In situazione di crisi, i singoli paesi reagiscono intervenendo a sostegno di uno o più comparti produttivi e introducendo misure tese a limitare od ostacolare la concorrenza dei prodotti stranieri. Ma il protezionismo produce ulteriore protezionismo, con il risultato di aggravare la stessa crisi. Mentre Donald Trump fa la voce grossa con gli stati europei che vogliono introdurre una tassa per i giganti del Web, i produttori agricoli americani lamentano, a causa dei dazi cinesi, forti difficoltà nell'esportazione in Cina, la quale, negli ultimi tempi, si è orientata verso le derrate agricole prodotte da Argentina e Brasile, paesi a loro volta sottoposti a dazi da parte del governo americano. Quando la coperta si fa stretta, la competizione tra le varie economie si acutizza assumendo i caratteri di una vera e propria guerra. L'Economist afferma che il WTO, per come lo conoscevamo, non esiste più, perché si sta disgregando quell'insieme di rapporti tra paesi capitalisti che ha retto il mondo fino a poco tempo fa. Gli Usa sono legati a doppio filo alla Cina, ma allo stesso tempo impongono e subiscono la guerra dei dazi. L'Europa non è un'entità politica unitaria, con Germania, Francia e Italia che hanno politiche del tutto indipendenti l'una dall'altra; l'Unione Europea non è che una metafora e l'euro una non-moneta. E la Russia, che pur avendo ristrutturato in questi ultimi anni il suo esercito, non è mai diventato un polo produttivo e finanziario in grado di attirare capitali e, anzi, la sua economia arranca. Gli Stati Uniti non si possono fermare, devono per forza fare la guerra (preventiva) a tutti, continuando ad alimentare le loro 800 basi sparse per il mondo. Le attuali espressioni dirette di forza militare, e ancor più quelle future, si producono proprio a causa della loro crescente debolezza.
In campo sociale, si estendono le mobilitazioni e le rivolte. Nei giorni scorsi hanno manifestato gli agricoltori tedeschi e francesi. La Francia, in particolare, è in pieno marasma: per giovedì 5 dicembre è previsto un grosso sciopero generale contro la riforma delle pensioni, e il sabato seguente, come da un anno a questa parte, ci sarà la consueta manifestazione dei gilet gialli. In vista della mobilitazione sindacale, sono già 300 le stazioni di servizio rimaste senza carburante a causa del blocco dei depositi di Brest, in Bretagna; in generale, tutti i settori, dai ferrovieri agli ospedalieri fino ai trasporti pubblici, sono in agitazione. Il dispositivo di sicurezza messo in atto dalla polizia francese, soprattutto a Parigi, è imponente ed il governo è molto preoccupato per l'evoluzione della situazione. Il livello di disordine sociale raggiunto è irreversibile: come il capitalismo non ritornerà al boom della crescita post Seconda Guerra Mondiale, così non possiamo pensare che gli scioperi e le manifestazioni non si acutizzino ed estendano, divenendo persistenti.
Se in Francia c'è tensione (tra i gilet gialli si contano 11 morti e migliaia di feriti, 10 mila arrestati, di cui un terzo condannati), non è che il resto del mondo sia pacificato. In Colombia da 10 giorni va avanti una mobilitazione che coinvolge tutta la società. In Iran, secondo Amnesty International i manifestanti morti sarebbero 208, e sembra che si tratti di stime al ribasso; il New York Times riporta la notizia di intere città rimaste per giorni in mano ai ribelli armati, e assediate dalla polizia che infine è entrata compiendo massacri e arrestando centinaia di persone. Anche in Iraq, dove in seguito alle proteste il presidente Mahdi si è dimesso, i morti sono centinaia.
Registriamo a livello mondiale un fenomeno generale di dissoluzione del vecchio paradigma. Sta sparendo, per esempio, quello rivendicativo. Anche il battilocchio, il leader movimentista, è scomparso dalla scena. Il giornale online Il Post ha pubblicato un articolo, intitolato "I movimenti senza leader", che riprende una ricerca apparsa sulla rivista liberal americana The Atlantic secondo cui tutti i movimenti di questi mesi, dal Libano all'Iraq, dalla Francia all'Iran passando per il Sud America, sono accomunati dal fatto di non avere un leader, di essere autorganizzati, e di comunicare attraverso Internet: "L'uso dei social media ha avuto un ruolo significativo, ovviamente, contribuendo all'assenza di personalizzazioni: ma la mancanza di una gerarchia interna è in qualche modo intrinseca ai movimenti stessi, e non è casuale né senza precedenti."
"Siamo il 99% contro l'1% e non accettiamo il vostro sistema", affermavano quelli di Occupy Wall Street, che a Denver avevano eletto una cagnetta di passaggio a loro capo supremo. Gli occupiers americani hanno realizzato delle comunità anticapitaliste urbane, saldandosi al proletariato sindacalizzato e non, come durante lo sciopero della West Coast del 2012.
In Italia, in decine di piazze è sceso a manifestare il "popolo" delle sardine. Si tratta di giovani e meno giovani che dicono di non essere adeguatamente rappresentati dalla sinistra parlamentare, e perciò rifiutano slogan e bandiere di partito. Dicono anche di non accettare le politiche dell'odio alimentate dalla Lega e di voler difendere la democrazia. Queste sardine, educate e coscienziose, sono un passo indietro rispetto ai grillini dei "Vaffa Days". Detto questo, quando migliaia di persone scendono in piazza, vuol dire che c'è un disagio sociale crescente.
A proposito di miseria politica, in seguito all'annuncio di Unicredit di un taglio del personale che si aggira intorno agli 8 mila dipendenti, il segretario della CGIL ha dichiarato indignato che "questo non è fare impresa, è essere irresponsabili. Non lo possiamo accettare. Il governo non può accettarlo. Prima di aprire un gravissimo conflitto Unicredit riveda tutto". Secondo Landini, "il sindacato sta dando l'anima per salvare posti di lavoro, capacità produttiva, intelligenze e saper fare. Va data una svolta e va data in fretta."
Niente di nuovo: il sindacato tricolore vuole salvare i posti di lavoro perché ha a cuore la tenuta del sistema-paese. Ha come fine tenere insieme capitale e lavoro, evitando in tutti i modi lo scontro di classe. Saranno i fatti materiali ad incaricarsi di fare piazza pulita di questi rimasugli di ordinovismo-stalinismo fuori tempo massimo. Governanti, capitalisti e sindacalisti hanno un bel gridare a gran voce che il lavoro è sacro, che è un diritto sancito dalla Costituzione, che nobilita l'uomo. Quando il lavoro viene eliminato dal moderno sistema di produzione, esso non è né sacro né maledetto, è semplicemente superfluo. Il capitalismo è il sistema del lavoro salariato e quando espelle in massa forza-lavoro dal ciclo produttivo è come se tagliasse il ramo su cui è seduto.
Chi non è reso cieco e sordo dall'ideologia dominante, capisce benissimo che se il capitalismo fa a meno dei lavoratori, sostituendoli con le macchine, a maggior ragione i lavoratori possono fare a meno del capitalismo.