Informazioni aggiuntive

  • Resoconto teleriunione  17 agosto 2021

Comunicazione, propaganda e guerra

La teleconferenza di martedì sera, connessi 17 compagni, è iniziata commentando gli ultimi sviluppi del conflitto in Afghanistan.

La condizione in cui versa il paese asiatico non è importante in sè, ovvero per la delicata situazione interna, ma per i risvolti internazionali. L'Heartland è un'importante crocevia, è il cuore del mondo, così come lo definiva il geografo Mackinder.

Prima l'Inghilterra, poi la Russia, ed infine gli Usa si sono impantanati in questo territorio difficile da controllare soprattutto per la sua conformazione: appostati all'imboccatura delle valli, bastano pochi uomini per fermare una colonna corazzata (come ha potuto verificare l'esercito russo). Durante la loro permanenza, gli Stati Uniti hanno provato a stanare i guerriglieri dalle grotte utilizzando Daisy Cutter (in italiano taglia margherite), una tipologia di ordigno noto per la sua capacità di radere al suolo una sezione di bosco di circa 1500 m.

Ma ora gli Usa hanno capito che non c'è molto da fare per contrastare i nuovi attori nell'area, e che è inutile tenere in piedi una struttura statale farraginosa, corrotta e dissipativa. Perciò abbandonano l'Eurasia al suo destino. La guerra moderna, giova ricordarlo, è molto costosa. Dopo gli accordi di Doha, presi dall'amministrazione Trump nel 2020 e confermati dal presidente Biden, che prevedevano il ritiro delle truppe straniere, c'è stata la rapida dissoluzione di quella parvenza di stato. In poche settimane l'esercito afgano, composto da circa 300 mila uomini, si è squagliato come neve al sole, anche perché i soldati non ricevevano il salario e non avevano perciò alcuna motivazione per combattere. Significativa la dichiarazione del presidente Biden: "La missione era fermare il terrorismo, non costruire una nazione". Dal canto loro i Taliban non hanno perso tempo e si sono subito dichiarati responsabili nei confronti della proprietà privata, e moderati nella politica economica e sociale.

Alcuni analisti hanno fatto un paragone tra l'attuale situazione in Afghanistan e la guerra in Vietnam, quando ci fu la fuga degli americani da Saigon. Dal 1975 ad oggi la situazione mondiale è ulteriormente degenerata, il capitalismo attraversa una crisi strutturale da cui non si vede una via d'uscita. Con la fine dalla guerra in Vietnam iniziò una fase di sviluppo capitalistico che ha portato quel paese ad essere una piccola fabbrica del mondo, mentre attualmente per l'Afghanistan non si prospetta una situazione simile.

La Cina, all'interno di un quadro mondiale che la vede in espansione con la nuova Via della Seta (infrastrutture, reti ferroviari, porti, ecc.), potrebbe trarre vantaggio da questo nuovo assetto geopolitico. Il sottosuolo afgano è ricco di terre rare, materie prime fondamentali per la costruzione degli apparecchi elettronici. Pechino fa quello che vuole in Africa, in Asia e anche nel Pacifico, e non è un caso che The Economist inviti le potenze occidentali a contenere in qualche modo le sue mire espansionistiche. Il colosso asiatico non solo si è preso i porti, ma pure le vie di comunicazione che passano dall'Heartland.

Se la Cina si adagia ancora sul vecchio modo di fare la guerra, gli Usa, al contrario, tra non molto demoliranno le proprie portaerei, mostri pesanti e inadeguati al nuovo tipo di conflitti bellici che si prospettano all'orizzonte. Quando la nostra corrente ha scritto l'articolo "L'imperialismo delle portaerei" si trattava di dimostrare come il colonialismo americano non avesse bisogno delle colonie, ma della proiezione di potenza. Quella dottrina militare è ormai morta. Ed anche la strategia dei soldati rintanati nelle 800 basi americane sparse per il pianeta è superata, dato che quegli agglomerati militari servono solo a dominare popoli più piccoli e impotenti. D'altra parte, le sole basi non portano automaticamente dei risultati perché ogni tanto i fantaccini terrestri devono uscire e combattere: non può esserci un conflitto condotto solo con le macchine. Siamo ancora alla dottrina di Von Klausewitz: la guerra, guerreggiata o meno, deve avere uno scopo e piegare il nemico alla propria volontà.

Nella guerra moderna, combattuta costantemente e anche senza che si sentano i colpi di cannone, è essenziale l'informazione, soprattutto quella tesa a disorientare le popolazioni civili. I governi non fabbricano le notizie, ma i fatti che saranno raccolti dai media come notizia. Gli Stati Uniti maneggiano abilmente tali tecniche: riproducono in continuazione lo scenario nel quale il lupo, alla ricerca di un casus belli per mangiare l'agnello, lo accusa di intorbidargli l'acqua anche se sta bevendo a valle ("Informazione e potere", rivista n 37). Come scrive la Rivista italiana di intelligence Gnosis, "nelle guerre moderne il nemico non esiste più, se non nelle dimensioni di un wargame più o meno complicato". ("Comunicazione, propaganda e guerra"). Termini come "terrorismo", "Bin laden", "bene", "male", "civiltà", sono solo ingredienti con cui si condisce la droga del consenso. C'è sempre simmetria in una guerra, allo stesso modo c'è sempre simmetria nella pura e semplice opposizione alla guerra borghese: per spezzarla occorre mettersi completamente al di fuori del campo avversario, rifiutare di schierarsi con una forza borghese contro l'altra ("Teoria e prassi della nuova politiguerra americana", rivista n. 11).

Sulla guerra in Afghanistan sono stati segnalati i film "The Outpost" (2020), diretto da Rod Lurie e Leoni per agnelli (2007) di Robert Redford, mentre su quella del Golfo ed in particolare sul ruolo dei giornalisti embedded, Three Kings (1999), diretto da David O. Russell.

In chiusura di teleconferenza si è accennato al tema del green pass per le mense aziendali. Ormai al Bar Sport della politica emergono le tesi più strampalate sui vaccini e ognuno si inventa specialista in materia. Invece di affrontare le cose dal punto di vista scientifico e di porsi nell'ottica della salvaguardia della specie, ci si schiera pro o contro il vaccino, pro o contro il green pass, adottando un atteggiamento partigiano. Eppure la dinamica è abbastanza chiara: a febbraio scorso, quando un focolaio di contagi si è sviluppato tra Lombardia e Veneto, è stato siglato il primo accordo tra Confindustria e governo; poi, ad aprile dello stesso anno, sindacati, industriali e Stato hanno firmato un protocollo d'intesa per salvaguardare la produzione manifatturiera nazionale. Il made in Italy è più importante della salute dei salariati e della popolazione in generale.

Articoli correlati (da tag)

  • Sono mature le condizioni per una società nuova

    La teleriunione di martedì sera è iniziata con alcune considerazioni sulle strutture intermedie tra il partito e la classe.

    Occupy Sandy non era né un sindacato né, tantomeno, un partito, ma una struttura di mutuo-aiuto nata sull'onda dell'emergenza e dell'incapacità della macchina statale di intervenire efficacemente per aiutare la popolazione. In "Partito rivoluzionario e azione economica" (1951) si afferma che, nella prospettiva di ogni movimento rivoluzionario generale, non possono non essere presenti tali fondamentali fattori: un ampio e numeroso proletariato, un vasto strato di organizzazioni intermedie e, ovviamente, la presenza del partito rivoluzionario. Gli organismi di tipo intermedio non devono per forza essere strutture già esistenti (ad esempio i sindacati), ma possono essere forme nuove (come i Soviet in Russia). Il tema è stato approfondito in una corrispondenza con un lettore intitolata "Sovrappopolazione relativa e rivendicazioni sindacali".

    Nella tavola VIII (Schema marxista del capovolgimento della prassi), riportata in "Teoria ed azione nella dottrina marxista" (1951), vediamo che alla base dello schema ci sono le forme ed i rapporti di produzione, le determinazioni economiche e le spinte fisiologiche, che portano la classe a muoversi verso la teoria e la dottrina (partito storico), passando attraverso strutture intermedie. Si tratta di cicli di feedback che irrobustiscono la struttura del partito formale. Quando si parla di classe, partito e rivoluzione bisogna intendere una dinamica, un processo che si precisa nel corso del tempo:

  • Vedere oltre la catastrofe

    La teleriunione di martedì sera è iniziata affrontando il tema delle imminenti elezioni americane.

    Come nota The Economist nell'articolo "The risk of election violence in America is real", il termometro sociale negli USA registra l'aumento della tensione, con toni da guerra civile. Nel nostro testo "Teoria e prassi della nuova politiguerra americana" (2003), abbiamo scritto che "la direzione del moto storico, l'andare verso... è irreversibile. Se il determinismo ha un senso, gli Stati Uniti sono ciò che la storia del globo li ha portati ad essere."

    La polarizzazione economica e politica negli USA è il prodotto di una dinamica storica che possiamo far partire almeno dal 1971, quando il presidente Nixon eliminò l'ancoraggio del dollaro all'oro. Gli Stati Uniti assommano su di sé tutte le contraddizioni del capitalismo mondiale, e non è un caso che proprio lì sia nato un movimento avanzato come Occupy Wall Street che, nei suoi due anni di esistenza, ha voltato le spalle alla politica parlamentare, al leaderismo e al riformismo. Interessante, a tal proposito, la descrizione che viene fatta di Occupy Sandy nel libro Emergenza. Come sopravvivere in un mondo in fiamme di Adam Greenfield:

  • Cresce la tensione ovunque

    La teleriunione di martedì sera è iniziata commentando la situazione di guerra in Medioriente.

    Recentemente, le forze di difesa israeliane hanno preso di mira le basi UNIFIL presenti nel sud del Libano, lungo la "linea blu", con il chiaro intento di farle evacuare. Nell'attacco sono state distrutte le telecamere e le torrette di osservazione, e ci sono stati alcuni feriti tra i caschi blu. I ministri degli Esteri di Francia, Germania, Italia e Regno Unito hanno manifestato il loro disappunto, mentre Israele ha dichiarato di aver precedentemente invitato il comando UNIFIL a ritirarsi. Le truppe dell'ONU sono presenti in Libano dagli inizi degli anni '80 in quanto "forza militare di interposizione", ma evidentemente il tempo della mediazione è finito per lasciare spazio a quello della guerra aperta.

Rivista n°55, luglio 2024

copertina n° 55

Editoriale: Non potete fermarvi

Articoli: Evoluzione extra biologica - Transizione di fase. Prove generali di guerra

Rassegna: Presa d'atto - Il capitalismo è morto

Recensione: Dallo sciopero, alla rivolta, alla Comune - Guerra civile negli USA, ma non quella vera

Doppia direzione: Il programma immediato non ammette mediazioni

Raccolta della rivista n+1

Newsletter 245, 19 gennaio 2022

f6Libertà

Viviamo in una società che scoppia. I suoi membri, divisi o raggruppati secondo criteri il più delle volte arbitrari e casuali, non riescono più a darsi un'identità plausibile. La pandemia, invece di compattare gli individui intorno a provvedimenti utili alla salvaguardia della specie, ha aggravato la situazione facendo emergere ataviche tendenze all'irrazionale.

Continua a leggere la newsletter 245
Leggi le altre newsletter

Abbonati alla rivista

Per abbonarti (euro 20, minimo 4 numeri) richiedi l'ultimo numero uscito, te lo invieremo gratuitamente con allegato un bollettino di Conto Corrente Postale prestampato.
Scrivi a : mail2

Iscriviti alla newsletter

Iscriviti alla newsletter quindicinale di n+1.

Invia una mail a indirizzo email