Nei giorni scorsi abbiamo seguito anche le lotte dei rider del food delivery che vanno crescendo e allargandosi in tutta Europa, e non solo. Dai primi sporadici scioperi del 2016 si è passati a circa 39 mobilitazioni nel 2017, e sembra che il 2018 procederà allo stesso ritmo. Il 1° gennaio scorso i corrieri di Deliveroo di Amsterdam hanno incrociato le braccia per protestare contro il cambio "forzato" di contratto, imposto dall'azienda per trasformare tutti i fattorini da dipendenti a freelance. Una settimana più tardi l'azienda ha annunciato la medesima variazione anche a Bruxelles e i rider belgi hanno immediatamente organizzato lo sciopero e una biciclettata in centro città. Il collettivo autorganizzato Collectif des coursier-e-s / KoeriersKollectief rappresenta circa 200 fattorini belgi e su Twitter e Facebook sta registrando la solidarietà di ciclofattorini di città come Torino, Milano e Bologna. Di fronte all'indifferenza di Deliveroo, i rider hanno successivamente occupato la sede dell'azienda nella capitale, chiamando a raccolta solidali, precari e disoccupati a sostegno della loro lotta, che dicono essere quella di tutti. A Lille, in Francia, lo scorso 20 gennaio uno sciopero spontaneo ha coinvolto i lavoratori di UberEats e quattro giorni più tardi hanno dimostrato i lavoratori di Foodora e Deliveroo a Berlino. Anche ad Hong Kong, il 22 e 23 gennaio, Deliveroo è stata colpita da uno sciopero dei fattorini. A far scattare la protesta nella metropoli asiatica è stata la decisione dell'azienda di chiudere l'applicazione nei momenti di minore intensità, lasciando i corrieri senza consegne e quindi senza paga.
Cosa possono rivendicare questi lavoratori? E' ovvio che cerchino di strappare un aumento di salario e delle garanzie che permettano loro di sopravvivere, ma i fattorini 2.0 sono proletari ad un punto di svolta, precari che vivono una situazione talmente estrema dal punto di vista del rapporto di lavoro che non potranno che contare sulle loro forze, mettendo in campo un coordinamento internazionale di lotta. Se quella dei metalmeccanici tedeschi è una lotta classica che vede il sindacato mobilitare i suoi iscritti (pagando pure le giornate di sciopero), nel settore della gig-economy è difficile ipotizzare la possibilità di un compromesso neo-corporativo: non potendo lottare per un posto di lavoro che non c'è più, i lavoratori saranno costretti a riscoprire la forza dell'organizzazione immediata territoriale collegandosi a/in rete con altri precari.
Al fenomeno della gig-economy, la CGIL cerca di rispondere con una Conferenza di programma dal titolo "BUON LAVORO. Governare l'innovazione, contrattare la digitalizzazione". Ascoltando gli audio degli interventi si capisce bene che i bonzi sindacali, pur sforzandosi di ammodernare il linguaggio, non riescono proprio a cambiare paradigma. Sono fermi al contratto con firma e non concepiscono altri orizzonti d'intervento. Eppure il mondo cambia molto velocemente. Il ricercatore Antonio Casilli in un articolo pubblicato su il manifesto, intitolato "Sulle piattaforme digitali siamo tutti operai del click", scrive:
"Le stime del micro-lavoro a livello mondiale oscillano fra i 100 e i 300 milioni di effettivi, concentrati principalmente in Kenya, India, Bangladesh, Cina. Ma anche in Romania, nel Madagascar, nelle Filippine, dove soppiantano oramai i tradizionali call center. I loro committenti sono americani, inglesi, francesi."
Negli Usa il 5% degli americani lavora come freelance per piattaforme come Amazon Mechanical Turk e alcuni analisti prevedono che entro il 2027 quasi un terzo della popolazione Usa farà parte dell'esercito dei click workers. Con l'erogazione internazionale di plusvalore su piattaforme digitali che utilizzano collaboratori esterni (crowdworking), sparisce il concetto stesso di contrattazione e restano forme di ipersfruttamento, di schiavitù 2.0, che nessuno riesce più a controllare. Ciò significa che quando si generalizzerà la lotta, si passerà immediatamente ad un livello di scontro politico.
A proposito di nuove schiavitù, un compagno ha segnalato un articolo pubblicato su Econopoly, blog de Il Sole 24 Ore dal titolo emblematico "Reintrodurre la schiavitù è o no un'opzione per la società moderna?", in cui leggiamo:
"La schiavitù è spesso vista con un'accezione negativa. Tuttavia si può notare come una larga parte della storia dell'umanità abbia visto regni, imperi e persino nazioni democratiche (con un sistema di elezioni popolari come gli stati americani) utilizzare gli schiavi per differenti mansioni e ruoli. L'abolizione della schiavitù è un fenomeno piuttosto recente. Poco più di due secoli. Tuttavia se sulla carta la schiavitù, nella sua accezione più brutale, è stata bandita, così non si può dire nei fatti. Con nomi differenti esiste e prolifera ancora in una buona parte del mondo."
Il ritorno moderno di forme schiavistiche non va inteso come un passo indietro nella storia poiché è il risultato della fame di forza-lavoro a basso prezzo del capitalismo avanzato. Nel moderno processo di produzione, che vede un ampio utilizzo di tecnologie, l'operaio prima è passato a fare il sorvegliante delle macchine e poi è stato spinto fuori dalla fabbrica e gettato nella sovrappopolazione relativa e infine in quella assoluta, senza alcuna possibilità di essere riutilizzato. Ormai una merce simbolo come l'automobile ingloba nel suo prezzo di produzione circa il 5% di lavoro vivo. L'automazione elimina lavoro umano e costringe gli operai a vendersi a basso prezzo e questo fenomeno rallenta lo sviluppo delle forze produttive, perché è molto più conveniente impiegare degli schiavi che investire in nuovi macchinari.
Nel più volte ricordato Rapporto segreto da Iron Mountain (1967), un documento fantapolitico - ma non troppo - attribuito a Kenneth Galbraith, si descrive la necessità capitalistica della guerra, intesa come fenomeno utile per attivare nuovi cicli economici, in alternativa della quale, la schiavitù rappresenta un buon sostituto. Ma non sarà sufficiente, la società borghese è già arrivata a un punto limite in cui non può più nutrirsi con il lavoro dei propri schiavi ma è costretta a nutrirli. Di qui il dibattito in corso a livello mondiale sulla necessità o meno di un reddito di base o di cittadinanza.
Sul tema della guerra moderna, l'ultimo numero dell'Economist è uscito con una serie di articoli dedicati all'alleggerimento dei mezzi militari in dotazione agli stati e alla guerra civile diffusa. Nell'articolo "The growing danger of great-power conflict" si descrive il ruolo di Cina e Russia i cui interessi non potranno che cozzare contro quelli americani. Comunque, se il capitalismo soffre di sovrapproduzione e il sistema produttivo si alleggerisce sempre più, anche la guerra, come massima espressione della società del Capitale, deve rispecchiare queste caratteristiche. E infatti nei conflitti armati d'oggi si utilizzano sempre più soldati in outsourging (contractors), partigianerie varie e tecnologie avanzate.
In Afghanistan una serie di attentati hanno provocato centinaia di vittime. La missione Enduring Freedom, condotta dagli Usa, è costata circa 2 mila miliardi di dollari e non ha raggiunto nemmeno uno degli obiettivi prefissati: il territorio è in mano a forze irregolari afghane, della democrazia neppure parlarne, le donne non sono state "liberate" e il papavero da oppio si coltiva più di prima. L'heartland è al centro di uno scontro di tutti contro tutti (Usa, Russia, Cina, India, Iran, ecc.), dove tribù e milizie al soldo dei signori della guerra hanno preso il controllo di intere aree, sostituendosi a ciò che resta dello stato.
Se fino alla Seconda guerra mondiale erano possibili coalizioni e fronti netti, una situazione di quel tipo oggi sembra irripetibile. La guerra moderna è al livello della sparatoria casa per casa (Mosul insegna), coinvolge inevitabilmente i civili e vede i fronti polverizzarsi in mille gruppi e sotto-gruppi in lotta tra loro. Le attuali guerre a macchia di leopardo sono come fumo negli occhi per gli stati, poiché forze combattenti con mezzi relativamente limitati possono inceppare la logistica dei grandi eserciti facendo saltare o semplicemente sabotando le linee di rifornimento.