Ma ora gli Usa hanno capito che non c'è molto da fare per contrastare i nuovi attori nell'area, e che è inutile tenere in piedi una struttura statale farraginosa, corrotta e dissipativa. Perciò abbandonano l'Eurasia al suo destino. La guerra moderna, giova ricordarlo, è molto costosa. Dopo gli accordi di Doha, presi dall'amministrazione Trump nel 2020 e confermati dal presidente Biden, che prevedevano il ritiro delle truppe straniere, c'è stata la rapida dissoluzione di quella parvenza di stato. In poche settimane l'esercito afgano, composto da circa 300 mila uomini, si è squagliato come neve al sole, anche perché i soldati non ricevevano il salario e non avevano perciò alcuna motivazione per combattere. Significativa la dichiarazione del presidente Biden: "La missione era fermare il terrorismo, non costruire una nazione". Dal canto loro i Taliban non hanno perso tempo e si sono subito dichiarati responsabili nei confronti della proprietà privata, e moderati nella politica economica e sociale.
Alcuni analisti hanno fatto un paragone tra l'attuale situazione in Afghanistan e la guerra in Vietnam, quando ci fu la fuga degli americani da Saigon. Dal 1975 ad oggi la situazione mondiale è ulteriormente degenerata, il capitalismo attraversa una crisi strutturale da cui non si vede una via d'uscita. Con la fine dalla guerra in Vietnam iniziò una fase di sviluppo capitalistico che ha portato quel paese ad essere una piccola fabbrica del mondo, mentre attualmente per l'Afghanistan non si prospetta una situazione simile.
La Cina, all'interno di un quadro mondiale che la vede in espansione con la nuova Via della Seta (infrastrutture, reti ferroviari, porti, ecc.), potrebbe trarre vantaggio da questo nuovo assetto geopolitico. Il sottosuolo afgano è ricco di terre rare, materie prime fondamentali per la costruzione degli apparecchi elettronici. Pechino fa quello che vuole in Africa, in Asia e anche nel Pacifico, e non è un caso che The Economist inviti le potenze occidentali a contenere in qualche modo le sue mire espansionistiche. Il colosso asiatico non solo si è preso i porti, ma pure le vie di comunicazione che passano dall'Heartland.
Se la Cina si adagia ancora sul vecchio modo di fare la guerra, gli Usa, al contrario, tra non molto demoliranno le proprie portaerei, mostri pesanti e inadeguati al nuovo tipo di conflitti bellici che si prospettano all'orizzonte. Quando la nostra corrente ha scritto l'articolo "L'imperialismo delle portaerei" si trattava di dimostrare come il colonialismo americano non avesse bisogno delle colonie, ma della proiezione di potenza. Quella dottrina militare è ormai morta. Ed anche la strategia dei soldati rintanati nelle 800 basi americane sparse per il pianeta è superata, dato che quegli agglomerati militari servono solo a dominare popoli più piccoli e impotenti. D'altra parte, le sole basi non portano automaticamente dei risultati perché ogni tanto i fantaccini terrestri devono uscire e combattere: non può esserci un conflitto condotto solo con le macchine. Siamo ancora alla dottrina di Von Klausewitz: la guerra, guerreggiata o meno, deve avere uno scopo e piegare il nemico alla propria volontà.
Nella guerra moderna, combattuta costantemente e anche senza che si sentano i colpi di cannone, è essenziale l'informazione, soprattutto quella tesa a disorientare le popolazioni civili. I governi non fabbricano le notizie, ma i fatti che saranno raccolti dai media come notizia. Gli Stati Uniti maneggiano abilmente tali tecniche: riproducono in continuazione lo scenario nel quale il lupo, alla ricerca di un casus belli per mangiare l'agnello, lo accusa di intorbidargli l'acqua anche se sta bevendo a valle ("Informazione e potere", rivista n 37). Come scrive la Rivista italiana di intelligence Gnosis, "nelle guerre moderne il nemico non esiste più, se non nelle dimensioni di un wargame più o meno complicato". ("Comunicazione, propaganda e guerra"). Termini come "terrorismo", "Bin laden", "bene", "male", "civiltà", sono solo ingredienti con cui si condisce la droga del consenso. C'è sempre simmetria in una guerra, allo stesso modo c'è sempre simmetria nella pura e semplice opposizione alla guerra borghese: per spezzarla occorre mettersi completamente al di fuori del campo avversario, rifiutare di schierarsi con una forza borghese contro l'altra ("Teoria e prassi della nuova politiguerra americana", rivista n. 11).
Sulla guerra in Afghanistan sono stati segnalati i film "The Outpost" (2020), diretto da Rod Lurie e Leoni per agnelli (2007) di Robert Redford, mentre su quella del Golfo ed in particolare sul ruolo dei giornalisti embedded, Three Kings (1999), diretto da David O. Russell.
In chiusura di teleconferenza si è accennato al tema del green pass per le mense aziendali. Ormai al Bar Sport della politica emergono le tesi più strampalate sui vaccini e ognuno si inventa specialista in materia. Invece di affrontare le cose dal punto di vista scientifico e di porsi nell'ottica della salvaguardia della specie, ci si schiera pro o contro il vaccino, pro o contro il green pass, adottando un atteggiamento partigiano. Eppure la dinamica è abbastanza chiara: a febbraio scorso, quando un focolaio di contagi si è sviluppato tra Lombardia e Veneto, è stato siglato il primo accordo tra Confindustria e governo; poi, ad aprile dello stesso anno, sindacati, industriali e Stato hanno firmato un protocollo d'intesa per salvaguardare la produzione manifatturiera nazionale. Il made in Italy è più importante della salute dei salariati e della popolazione in generale.