Il tema negli ultimi tempi è molto dibattuto. Sociologi, intellettuali e politici, nel tentativo di ricondurre le istanze anti-capitalistiche nell'alveo istituzionale, scrivono libri, organizzano conferenze e, in qualche caso, danno vita a non meglio precisate costituenti. Anche la Chiesa Cattolica se ne è occupata e in una delle Costituzioni scaturite dal Concilio Vaticano II ha proposto la seguente definizione: "Dall'interdipendenza sempre più stretta e piano piano estesa al mondo intero deriva che il bene comune - cioè l'insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente - oggi vieppiù diventa universale, investendo diritti e doveri che riguardano l'intero genere umano" (da Gaudium et Spes).
In Italia i commons sono divenuti popolari con il movimento referendario per l'acqua bene comune. Alcuni intellettuali hanno proposto di istituire delle "zone franche" affinché determinati beni possano essere ritenuti non commerciabili. Stefano Rodotà ha presentato al Senato un disegno di legge delega per una riclassificazione dei beni comuni in base alla natura economico-sociale. Il concetto in realtà è abbastanza lasco e potrebbe essere applicato a tutto, dall'acqua all'ambiente, dai trasporti al lavoro.
Secondo Wikipedia "i beni comuni o risorse comuni (in inglese commons) sono beni utilizzati da più individui, rispetto ai quali si registrano - per motivi diversi - difficoltà di esclusione e il cui "consumo" da parte di un attore riduce le possibilità di fruizione da parte degli altri: sono generalmente risorse prive di restrizioni nell'accesso e indispensabili alla sopravvivenza umana e/o oggetto di accrescimento con l'uso". Il movimento americano OWS fra le sue tendenze programmatiche ha una forte attrazione verso il problema dei commons. La rivista americana "n+1" ha pubblicato alcuni opuscoli sul tema immedesimandosi non solo nel movimento, ma facendo proprio un orizzonte che possiamo tranquillamente definire Occupy the commons.
Siamo ovviamente distanti da ogni singola elaborazione che scaturisce dal magmatico movimento, ma l'insieme è chiaramente determinato dalla contraddizione estrema del capitalismo, e cioè dalla antitesi mortale fra la produzione sociale e l'appropriazione privata. Mentre l'evoluzione della nostra specie è ormai più "esterna" che "biologica" (Leroi-Gourhan) e quindi l'organismo sociale con la sua tecnica, organizzazione, ecc. è prevalente su quello individuale, l'esemplificato 1% si pappa tutto e affama il mondo. Quel complementare 1/99, lungi dall'essere un espediente pubblicitario, è un meme che ha avuto successo proprio perché la "legge assoluta del Capitale" non ha mai lavorato così a fondo: il movimento "era nell'aria", pronto a produrre iconografia, liturgia e (purtroppo) teoria.
L'argomento commons ha molto a che fare anche con il vasto mondo del peer to peer (P2P). Michael Bauwens, nell'articolo From the Communism of capital to a Capital for the Commons, pone in evidenza il paradosso per cui grazie alla più comunista delle licenze di condivisione, la General Public License, le multinazionali usano il software libero a fini capitalistici (un esempio su tutti quello di IBM e Linux). Da una parte si verifica la condizione per cui chiunque può utilizzare, modificare e condividere il codice sorgente di un free software, e questo è tecnicamente comunismo: da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i propri bisogni. Dall'altra operatori capitalistici sfruttano anch'essi tale sistema ma per ricavarne profitto a proprio esclusivo vantaggio. In questo modo l'accumulo di beni comuni immateriali, nati da un processo partecipativo e orientato alla condivisione degli stessi, viene sussunto dal processo di accumulazione del Capitale. Per questo motivo Bauwens propone, per eliminare il paradosso, l'istituzione della Peer Production License. La PPL è progettata per attivare e potenziare l'economia reciproca "anti-egemonica", che unisce gli enti cooperativi no-profit mentre prevede la riscossione di un canone per quelli for-profit, che adoperano i software senza contribuire allo sviluppo della condivisione. L'adozione di questo tipo di licenza faciliterebbe la crescita di una "contro-economia", quella dei commons, che potrebbe essere la base di una trasformazione politica e sociale.
Ovviamente la soluzione avanzata non risolve il problema dello sfruttamento dei beni comuni da parte del Capitale, anzi le categorie che si vogliono negare – plusvalore, denaro, scambio, ecc. – verrebbero invece riprodotte. Bauwens però non può fare a meno di notare la sempre più evidente contraddizione tra appropriazione privata e lavoro associato, l'involucro che soffoca un contenuto che più non gli corrisponde.
Prendiamo ad esempio il mondo delle applicazioni e le trasformazioni che si sono avvicendate nel mondo dei servizi online legati a determinati prodotti. Nell'articolo 2014: Year Of The Open Ecosystem si trova una piccola cronistoria sul potere dirompente della tecnologia e delle sue innovazioni. Al giorno d'oggi, con lo sviluppo della app economy e con la predominanza della fornitura dei servizi (continui) sulle merci (discrete), i maggiori marchi si stanno trasformando in ampie piattaforme, basate meno sulle caratteristiche dei loro prodotti e più sull'ampiezza e la qualità delle loro connessioni. Mettendo inoltre a disposizione, in un processo di apertura e feedback con l'ambiente circostante, kit di sviluppo o API per avvantaggiarsi della collaborazione esterna. Apple, Intuit e Kareo, ad esempio, hanno migliaia di sviluppatori che lavorano per migliorare i prodotti e non costano un centesimo alle aziende.
Più che semplici piattaforme sembrano piuttosto degli ecosistemi. E la cosa interessante è che non sono isolati ma interconnessi a loro volta in un ecosistema più grande, dove è fondamentale l'integrazione delle conoscenze che si sviluppano all'esterno delle mura aziendali. Il capitalismo prima genera e poi tenta di adeguarsi proprio a quei meccanismi che rappresentano la sua negazione.
Nell'articolo si sostiene che le innovazioni importanti sono quelle che cambiano il mondo così profondamente che l'ordine precedente diventa insostenibile. Eppure il vero impatto non inizia con l'invenzione, ma con l'adozione della stessa: l'automobile è stata importante non tanto perché ha sostituito il cavallo, ma perché ha creato strade, stazioni di servizio e centri commerciali. La stessa cosa avviene con gli smartphone e le relative app. Esempio: Waze è un'applicazione gratuita di navigazione stradale per dispositivi mobile basata sul crowdsourcing. Più informazioni l'utente immette nel sistema, più interagisce con l'app, più riceve informazioni e aggiornamenti. Secondo un recente studio del politecnico di Milano l'economia legata alle applicazioni varrà 40 miliardi nel 2016, pari al 2,5% del prodotto interno lordo.
Oggi, quindi, il contesto vale più del prodotto, e a questo si aggiunge la necessità di decodificare miliardi di informazioni raccolte in rete e non. Nascono infatti imprese per la gestione dei Big data, enormi volumi di dati provenienti da differenti fonti che, analizzati in tempo reale, determinano un nuovo modo di interpretare e gestire le informazioni, e consentono di ottenere nuove forme di conoscenza aziendale. Anche l'intelligence si è buttata in questo mondo, al fine di prevedere dove potrebbero scoppiare le prossime rivolte: "Prima della rivoluzione dei big data, prevedere il futuro di un paese era un'operazione che coinvolgeva progetti segreti. Le informazioni erano elementi troppo preziosi per condividerle, ma oggi è tutto diverso. E' sempre più difficile mantenere il segreto. E arriva una nuova generazione di modelli di previsione open-source" (Insurrezioni e rivoluzioni, un algoritmo per prevederle: così cambia l'intelligence, da Repubblica del 26 marzo 2014).
Il capitalismo ha la necessità di integrare i lavori differenziati dei singoli operai di fabbrica in un unico prodotto dell'operaio globale e oggi possiamo considerare l'intera produzione capitalistica non come insieme di merci discrete ma come una sola merce continua. Partendo dai caratteri continui della produzione e del valore, Marx definisce il complesso d'industria come mediazione storica, come transizione verso uno stadio sociale più evoluto. Quest'ultimo non sarà creato secondo un modello, come pretendono gli utopisti, ma è già contenuto come elemento comunista in nuce, all'interno della società capitalistica. La rivoluzione sarà liberazione positiva, pratica, di questo elemento esistente.