La logistica è fondamentale per il capitalismo: se il flusso di distribuzione delle merci dovesse bloccarsi, le conseguenze sarebbero micidiali e ricadrebbero gravemente sull'intero sistema (non è un caso che i servizi segreti monitorino con attenzione le lotte che si sviluppano nel settore). Ne abbiamo parlato spesso, soprattutto in relazione all'approvvigionamento delle numerose metropoli che contano milioni abitanti. Si tratta di un sistema in bilico, sempre più esposto a criticità che ne riducono stabilità ed efficienza.
Solo pochi mesi fa l'incidente della nave Ever Given nel Canale di Suez, l'unico collegamento tra Mar Mediterraneo e Mar Rosso attraverso cui passa il 25% delle navi cargo in circolazione, ha mandato in tilt il commercio internazionale e in panico i suoi operatori, causando danni per decine di miliardi di dollari. Lo scorso giugno in Cina il porto di Yantian è stato chiuso in seguito al varo di severe misure restrittive per il contenimento dei contagi da Covid19; sembra che il blocco dell'importante snodo commerciale abbia causato una perdita economica maggiore di quella di Suez, dato che sulle sue banchine circola un quarto del commercio tra Cina e Stati Uniti (nel periodo di crisi spostare un container tra i due paesi richiedeva fino a 10mila dollari). Ad agosto è stato il turno del porto di Ningbo-Zhoushan, vicino ad Hong Kong, chiuso a causa dei contagi da coronavirus tra i lavoratori portuali. Nello stesso mese, l'Inghilterra, e soprattutto la sua capitale Londra, hanno registrato considerevoli problemi alla catena logistica, in conseguenza dei quali molti supermercati sono rimasti senza merci sugli scaffali. Le causa della penuria era legata alla Brexit, ma anche alla ripresa della diffusione del virus nel paese e alla conseguente insufficienza di lavoratori disponibili (moltissime persone erano costrette in casa per scontare la quarantena). All'elenco possiamo aggiungere anche la crisi dei semiconduttori che, in particolare, sta colpendo duramente il settore automobilistico. Sebbene la carenza di microchip sia legata alla poca disponibilità di materie prime e non alla difficoltà dei trasporti, ci troviamo di fronte ad un'ulteriore frenata che, nel caso di Volvo, ha portato alla sospensione della produzione per alcuni giorni.
La supply chain globale è intrinsecamente fragile: basta un piccolo intoppo per rallentare il flusso delle merci e la catena internazionale del valore. La logistica non è una branca produttiva autonoma dalle altre, ma la catena di montaggio interna alla fabbrica che è uscita dalle mura aziendali e si è estesa su tutto il territorio permeando il pianeta come un sistema nervoso ("Rottura dei limiti d'azienda", rivista n. 4). Le difficoltà che sta attraversando il comparto in questo periodo sono intrinseche al sistema stesso, soggetto ad entropia, e non sono esclusivamente legate alla pandemia. Recentemente, per esempio, il colpo di stato in Guinea ha fatto impennare il prezzo della bauxite (la principale fonte per la produzione dell'alluminio) che è cresciuto del 40%. In futuro i colli di bottiglia si verificheranno con sempre maggiore frequenza con ricadute sull'approvvigionamento, e quando i blocchi riguarderanno non tanto materiali come il ferro, l'alluminio, ecc., ma la supply chain destinata alle metropoli sarà tutta un'altra storia. Non è tanto il battito d'ali della farfalla a determinare un uragano (sociale) dall'altra parte del mondo, si tratta invece di un sistema in seria difficoltà al quale basta una perturbazione locale per aggravare il proprio stato di crisi globale.
Da anni il governo cinese sta affrontando la questione del consumo interno tentando di frenare la fuga all'estero dei capitali, convogliandoli all'interno del proprio territorio; durante la pandemia questa politica è stata notevolmente incrementata con l'adozione di importanti misure di rilancio dell'economia. I guai della Cina sono gli stessi che hanno dovuto gestire a loro tempo i paesi a capitalismo maturo. Il rapporto debito/pil del gigante asiatico sfiora il 290% e si avvicina a quello dell'Eurozona e degli Stati Uniti. Pechino stava provando ad appianare il deficit con operazioni di deleverage, ma con la pandemia questi interventi sono stati interrotti. Il debito cinese impensierisce gli investitori internazionali, i quali sono legati all'economia del paese e si vedono ora esposti ad un rischio elevato ("Chinais dodgy-debt double act", The Economist del 4 settembre). Non è più lo Stato a comandare sul Capitale bensì il contrario, e anche la Cina, che in brevissimo tempo è passata da paese del terzo mondo a paese capitalisticamente avanzato (con indici di crescita alti), segue lo stesso percorso obbligato solcato dai concorrenti occidentali. La sincronizzazione delle economie in un mondo globalizzato è un fatto inevitabile.
Un altro grosso problema incombe sul gigante asiatico, l'insolvenza di Evergrande. Una delle più grandi società immobiliari del paese scricchiola rumorosamente sotto il peso di oltre 100 miliardi di dollari di debito. In un anno le azioni del gruppo sono crollate del 70% in termini di valore in borsa, mentre i profitti sono diminuiti del 29%. Di recente è arrivato anche il declassamento da parte dell'agenzia di rating Moody's, a cui si è aggiunta la sospensione temporanea delle contrattazioni sul titolo alla borsa di Shenzhen, e delle obbligazioni a Shanghai. Sono in molti a ravvisare nella crisi del colosso cinese forti similitudini con quanto accaduto negli Usa nel 2008 con la crisi dei mutui subprime. Il pericolo maggiore riguarda l'esposizione della società verso gli investitori stranieri e l'effetto domino che potrebbe generarsi, dato che Evergrande è un conglomerato finanziario che raggruppa diverse società. In realtà, è tutto il settore ad essere in crisi; Il Sole 24 Ore afferma che la crisi di Evergrande rischia di trascinare nel baratro l'intero sistema immobiliare cinese (che vale circa un quarto di tutta la produzione economica del paese).
Da tempo i grandi investitori si domandano se l'immobiliare cinese sia un'enorme bolla e quando scoppierà. Non serve essere esperti di finanza per accorgersi dell'esistenza in Cina delle città fantasma, e cioè della costruzione di immensi centri urbani che poi rimangono vuoti (sembra che ne esistano più di 50). Bisognerà vedere che tipo di reazione metterà in campo il governo di Pechino, ma in ogni caso il problema non potrà essere risolto alla radice ma solo tamponato.
Non si tratta d'altro che di una crisi di sovrapproduzione, quindi di eccedenza di merci e perciò di capitali. Il mondo capitalistico produce troppo e non riesce a fermarsi ("Vulcano della produzione o palude del mercato?", 1954).
Da tempo ci aspettavamo un nuovo crack, e guarda caso sembra profilarsi all'orizzonte una crisi che, come nel 2008, partirebbe dal settore immobiliare determinando pesanti contraccolpi su quello finanziario internazionale. Come abbiamo scritto nella rivista n. 23 (giugno 2008): quella in corso non è una crisi congiunturale.