Lo Stato Islamico è nato finanziario, quindi modernissimo. Il petrolio, una delle sue fonti primarie di ricchezza, è rendita e questa è una quota del plusvalore estratto dalla forza-lavoro mondiale. I paesi imperialisti hanno sempre cercato di mantenere il petrolio in mano ad organismi o istituzioni controllabili (anche se nei fatti Arabia Saudita, Emirati e Qatar sono moderne coalizioni tribali che difficilmente possono essere definite stati). Daesh è collegato al circuito finanziario internazionale ed è perciò un terminale del capitalismo globale. Esso ha però poca potenza militare e controlla solo le principali vie di comunicazione, è infatti bastato l'intervento dell'aviazione russa per consentire una controffensiva dell'esercito di Assad. Uno Stato deve essere caratterizzato da una borghesia con una storia nazionale, l'IS in questo senso è un mix di antico e moderno, una sovrapposizione alla Flash Gordon. I califfati antichi a cui lo Stato Islamico si richiama ebbero un enorme crescita geopolitica e furono centri di sviluppo tecnico, scientifico e artistico. Non c'è paragone possibile con le aspirazioni neo-nazionalistiche attuali. La nascita di uno stato sunnita sui resti del partito baathista, specie in funzione anti-iraniana, poteva essere una buona soluzione per gli Usa; invece la situazione è diventata incontrollabile e ora gli yankee non riescono nemmeno a fare una politica imperialistica degna di questo nome.
L'ultimo numero dell'Economist definisce gli Stati Uniti una "superpotenza problematica". Proprio perché è la massima potenza economico-militare con circa il 20% del Pil mondiale (dal 52% del dopoguerra), una crisi del dollaro risulterebbe pericolosissima per l'equilibrio del mondo capitalistico. Secondo alcune proiezioni, nel 2023 le attività in dollari all'estero saranno superiori a quelle negli USA. Insomma, l'allarme per l'economia mondiale arriva proprio da quella che era la sua locomotiva.
Si è passati poi alle notizie sindacali: sono diventate virali le immagini dei manager di Air France che fuggono dai lavoratori dopo aver annunciato il licenziamento di 2.900 unità. La Francia ha visto spesso questo tipo di manifestazioni: quando gli operai entrano in lotta esprimono forme di radicalità con sequestri di dirigenti e manager. A cogliere la palla al balzo ci ha pensato il segretario nostrano della Fiom, che ha dichiarato: "Per difendere il lavoro pronto ad occupare le fabbriche". Questa proposizione è stata duramente combattuta dalla nostra corrente, si legga per esempio l'articolo del Soviet del 22 febbraio 1920: Prendere la fabbrica o prendere il potere?
I proclami dei bonzi sindacali non hanno valenza neanche dal punto di vista strettamente riformista. Il sindacato dovrebbe incalzare l'esecutivo pretendendo migliori salari per i lavoratori, sfidando il governo su quanto esso stesso aveva promesso: un contratto unico per tutti al di là delle categorie di mestiere, e sussidi di disoccupazione per chi resta senza lavoro. Invece niente, tutto tace. Bisogna puntare tutto sul coordinamento e l'auto-organizzazione dei lavoratori in lotta.
In chiusura di teleconferenza un compagno ha segnalato l'articolo Il ritorno del futuro di Valerio Mattioli, in particolare il capitolo Fine del capitalismo?, dove si parla di automazione totale, sviluppo senza limiti delle tecnologie, fine del lavoro, reddito di base per tutti e diritto alla pigrizia. La tesi di fondo è che non bisogna opporsi alle veloci trasformazioni tecnologiche, ma accelerare questi processi in modo da avvicinarsi sempre più al futuro.
Fino a qualche anno fa era difficile parlare di lotta contro il lavoro salariato, oggi invece vengono pubblicati articoli, studi e analisi sulla fine del lavoro e sul bisogno di un salario universale di sopravvivenza. Per fortuna i Landini di turno, che ancora invocano investimenti e lavoro, iniziano sempre più ad apparire come dei dinosauri mentre nuove visioni del futuro cominciano a circolare con velocità crescente. E' un brodo primordiale, ancora pieno di impurità, ma appare chiara la tendenza a riscoprire, anche se a volte per vie tortuose, il programma storico del partito della rivoluzione.