Il rapporto Oxfam può essere commentato partendo da un brano di "Precisazioni su marxismo e miseria e lotta di classe e offensive padronali", in cui si dice: "Più accumulazione, minor numero di borghesi. Più accumulazione, maggior numero di operai, ancor maggior numero di proletari semioccupati e disoccupati, e di peso morto di sovrappopolazione senza risorse. Più accumulazione, più ricchezza borghese, più miseria proletaria".
Questi processi sono ormai talmente evidenti che gli stessi borghesi, nelle loro ricerche o nei titoli dei giornali, sono costretti a parlarne e a richiamarsi, tra l'altro, proprio allo slogan diffuso da Occupy Wall Street nel 2011 individuando i due poli di accumulazione come 1% e 99%. Eclatanti capitolazioni ideologiche di fronte al lavoro teorico di Marx.
Il tema della diseguaglianza nel mondo si collega ad una serie di considerazioni, inviate da un compagno, sul libro Capitalism without Capital. The Rise of the Intangible Economy, scritto dagli economisti Jonathan Haskel e Stian Westlake. Il testo è uscito nel 2017 e tratta della rivoluzione silenziosa dell'economia immateriale, la cui ascesa ha avuto inizio nei paesi sviluppati dove gli investimenti si sono diretti sempre di più verso beni intangibili (design, software, brevetti, etc.) a scapito di quelli materiali, sviluppando una dinamica di cui abbiamo parlato spesso in passato soprattutto in riferimento alla struttura del Pil degli Stati Uniti.
I due studiosi sollevano un tema non solo interessante ma significativo e che appare in tutta la sua portata guardando, per esempio, alla configurazione assunta dalle grandi aziende del settore informatico-tecnologico. Amazon, Twitter, Facebook, Google sono tutte imprese con un esiguo numero di dipendenti e una grande capitalizzazione in Borsa data da asset immateriali che vengono contabilizzati come beni materiali. Tale aspetto rientra nel filone del capitalismo che nega sé stesso, in cui sempre meno lavoro vivo mette in moto sempre più lavoro morto. Questa massa di capitale intangibile è una merce particolare che per le sue proprietà può essere replicata un numero infinito di volte, arrivando ad avere, per dirla con J. Rifkin, un costo marginale quasi uguale a zero e assestandosi su un paradigma basato non più sulla scarsità ma sulla riproducibilità.
Nel suo editoriale sul libro di Haskel e Westlake, il Guardian preferisce dare risalto, tra i vari argomenti affrontati, all'aspetto monopolistico delle grandi aziende della Rete e al fatto che la loro ricchezza non sia fondata su fabbriche e stabilimenti ma su algoritmi, secondo uno schema che ha cominciato a prender piede nei primi anni del 2000 e che ha portato allo sviluppo di un'economia in cui i prodotti sono immateriali e, sostanzialmente, replicabili. Tali aziende sono centralizzate al massimo livello e vivono dell'accumulazione di informazioni (dati) che non producono direttamente, ma pescandole dalle attività online di chi utilizza i loro servizi. Secondo il Guardian questa dinamica di monopolio finisce per provocare povertà e miseria. Ma lasciando i giornali e tornando ad articoli come "Merci immateriali", notiamo che, come anticipato da Marx nel VI capitolo inedito, il processo irreversibile di smaterializzazione delle merci e automazione della produzione porterà a toccare il limite che tanto spaventa gli economisti e cioè una disoccupazione di massa e la diffusione di lavoretti pagati poco (gig-economy): la tristemente nota schiavitù 2.0. Se per i borghesi si tratta di una questione che sta diventando pressante, affrontata come problema di ordine tecnico o sociologico, per noi è indice di un capitalismo che sta cambiando natura e rappresenta la liberazione di tempo di vita.
Anche in riferimento alla moneta, il rapporto delle merci intangibili con il denaro appare complicato, dato che vengono meno tutti i paradigmi elencati da Marx riguardo al denaro come forma fenomenica del valore. Il capitalismo rimane capitalismo, sia che produca auto sia che sforni software; ma se l'automazione/robotizzazione/smaterializzazione dell'economia si generalizza coinvolgendo tutti i paesi, allora si verificano delle variazioni sostanziali nella struttura delle merci, che non sono più oggetti discreti consumabili una sola volta, ma si trasformano piuttosto in un flusso continuo pagato a canone. La borghesia, pur comprendendo che è in atto una tendenza inesorabile che va dalla pesantezza verso la leggerezza, non ha la forza per cambiare rotta.
Ritornando a Capitalism without Capital, qualcuno potrebbe notare l'assonanza con quanto scritto nel testo della nostra corrente "Proprietà e capitale" (XII - La modema impresa senza proprietà e senza finanza). In realtà si tratta di due cose completamente differenti: mentre è provato che può esistere un capitalismo senza capitalisti, un capitalismo senza capitale proprio non può esistere. Anche la questione del monopolio, che è tendenza naturale dell'attuale modo di produzione, è importante. Quando non si mobilitano grandi masse di capitale costante, diventa facile prendere il sopravvento sui concorrenti e arrivare ad avere una posizione predominante ottenendo un sovraprofitto. Il quale però viene dalla rendita, fattore di sofferenza per il capitale.
Anche nell'ultimo numero dell'Economist, nell'articolo "How to tame the tech titans", si analizza il fenomeno dei big della Rete dal punto di vista del monopolio e della concorrenza. Come ricordato sopra, queste grandi aziende acquisiscono attraverso la profilazione una montagna di dati personali; sarebbe perciò diritto dei clienti, si sostiene nell'articolo, avere l'accesso alle informazioni raccolte secondo regole stabilite dall'autorità preposta. In tutta la faccenda, ciò che è davvero interessante non è tanto l'appropriazione privata dei profili degli utenti, ma l'evidenziarsi del carattere profondamente parassitario del sistema, per cui organismi economici vivono di un qualcosa che è prodotto al di fuori della loro produzione.
Alcuni, sostenitori del reddito di base, riguardo al pressante problema della mancanza di lavoro, collegano questa peculiarità del nostro tempo – il fatto che tutti noi, utilizzando Internet, produciamo dati da cui altri traggono profitto - alla necessità di una qualche forma di salario erogata universalmente. Altri, come Marta Fana, l'autrice del libro Non è lavoro, è sfruttamento nella cui lettura si rimane colpiti di fronte ai dati e ai racconti di uno sfruttamento e una schiavitù generalizzati, credono invece, con lo sguardo rivolto al passato anziché al futuro, che i lavoratori dovrebbero lottare per la Costituzione e la sua difesa.
Le forme di precarietà estrema sono il risultato di un modo di produzione che è arrivato al capolinea e sta raschiando il fondo del barile. Se il lavoro è diventato precario al massimo e addirittura gratuito (stage, tirocini, ecc.), è vero, si tratta di ultra-sfruttamento e ciò è negativo per chi lo subisce, ma significa anche che ci stiamo avvicinando ad un punto di rottura (rivoluzionaria). Proprio ciò che i sinistri demo-costituzionalisti vogliono scongiurare.
La teleconferenza si è conclusa con delle veloci riflessioni sui seguenti punti: - articoli pubblicati dal BIN: "Spagna: in marcia verso Madrid per chiedere un reddito di base", "Verso il Congresso mondiale delle reti per il reddito 2018 in Finlandia"; - i lauti compensi dei burocrati sindacali e la loro subalternità alle necessità di accumulazione del Capitale: Raffaele Bonanni, ex segretario della Cisl e oggi affermato broker assicurativo, si candida con Forza Italia; - le notizie sulle stime di astensione dei giovani alle prossime elezioni in Italia; - il tema delle baby gang che sulle tratte dei pendolari molestano i passeggeri come particolare fenomeno di dissoluzione sociale; - il nuovo blog di Beppe Grillo e lo smarcamento del guru genovese dal M5S.