I salariati, dal cui sfruttamento il capitalismo ricava la linfa vitale, il plusvalore, sono sempre meno necessari, sostituti via via dalle macchine. Siamo di fronte ad un processo di svalorizzazione di ogni singola merce, per cui il capitalista, per ottenere la stessa massa di profitto è costretto a vendere sempre più merci e ad aumentare la scala della produzione. Smartphone, televisori, elettrodomestici, ecc., costano sempre meno. L'altissima produttività porta però al vulcano della produzione e alla palude del mercato: l'uno esiste perché esiste l'altra, dato che non vi sono limiti teorici alla produzione, ma proprio per tal motivo quest'ultima provoca il ristagno del mercato. L'assorbimento della massa crescente di merci da parte dei consumatori diventa sempre più difficoltoso, anche perché l'aumento della produttività provoca la crescita della miseria di coloro che vengono espulsi dal mondo del lavoro o che non vi entreranno mai. Sale quindi la ricchezza totale della società, ma si concentra in poche mani. A tal proposito, qualche mese fa, Il Sole 24 Ore, riprendendo un rapporto dell'Oxfam, ha pubblicato l'articolo "Disuguaglianze, in 26 posseggono le ricchezze di 3,8 miliardi di persone."
Il fenomeno della svalorizzazione delle merci è quindi strettamente collegato alle rivolte che scoppiano in mezzo mondo. L'autonomizzazione del Capitale è nel DNA del capitalismo, il quale fin dai suoi albori si caratterizza come produzione per la produzione (D-M-D') in una crescita fine a sé stessa che ha come unico scopo l'accrescimento del valore. L'autonomizzarsi del Capitale è ben rappresentato dalla massa di derivati in circolazione, che supera di 30 volte il Pil mondiale. Una tale finanziarizzazione dell'economia non può reggere a lungo.
L'Espresso del 10 novembre scorso è uscito con una serie di articoli raccolti sotto il titolo "Umanità in rivolta". I giornalisti, trovandosi di fronte a manifestazioni simultanee a diverse latitudini, sono stati costretti dall'evidenza dei fatti a fare delle relazioni e a concludere che si tratta di un unico fenomeno mondiale: "Gli sconfitti dalla globalizzazione, stanchi di veder crescere la forbice tra ricchezza e povertà, riempiono le piazze, sfilano in corteo verso i palazzi del potere, scandiscono slogan, impauriscono i regnanti che talvolta cedono, si rimangiano i provvedimenti quando ormai è troppo tardi."
Ad Hong Kong la polizia ha preso d'assalto il politecnico dove erano accampati centinaia di giovani. Nei video girati prima dello sgombero, si vedono cucine autogestite, luoghi adibiti a mediacenter, squadre addette alla vigilanza e all'autodifesa, secondo quelle stesse modalità viste all'opera con Occupy Wall Street nel 2011, con Occupy Gezi in Turchia nel 2013 e con Humbrella Revolution, sempre ad Hong Kong, nel 2014. Le tende sono rispuntate qualche mese fa anche a Khartum, in Sudan, e qualche settimana fa in piazza Tahrir, a Baghdad.
In Iran la miccia della rivolta è stata l'annuncio dell'aumento del prezzo della benzina. In migliaia sono scesi in strada bruciando le insegne del regime e le banche, saccheggiando i supermercati, e scontrandosi violentemente con la polizia e le milizie pasdaran. Una delle prime misure adottate dal regime è stato il blocco di Internet. Di quanto accade nel paese mediorientale i giornali ne parlano di sfuggita, eppure si tratta di manifestazioni estese che hanno provocato una altrettanto estesa repressione, causa di oltre 150 morti e migliaia di feriti. L'Iran è una bomba sociale, un paese moderno con un proletariato forte e combattivo, e una storia importante dal punto vista della lotta di classe. Bloccare Internet può essere utile per limitare il dilagare delle rivolte, ma così facendo i borghesi rischiano di fermare l'intera economia.
Ora, può essere che una rivolta venga riassorbita, ma il dato generale rimane quello di un diffuso malessere che sincronizza milioni di persone, e assume le caratteristiche di una guerra civile mondiale. Fin che si tratta di Haiti, del Sudan o di altri paesi africani, l'attenzione dei media è molto bassa, ma le rivolte cominciano a lambire anche metropoli occidentali. Prima fra tutte Parigi, che lo scorso 16 novembre è stata messa nuovamente a soqquadro dagli scontri tra polizia e gilet gialli. Probabilmente, il passo successivo sarà rappresentato da flash mob globali, come quello del 15 ottobre 2011 quando ci furono manifestazioni in più di 1000 città nel mondo. Così come è irreversibile la parabola del plusvalore, al pari lo sono il marasma sociale e la guerra civile. Superata una certa soglia, dai lacrimogeni e dalle pallottole di gomma si passa alle fucilate. Allo stesso tempo si vede prender forma a livello globale un movimento che non è più di tipo rivendicativo, ma qualcos'altro. Lo Stato capitalistico può "riconoscere" qualsiasi forza sociale, anche muovendole guerra per ricondurla entro i confini del compromesso; ciò che non potrà mai riconoscere è l'anti-forma che emerge senza rivendicare nulla, che semplicemente dà vita a una società nuova e per essa combatte contro il vecchio ambiente. Questa sarà la forza della futura comunità-partito irriducibile al compromesso ("Una vita senza senso").
Secondo Business Insider, la polizia ha attaccato la Chinese University of Hong Kong, occupata dai ribelli, per riprendere il controllo del Web: nel campus è infatti in funzione il router che gestisce il 99% del traffico Internet del paese. Anche in Cile la rivolta corre sul Rete, e pure in Libano e in Bolivia. Quando viene coinvolta tutta la società, compresi i sindacati, si arriva del tutto spontaneamente allo sciopero generale. I laser utilizzati ad Hong Kong per accecare i poliziotti sono gli stessi utilizzati dai manifestanti in Cile; le varie esperienze circolano online e diventano patrimonio comune. Aggravandosi le condizioni di vita dei senza riserve, è inevitabile che si arrivi ad un qualche tipo di collegamento globale. Lo abbiamo già visto nel 1864 con la nascita dell'Associazione internazionale dei lavoratori.
In chiusura di teleconferenza, si è accennato agli effetti dei drammi gialli e sinistri della moderna decadenza sociale: peste suina, ponti che crollano, cibi adulterati, nocivi e cancerogeni, infortuni sul lavoro in crescita, inquinamento industriale, massacro della natura, urbanesimo demenziale. Più si accresce il profitto, più la società è asservita al Capitale, più aumenta lo sciupio.
Oggigiorno anche gli ecologisti si riscoprono anticapitalisti, o perlomeno così credono. Il recente movimento Extinction Rebellion afferma di lottare per un cambiamento radicale, in realtà reclama una riforma verde del sistema attuale. I manifestanti di XR compiono performance pubbliche e azioni di disobbedienza civile, raccogliendo un discreto successo anche perché sono foraggiati dal mondo dello spettacolo e da investitori e organizzazioni private. Dicono di essere "un gruppo di attiviste/i che credono nell'efficacia della Nonviolenza nelle azioni e nella comunicazione di tutti i giorni e nella necessità di unirci per poter prosperare. Crediamo nella pace, nella scienza, nell'altruismo, nella condivisione di conoscenza. Nutriamo profondo rispetto per l'ecosistema nel quale viviamo, per questo motivo impegniamo le nostre vite a diffondere un nuovo messaggio di riconciliazione, discostandoci dal separatismo e dalla competizione, sulle quali la società moderna si basa; siamo i narratori di una storia più bella che appartiene a tutti noi, agiamo in nome della vita."
Insomma, appena viene a mancare l'opportunismo classico (lo stalinismo, tanto per capirci), ecco comparirne un'altra versione, non violenta ed ecologista. Visto che esiste un rapporto diretto tra il non funzionamento dell'attuale modo di produzione e lo scoppio di manifestazioni anticapitaliste, spunteranno come funghi movimenti del genere che cercheranno di cavalcarle, e che dobbiamo criticare con fermezza.