L'esigenza di autoregolamentazione è condizione permanente del capitalismo, il quale nasce statale e quindi fin dall'inizio presenta elementi atti a tale scopo. Nel Medioevo le Repubbliche Marinare possedevano flotte composte da centinaia di navi, disponendo di una potenza capitalistica resa possibile solo dalla presenza dell'investitore collettivo per eccellenza: lo Stato. Oggi, viceversa, è il Capitale a dominare sullo Stato e perciò il capitalismo si ritrova alla ricerca di nuovi elementi di autoregolazione. I mezzi sicuramente non mancano (software, robot, sensori di ogni tipo), ma la natura anarchica del sistema ne rende difficile l'uso integrato.
Da anni registriamo i segnali di un cambiamento in corso, dalla Primavera araba, passando per Occupy Wall Street, fino al movimento turco Gezi Park e ai gilet gialli in Francia. In questi giorni, in Egitto è scattato lo stato di massima allerta in seguito alla morte di Mohamed Morsi, ex presidente e leader dei Fratelli Musulmani; mentre Hong Kong è al centro della cronaca per le imponenti mobilitazioni che hanno coinvolto circa 2 milioni di persone. Oggi la dimensione globale è ormai quella di manifestazioni di massa che valgono più per sé stesse che non per le motivazioni accampate dagli organizzatori o dai manifestanti. All'inizio del Novecento del secolo scorso, massicce mobilitazioni scuotevano il panorama politico europeo senza trovare uno sbocco; nacquero così il fascismo in Italia e il nazismo in Germania, che riuscirono a inglobare le spinte antiformiste presentandosi come realizzatori dialettici delle istanze riformiste del socialismo. Dubitiamo che il capitalismo odierno abbia la capacità e la vitalità necessarie per assorbire le nuove forze antisistema: esiste una "freccia del tempo" e il secondo principio della termodinamica parla chiaro.
Moseis Naim, scrittore e giornalista venezuelano, scrive su El Pais un articolo in cui mette insieme quanto accade nelle strade del Sudan, di Hong Kong e di Mosca, descrivendo manifestazioni che stanno montando in frequenza e dimensioni, anche grazie alla diffusione di smartphone e reti sociali. Per quanto ci riguarda, il punto di svolta è stato lo sciopero della UPS del 1997, che non ha ottenuto granché dal punto di vista rivendicativo ma moltissimo sul piano organizzativo, dato che per la prima volta sono stati utilizzati in modo massiccio strumenti come Gps e telefonini per coordinare la lotta. Già allora era evidente come fosse cambiato il rapporto tra operai e capitalisti, oggi lo vediamo ancor più chiaramente con le lotte dei gig-workers che hanno sempre meno da rivendicare entro lo stato di cose presente.
Ad Hong Kong quasi un terzo della popolazione è scesa in strada a manifestare, e una legge sull'estradizione non è sufficiente a spiegare cosa ha spinto così tante persone a mobilitarsi. Durante la protesta, il capo della polizia ha dichiarato che avrebbe fatto tutto il possibile per liberare le vie della città, ma sappiamo che è molto difficile imbrigliare una tale massa di persone. La borghesia può spegnere Internet, può reprimere la popolazione, può varare leggi speciali, ma milioni di uomini in movimento non si possono fermare. Alain Bertho, animatore del sito Anthropologie du présent, ha scritto nel 2009 un saggio dal titolo Il tempo delle sommosse. Intervistato dal giornale online Vice afferma:
"Ciò che osserviamo dall'inizio del secolo è una crescita, a livello globale, di rabbie collettive senza obiettivi strategici, di passaggi all'azione quasi disperati. Il repertorio di questi gridi di rabbia è piuttosto simile da un capo all'altro del pianeta, dall'incendio di un'automobile all'uso delle reti informatiche. Le circostanze dello scoppio delle ostilità sono varie ma ricorrenti (la morte di un ragazzo, il taglio dell'elettricità in un palazzo, delle elezioni truccate). In un secondo tempo, i conflitti sociali classici hanno adottato — poco a poco — il repertorio della sommossa, la sua soggettività."
Guardando i video in time lapse delle manifestazioni di Hong Kong, viene in mente quanto scritto nel saggio Sincronia di Steven Strogatz o ne L'atomo sociale di Mark Buchanan. Così come si verificano delle sincronie in campo economico (le maggiori economie procedono verso la crescita zero), parimenti si sincronizzano le piazze globali con manifestazioni autorganizzate. Il rapporto tra le rivendicazioni e la forza messa in campo dai manifestanti si è dissolto lasciando spazio ad una carica di violenza potenziale enorme, che prima o poi esploderà. Al tempo delle prime manifestazioni di Occupy, gli hashtag che andavano per la maggiore sui social erano #globalsquare e #globalrevolution: il cervello sociale esprimeva in maniera compressa la necessità del movimento: occupare le piazze, coordinarsi in rete a livello globale, cambiare il mondo.
Secondo il ministro dell'Interno francese, dall'inizio del movimento dei gilet gialli sarebbero 50 mila le manifestazioni e le proteste organizzate sul territorio nazionale. Se le rivolte assumono dimensioni di massa, allo stesso modo avviene per cataclismi e disfunzioni varie che ammorbano il sistema in aree sempre più vaste. Nei giorni scorsi un blackout energetico ha colpito il Sud America, lasciando al buio 50 milioni di persone soprattutto in Argentina e Uruguay, e in alcune zone di Brasile, Paraguay, Bolivia, Cile e Perù. L'emergenza è ormai un qualcosa con cui bisogna fare i conti quotidianamente: che si tratti di un blackout, dello stato d'emergenza nelle democrazie occidentali, dell'Egitto oppure di Hong Kong, della crisi del 2008 che ha provocato misure d'emergenza con i vari quantitative easing durati anni. Anche il reddito di cittadinanza in Italia risponde ad una emergenza: il crollo dei consumi e la "tenuta sociale". E lo stesso discorso vale per l'aspetto climatico, per le migrazioni, per gli stati che collassano, ecc.
Abbiamo poi parlato dell'affondamento di due petroliere nel golfo dell'Oman. Gli Usa accusano l'Iran, il quale nega ogni suo coinvolgimento. In questo momento gli Stati Uniti hanno tutto l'interesse a far alzare il prezzo del petrolio, poiché li favorisce nell'estrazione di shale oil. Un'invasione americana dell'Iran è impensabile, dato che Teheran è un loro partner strategico. En passant: in Iran continuano le rivolte operaie (mai cessate dalla sommossa di Mashhad del 2017), l'ultima in ordine di tempo si è verificata a Kazerun city.
In chiusura di teleconferenza, si è accennato a Libra, la moneta virtuale che Facebook metterà a disposizione dei suoi utenti a partire dal 2020. Libra si baserà sulla tecnologia blockchain ma a differenza delle criptovalute più conosciute, come Bitcoin o Ethereum, sarà una stablecoin e cioè il suo valore sarà ancorato ad un paniere di valute reali e garantito da asset espressi in quelle monete. L'iniziativa si rivolge soprattutto a coloro che non possono aprire un conto corrente e utilizzerebbero Facebook come fosse una banca; Libra parte quindi con una base di 2,4 miliardi di potenziali clienti, gli utenti del social network, e come fa notare Repubblica potrà raggiungere tutti coloro che hanno uno smartphone in tasca. Sembra che il primo paese in cui la nuova moneta verrà sperimentata sarà l'India, proprio dove da qualche anno l'azienda di Zuckerberg sta offrendo con il progetto "Free Basics" il collegamento gratuito ad alcuni siti di pubblica utilità.
Facebook, che per il lancio di Libra ha raccolto il sostegno di partner importanti tra cui PayPal, Uber, eBay e Vodafone, probabilmente punta, almeno inizialmente, al mercato dei piccoli pagamenti, da una parte ricalcando quanto avviene in Cina con WeChat, e dall'altra tentando di affermarsi nel remittance market, settore da 500 miliardi di dollari l'anno.