. Ed il lavoro che abbiamo svolto ha voluto mettere in luce che già esiste all'interno del grembo della materna forma capitalistica di produzione, il feto della società comunista che la rivoluzione proletaria avrà il compito di liberare. Marx non inventa il comunismo, nè tanto meno pensa si possa costruirlo, alla maniera di Stalin. Marx ci mostra semplicemente (semplicemente?) come sia la stessa dialettica dello sviluppo del capitale a formare e sviluppare quelle contraddizioni e quel becchino che lo dovrà portare a morte. In Marx, e nel nostro lavoro, non viene rivendicata la catena di montaggio, la fabbrica, come pure non viene rivendicato la divisione del lavoro quale punto di riferimento della società comunista di domani. La fabbrica, autentica galera per il proletariato, come pure la divisione del lavoro, autentico processo di abbrutimento ed impoverimento fisico e spirituale dell'operaio salariato, saranno distrutti dal processo della rivoluzione comunista. Ciò che non verrà distrutto, ma anzi liberato e sviluppato fino ad abbracciare l'intero pianeta, sarà quella potentissima forza produttiva che lo stesso capitale ha unito e messo in moto, impedendogli ad un certo punto di seguitare nel proprio sviluppo: la forza produttiva del lavoro associato, del lavoro e del consumo in comune, di quel lavoro i cui soggetti hanno rapporti non mercantili.
Le pagine di Marx, per essere comprese sotto la loro reale luce, devono essere lette con gli occhi e lo spirito del comunista e non con quelli del borghese o dello "studioso al di sopra delle parti". Ed il comunista in esse vi leggerà non la rivendicazione della fabbrica, del lavoro morto che succhia il lavoro vivo, della divisione del lavoro, dell'autorità incondizionata del capitalista, bensì la rivendicazione del lavoro associato non mercantile, come pure del piano di produzione, in contrapposizione all'anarchia sociale, i quali dovranno svilupparsi dopo che saranno stati distrutti i limiti aziendali. Quello che deve abbracciare tutto il mondo, dunque, non è l'azienda capitalista con tutte le sue nefandezze, ma quanto di superiore vive al suo interno.
Chi inorridisce di fronte a questo, cade da opposte sponde nella stessa merda dell'ideologia borghese, quando afferma che "tale organizzazione trasformerebbe in una fabbrica tutta la società". I borghesi dichiarati dicono questo perchè un piano di produzione e di distribuzione mondiale significherebbe la loro morte, in quanto la loro vita è data dall'anarchia sociale della produzione e della distribuzione. In tale trappola possono cadere anche tanti comunisti (magari passati attraverso la famosa "scuola dell'imprenditore edile") qualora non vedano i fondamenti della nuova società già esistenti all'interno della attuale società da distruggere, e si apprestano - dopo aver sparato (?) fior di cannonate contro lo stalinismo e dopo, naturalmente, aver solennemente giurato di non voler "trasformare tutta la società in una fabbrica" - , si apprestano dunque ad elaborare piani più o meno dettagliati di quella società che deve essere il superamento dell'attuale.
Su tale piano si colloca l'azione dei riformisti i quali, ormai da lungo tempo, hanno cessato di lottare per la realtà del comunismo. La loro azione, pienamente funzionale alla logica dello sviluppo capitalistico, è tutta intesa alla stesura di piani cartacei settoriali (metallurgia, meccanica, chimica, tessile, edile, ecc.) e nazionali. E da questo punto di vista, la lotta del proletariato deve essere funzionale a questi piani illusori: lotte, quindi, settoriali, aziendali, di reparto, e chi più riesce a dividere, divida.
Ma il proletariato non è una macchinetta che si può sempre comandare a bacchetta, dal caldo della stanza dei bottoni. Il proletariato è una classe sociale viva, che nel momento della crisi è costretto a prendere visione delle reali sue condizioni di vita e delle reali possibilità di superamento di queste sue condizioni.
Le reali contraddizioni del modo di produzione capitalistico, sfocianti nella crisi, metteranno in moto il corpo sociale proletario ed i suoi singoli organi cominceranno a svilupparsi: gambe, braccia, cuore, cervello proletari cominceranno a delinearsi sempre più chiaramente quali organi di movimento e di direzione politica e sociale.
Il partito comunista, organo di direzione politica dell'intero corpo proletario, grazie alla sua memoria storica, saprà legare il proletariato a tutto il corso del cammino umano e, in particolare, saldarsi a tutte le grandi esperienze delle secolari lotte proletarie. La lotta dei Comunardi parigini, come quelle del tempo della Terza Internazionale, rivivranno ad un livello ancora maggiore negli anni futuri.
La borghesia potrà armarsi finchè vorrà; l'azione repressiva del suo Stato potrà essere spinta a livelli inverosimili, ma alla fine niente potrà contro il proletariato mondiale unito ed unitariamente guidato dal Partito Comunista della Rivoluzione Mondiale da esso espresso. Simili a barchette in mezzo ad un uragano, i vari Stati nazionali saranno spezzati e distrutti ed al loro posto si ergerà lo Stato della Dittatura Proletaria Mondiale: fase transitoria destinata ad estinguersi per lasciare il posto all'umano modo di produzione e di distribuzione comunista.
Per lasciare il posto all'UOMO SOCIALE.