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  • Resoconto teleriunione  9 marzo 2021

Cosa succederà quando l'emergenza sanitaria sarà finita?

Durante la teleconferenza di martedì sera, a cui hanno partecipato 24 compagni, abbiamo commentato due articoli dell'Economist riguardo la trasformazione del Welfare State.

In "Covid-19 has transformed the welfare state. Which changes will endure?" vengono messi in luce alcuni aspetti significativi riguardo l'ondata di misure a sostegno delle popolazioni, che moltissimi governi nel mondo hanno adottato per attutire lo shock economico causato dal blocco delle attività economiche per il contenimento della diffusione del virus. Molti paesi hanno erogato finanziamenti a pioggia e in maniera estremamente rapida, saltando a piè pari le consuete lungaggini burocratiche legate alla verifica dell'idoneità al sostegno del ricevente, e distribuendo denaro, nei conti correnti, sotto forma di voucher, o direttamente in contanti, senza alcuna contropartita. La riflessione dell'Economist non si ferma soltanto intorno a quanto accaduto con lo scoppio della pandemia, ma guarda anche al periodo precedente, e cioè al fatto che già in epoca pre-Covid stava crescendo l'esigenza di un cambiamento dei meccanismi di Welfare State, diventati oramai obsoleti in un mondo dove gli individui vengono sempre più sovente sostituiti da algoritmi e robot.

Storicamente, il Welfare State muove i primi passi con l'avvio dei programmi sociali nell'Europa post Grande depressione, e successivamente con quelli attuati dal Secondo dopoguerra in avanti, che portano alla formazione dello stato sociale moderno con tutto un insieme di tutele e garanzie per i lavoratori (tema da noi affrontato nell'articolo "La Grande Socializzazione"). Questo sistema comincia a dissolversi con la crisi degli anni '70: inflazione e stagnazione danno il via al suo progressivo smantellamento, che sarà accompagnato anche da una certa campagna ideologica sulle meraviglie della flessibilità del lavoro. In questo processo anche i sindacati, in forte difficoltà di fronte alle grandi trasformazioni in ambito produttivo e sociale, si indeboliscono.

L'arrivo della pandemia nel 2020 cambia repentinamente le cose. La situazione eccezionale costringe i governi ad intervenire in fretta, e i paesi più ricchi (Giappone, Stati Uniti, Gran Bretagna, ecc.) stanziano oltre 13,8 trilioni di dollari (il 13,5% del PIL globale) in finanziamenti di emergenza, di cui circa la metà destinata al sostegno ai lavoratori e alle famiglie (stima FMI). Un debito pubblico così alto è stato registrato solo nel 1945, quando cominciò la ricostruzione post bellica in Europa.

Ma cosa succederà quando l'emergenza sarà finita? Cosa rimarrà di tutto questo nei futuri programmi di Welfare degli stati? Le domande poste nell'articolo fanno venire in mente quanto detto da Confindustria ai portuali di Genova in sciopero: "I lavoratori ricordino che oggi il lavoro è un privilegio". Non è corretto: il lavoro non è un privilegio, in questa società è una condanna.

L'Economist è un buon punto di osservazione del capitalismo, perché crede nei mercati e nel capitalismo di Adam Smith. Ma quel capitalismo non esiste più da tempo e adesso con la pandemia l'anomalia è venuta a galla con tutta la sua forza. Nel mondo della inoccupabilità, e cioè in una società in cui la disoccupazione non è più un periodo di pausa tra i momenti di crisi e quelli di boom economico ma si trasforma sempre più spesso in una condizione permanente, gli stati sono costretti a dispensare denaro senza nemmeno chiedere qualcosa in cambio (se non corsi di formazione e lavori socialmente utili).

L'altro articolo del settimanale inglese preso in considerazione è "Might the pandemic pave the way for a universal basic income?". La pandemia potrebbe aprire la strada a un reddito di base universale? Il tema è entrato di forza nel dibattito pubblico mondiale, anche perché da metà marzo a metà giugno dello scorso anno più di 1,1 miliardi di persone nel mondo hanno ricevuto aiuti dagli stati. I sondaggi dicono che sia in Europa che negli Stati Uniti i giovani sono favorevoli a un reddito di base universale. Negli Usa più della metà degli elettori si è dichiarato favorevole a programmi pilota per un reddito di base locale, e già diverse città del paese stanno sperimentando progetti che vanno in questa direzione. I governi sono preoccupati per la possibilità che i sussidi possano scoraggiare i destinatari nella ricerca di un lavoro, ma sono comunque costretti a sostenere i consumi. Quando parliamo di capitalismo che nega sé stesso, intendiamo questo tipo di contraddizioni. L'attuale modo di produzione non è diretto dai governi, al contrario sono quest'ultimi che devono adattarsi e modificarsi in base ad esso. E per il futuro sarà difficile fare dietro front rispetto ai processi avviati sull'onda della situazione emergenziale, per giunta accolti favorevolmente dalle popolazioni.

Qualche giorno fa l'Istat ha diffuso le stime preliminari della povertà assoluta in Italia per l'anno 2020: "La povertà assoluta torna a crescere e tocca il valore più elevato dal 2005. Le stime preliminari del 2020 indicano valori dell'incidenza di povertà assoluta in crescita sia in termini familiari (da 6,4% del 2019 al 7,7%, +335mila), con oltre 2 milioni di famiglie, sia in termini di individui (dal 7,7% al 9,4%, oltre 1 milione in più) che si attestano a 5,6 milioni." In continuità con il governo precedente, l'attuale esecutivo ha prorogato il blocco dei licenziamenti (l'OCSE ha stimato che nei paesi ricchi più di un dipendente su cinque ha mantenuto il proprio posto di lavoro grazie a tali programmi). Nel decreto Sostegno dovrebbe essere rifinanziato con un miliardo di euro il reddito di cittadinanza, e prorogato il Reddito di emergenza. Proroga dopo proroga si tenta di procrastinare il momento in cui gli effetti delle chiusure mostreranno tutte le loro conseguenze. Per questo motivo è in corso un gran lavorio intorno agli ammortizzatori sociali, nel tentativo di approntare un'unica grande misura che fornisca la necessaria flessibilità per affrontare le diverse situazioni critiche. Va fatto notare che da parte della borghesia non c'è la consapevolezza di ciò a cui va incontro, piuttosto essa si ritrova, come al solito, ad inseguire i processi in corso e le loro accelerazioni, senza riuscire ad anticiparli.

Come dicevamo, il capitalismo odierno palesa forti anomalie. Lo aveva già notato Lenin, quando nel 1894 in Che cosa sono gli "amici del popolo" e come lottano contro i socialdemocratici, scriveva che "tutte le produzioni si fondono in un unico processo sociale di produzione, mentre ogni produzione è diretta da un singolo capitalista, dipende dal suo arbitrio, e gli dà i prodotti sociali a titolo di proprietà privata. Non è forse chiaro che la forma di produzione entra in contraddizione inconciliabile con la forma dell'appropriazione? Non è forse evidente che quest'ultima non può non adattarsi alla prima, non può non divenire anch'essa sociale, cioè socialista?"

Il Welfare State si fondava sull'andirivieni di parte del proletariato dal ciclo produttivo, ma oggi il movimento è per la maggior parte dei casi unidirezionale: una volta usciti, è per sempre, e le fila della sovrappopolazione non più relativa ma assoluta si ingrossano. Attenzione, non si tratta dell'incapacità dei capitalisti di far girare bene l'ingranaggio economico, bensì dell'andamento storico del capitale descritto ampiamente da Marx nel Capitale.

L'avvicinamento allo zero del saggio di profitto ha sempre rappresentato per i marxisti il punto focale della fine del capitalismo. Calcolarlo è semplice, almeno in via teorica, perché la sua formula è altrettanto semplice: esso è dato dal rapporto fra plusvalore e capitale complessivo anticipato (S=p/c+v). Graficamente la caduta del saggio di profitto è rappresentata da una parabola, secondo la quale il massimo rendimento del sistema si realizza esattamente a metà della curva (vedi nostro quaderno del 1992 Dinamica dei processi storici - Teoria dell'accumulazione). Ma oggi a che punto siamo? Anche se non possiamo fare un calcolo preciso perché i dati che la borghesia ci fornisce sono imprecisi, possiamo facilmente intuire che il capitalismo non è più al suo culmine ma nella parte discendente della curva. Immaginiamo per un momento un mondo in cui viene prodotta una merce unica (cfr. VI capitolo inedito del Capitale): cosa succederebbe se ci trovassimo nel punto più basso della parte discendente della parabola, con l'industria in buona parte robotizzata? Potremmo togliere il denaro e il tutto funzionerebbe lo stesso, e meglio. Questo aspetto è importantissimo perché ci dice che il capitalismo è un cadavere che ancora cammina e perciò ha bisogno di distribuire soldi gratis, e di schiavizzare una massa ridotta di manodopera che da sola muove quantità di capitale immani; e che, nonostante non sia possibile individuare con esattezza in quale anno vi sarà il crollo, sappiamo che succederà. Negli ultimi tempi abbiamo visto che proprio i paesi in cui i governi non sono riusciti ad intervenire massicciamente con piani di sostegno alle popolazioni sono stati teatro di ribellioni e sommosse. Gli ultimi a cedere saranno i paesi a vecchio capitalismo: lì il "botto" sarà più forte e metterà in moto processi catastrofici di cui ora vediamo solo le avvisaglie. Significativo, a tal proposito, quanto accaduto in Texas in concomitanza dell'ondata di gelo che ha colpito la zona sud e il Midwest degli Stati Uniti: di fronte all'emergenza che ha visto cinque milioni di persone rimanere senza energia elettrica per svariati giorni e decine di morti, sono nati spontaneamente gruppi di mutuo aiuto in stile Occupy Sandy.

In chiusura di teleconferenza abbiamo accennato al colpo di stato messo in atto dalle forze armate in Myanmar il primo febbraio 2021. Ad un mese dal golpe non si placano le manifestazioni di protesta contro la giunta militare e sono circa 1700 le persone arrestate fino ad ora e oltre 50 i morti. Inoltre, l'8 marzo scorso un grande sciopero generale ha paralizzato il Paese. Da qualche tempo alcuni attivisti di Hong Kong stanno raccogliendo in un documento gli insegnamenti, le pratiche e le tecniche acquisite durante le proteste del movimento cominciate nel 2014. Insieme a militanti di altri paesi ("Abbiamo lavorato con attivisti in Cile, Bielorussia, Catalogna e Thailandia"), hanno realizzato una sorta di manuale ("The HK19 Manual") che possa essere utile per altre proteste e altri manifestanti, come ad esempio a chi ora sta protestando in Myanmar. Il testo è stato infatti tradotto in birmano.

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