Insomma, non cambiano le linee guida individuate nel numero speciale della rivista sull'energia; assistiamo però ad una evidente accelerazione soprattutto nell'erosione dei già fragili equilibri internazionali (ad esempio la chiusura, notizia di qualche giorno fa, del progetto South Stream). Se negli anni '70 – '80 il capitalismo riusciva a gestire la chiusura di alcuni pozzi, oggi diminuire la produzione significa colpire le economie di tutti gli altri paesi esportatori di petrolio (Russia, Venezuela, Nigeria, ecc). Federico Rampini sulle pagine di Repubblica spiega il terremoto energetico in corso ponendo l'accento sul calo della domanda globale:
"L'eurozona in piena depressione; il Giappone ripiombato nella sua stagnazione secolare; ora la Cina che rallenta vistosamente. E' la caduta dei consumi di tutte le materie prime, un effetto e un sintomo di questa glaciazione globale. L'America da sola teme di non riuscire a fare da locomotiva per il resto del mondo. Dalla Cina all'Europa tutti esportano deflazione: il petrolio è diventato vettore di questo contagio".
L'avanzata dell'IS in Medio oriente, fenomeno che rientra nel più generale movimento di dissoluzione degli Stati, potrebbe complicare ancor di più la situazione. Dopo aver conquistato una cinquantina di villaggi nel deserto e l'importante città di Mosul (2,8 milioni di abitanti e mezza banca centrale irachena), adesso lo Stato Islamico conta sulla crescita esponenziale delle adesioni soprattutto da parte di gruppi asiatici. Il califfato controlla una superficie grande quanto l'Inghilterra e ha una linea di forza che segue l'Eufrate dalla Turchia al Golfo Persico; sta diventando talmente potente che si permette di assediare Baghdad e, tra non molto, circondare Damasco. Se in Siria cadesse il regime di Assad e l'Iraq venisse a sua volta travolto, il petrolio iracheno potrebbe diventare decisivo: agli americani converrà di più re-invadere l'Iraq o comprare a basso prezzo, di contrabbando, il petrolio dai tagliagole dell'IS?
Anche sul fronte interno si moltiplicano i grattacapi per gli americani. Lo sciopero nella giornata del Black Friday dei lavoratori della Walmart (il movimento OUR Walmart è assolutamente inclusive e si coordina attraverso la Rete) si è intrecciato spontaneamente con le mobilitazioni Black Lives Matter indette per lo stesso giorno. La lotta contro la brutalità della polizia, che difende il regime dell'1%, e la richiesta di un salario "dignitoso" vanno di pari passo: dalle rivolte di Ferguson agli scioperi della Walmart passando per quelli dei Fast Food (il prossimo il 4 dicembre), ci troviamo di fronte ad un movimento unico. Sui cartelli dei manifestanti è spiccato uno slogan più incisivo di mille proclami: fighting to live, not just survive.
Anche in Italia, il prossimo 9 dicembre, sono previste diverse manifestazioni promosse dai Forconi, quel movimento che lo stesso giorno dell'anno scorso ha praticato blocchi del traffico ed eventi di piazza in tutto il paese. Accumulare rabbia e sfogarla improvvisamente è una caratteristica dei rappresentanti delle non-classi: non potendo legarsi ad una classe vera e propria sono costretti ad annaspare triturati tra le due grandi della società, borghesia e proletariato.
Anche reti sociali e sindacali hanno lanciato un loro appuntamento: il 3 dicembre tenteranno di assediare il Senato in occasione del voto di fiducia al Job Acts. Invece di anticipare la situazione futura, nel "movimento" prevale l'indignazione e la difesa di un passato concertativo che non c'è più; paradossalmente, è più anti-forma la borghesia che elimina quegli istituti legislativi e contrattuali che la nostra corrente storica denunciava come impedimento al libero manifestarsi della lotta rivendicativa. E mentre Cgil e Uil si preparano allo sciopero generale del 12 dicembre, il governo fa proprie (a parole) le rivendicazioni storiche del movimento operaio quali il contratto unico di lavoro e il salario ai disoccupati. Contro questo programma scioperano i sindacati, come la Fiom, firmatari dei peggiori accordi capestro: sono talmente spiazzati da non essere in grado di capire quel che Renzi va dicendo. Nemmeno i seriosissimi riformisti che dirigevano la CGL degli anni '20 avevano nei loro programmi il salario ai disoccupati e il contratto unico per tutti i lavoratori al di là delle categorie di appartenenza (Verso il collasso epocale, n+1 n. 36): un sindacato che facesse il suo mestiere incalzerebbe il governo sulle promesse fatte e non perderebbe tempo nella difesa impotente dell'articolo 18. Si dissolve quindi anche la capacità mistificatoria delle centrali sindacali e con essa il controllo esercitato sui lavoratori (Necessarie dissoluzioni, n+1 n. 36).