In un articolo del Corriere, il giornalista Guido Olimpio afferma: "L'episodio del jet è stato preceduto da incidenti minori, una spia della tensione. Inevitabile vista la concentrazione di velivoli, armati, disposti in un'area ristretta". Più paesi stanno intervenendo contemporaneamente in Siria, sono infatti circa una decina le forze aeree che operano nei cieli siriani. E mentre Raqqa viene rasa al suolo, a Tunisi salta in aria un autobus delle forze di sicurezza (azione rivendicata dall'IS), secondo quella dinamica per cui ad un bombardamento in una parte del mondo corrisponde un attentato in un'altra.
In questo scenario è significativo l'attendismo militare americano: lo sbirro mondiale si dimostra incapace a gestire gli interessi generali del Capitale. Ancora freschi degli interventi in Iraq e Afghanistan, gli Stati Uniti devono mantenere il controllo di centinaia di basi sparse per il mondo e faticano a prendere in mano la situazione. Ma qualcosa comincia a muoversi: la Stampa nell'articolo Attacco in Siria su quattro fonti (ma divisi) annuncia un imminente dispiegamento di forze speciali americane sul territorio siriano.
Questo tipo di guerra, finora fatto passare dai media come una serie d'interventi parziali, si sta configurando come un vero e proprio conflitto mondiale. L'abbattimento del Sukhoi da parte turca sposta la discussione dalla tattica militare al ben più cruciale problema della strategia. Questa situazione non può evolvere in uno scontro frontale tra grossi paesi come avvenuto con la Seconda Guerra Mondiale, e tantomeno può essere letta come un periodo di interguerra in cui avviene la preparazione dello scontro. Ripetendo pappagallescamente quanto affermava Lenin, alcuni dimenticano che il concetto d'interguerra presuppone un periodo di relativa pace, che invece da alcuni decenni a questa parte non c'è più.
La guerra endemica e la crisi cronica del capitalismo durano ormai da anni e nessuna forza in campo riesce a contenere un mondo in rovina. Gli scontri armati si moltiplicano: dal Libano allo Yemen, dalla Francia al Belgio (dove la capitale è stata bloccata per giorni in uno stato d'assedio). L'espansione del jihadismo è assolutamente incontrollabile, le sue masse di militanti si muovono facilmente tra stati collassati e terre di nessuno. E sono milioni le persone disperate che ingrossano i flussi migratori e che nessuno può fermare, nemmeno con i cannoni.
A tutto ciò si aggiunge, per ogni stato, il problema del fronte interno. Qualche giorno fa a Minneapolis una manifestazione indetta da #BlackLivesMatter, il movimento nato in reazione alla violenza della polizia contro i proletari afroamericani, è stata attaccata con armi da fuoco da alcuni suprematisti bianchi. Ci sono stati diversi feriti e la polizia ha disperso il corteo sparando gas lacrimogeni sui manifestanti. Episodi di questo tipo negli Usa si ripetono sempre più spesso. Per quel che riguarda l'Italietta, l'Istat dichiara che la povertà minaccia oltre una persona su quattro e la situazione non fa che peggiorare.
In chiusura di teleconferenza un compagno ha segnalato un interessante articolo del Venerdì di Repubblica (13 novembre 2015) sulla logistica e il trasporto merce via mare: navi lunghe mezzo chilometro, che trasportano ventimila container a volta e vanno ad una velocità media di 30 km l'ora, viaggiano nei mari e negli oceani con un equipaggio composto da non più di una ventina di persone visto che il 95% del lavoro lo fa il computer. Le potenzialità dei moderni mezzi di comunicazione e trasporto sono rese nulle dalla crisi di valorizzazione del Capitale. Queste infrastrutture sono un prodotto del capitalismo, ma, al tempo stesso, marcati sintomi di società futura.