Informazioni aggiuntive

  • Resoconto teleriunione  23 aprile 2024

L'attenzione verso il linguaggio

La teleconferenza di martedì sera è iniziata riprendendo gli argomenti trattati durante la riunione pubblica tenuta a Milano lo scorso 20 aprile.

La conferenza, incentrata sul tema "Guerra e nuove tecnologie", si è tenuta presso il circolo anarchico Bruzzi-Malatesta. Al termine della riunione sono state poste alcune domande riguardo la socializzazione del capitale e le strutture fisiche alla base della guerra cibernetica, che ci hanno dato l'occasione di ribattere alcuni chiodi teorici. L'impressione che abbiamo avuto è stata positiva sia per la presenza di giovani che per l'attenzione del "pubblico" durante lo svolgimento di tutta la relazione.

L'acutizzarsi della guerra e lo sviluppo di nuove armi fanno parte di un processo unico, di una dinamica di crisi strutturale del capitalismo. I fatti hanno la testa dura, dice Lenin, e la realtà si incarica di fare piazza pulita delle vecchie "questioni" che in passato sono state motivo di interminabili dibattiti (partito, sindacato, ecc.). Nell'introduzione alla relazione di Milano è stato ribadito che il capitalismo non può funzionare senza l'estrazione di plusvalore, e che la guerra, fenomeno invariante, si è trasformata nel tempo essendo soggetta al modo di produzione che la esprime. Engels nota che l'innescarsi della dialettica cannone/corazza porta all'intensificazione del conflitto, motivo per cui, ad esempio, ben presto le barricate risultano obsolete rispetto all'impiego dell'artiglieria.

La guerra è il modo di essere del capitalismo, e la stessa borghesia comincia ad accettare il fatto che è sparita la pace (La pace è finita. Così ricomincia la storia in Europa, Lucio Caracciolo). Sono in corso delle accelerazioni e ciò che adesso possiamo fare è registrarle e spiegarne le cause. Abbiamo sempre dato molta importanza alla "doppia direzione" (feedback) con i lettori, dato che questa permette alla rete di allargarsi e, soprattutto, di verificare la maturità della situazione sociale.

Recentemente, un compagno ha segnalato un passaggio tratto dalla rivista n. 15-16 richiedendone un commento:

"Noi non possiamo fare a meno di utilizzare la lingua così com'è, impregnata di significati connessi alla proprietà, al possesso e al valore, ma d'altra parte è proprio conoscendo il problema che possiamo e dobbiamo evitare il gergo pseudorivoluzionario scaturito dalla controrivoluzione staliniana. La logica soggiacente al linguaggio ci svela sempre, con precisione, quando nelle proposizioni politiche vi sia coerenza realistica oppure vuoto di contenuto empirico."

Il linguaggio è un mezzo di produzione, non si può inventare a piacimento ("Linguaggio come sovrastruttura?", newsletter n. 206). Tuttavia, facciamo attenzione nel suo uso, rifiutando il linguaggio luogocomunista condito di slogan, fatto per "addetti ai lavori". Il nostro riferimento non è il gruppettaro di sinistra, ma il lettore universale, anche quello digiuno di marxismo. Il linguaggio si trasforma nel tempo: determinati termini sono stati deformati dalla storia, basti pensare alle parole comunismo, rivoluzione, partito, che a molti fanno venire in mente Cuba, la Cina, ecc. La rottura rivoluzionaria è simile alla transizione di fase che si verifica nel passaggio dall'acqua al ghiaccio, e che non si può certo spiegare con un linguaggio politico-sociologico. Le riunioni di Bordiga sulla teoria rivoluzionaria della conoscenza hanno come obiettivo il superamento dei dualismi: è assurdo pensare che la società umana risponda a delle leggi diverse da quelle che governano il resto della natura, difatti nella società futura ci sarà una sola scienza (Marx, Manoscritti del 1844).

A proposito di linguaggio, anche in ambito marxista persiste un utilizzo eccessivo dei pronomi personali (io, noi, voi, ecc.), eppure la teoria scientifica elimina proprio il ricorso alle opinioni. Nel Codice redazionale di n+1 è negato l'abuso dell'io, e si invita a fare a meno anche del noi, sostituendoli con forme impersonali. L'articolo Sul libero arbitrio mira proprio a farla finita con l'approccio volontarista alla rivoluzione: nella storia delle strutture sociali non c'è spazio per il volontarismo, ma solo per l'azione impersonale delle grandi collettività umane, e con ciò intendiamo il movimento di milioni di uomini.

Il gergo pseudo-rivoluzionario, come portato materiale della controrivoluzione in corso da oltre un secolo, coinvolge tutti, compresi coloro che apparentemente ne sono estranei. In questi ultimi tempi circolano volantini con slogan come "guerra alla guerra" oppure "usciamo della NATO", che empiricamente non vogliono dire nulla.

Le manifestazioni nelle università americane in solidarietà ai Palestinesi hanno fatto emergere un malessere diffuso nella società. Negli ultimi giorni gli studenti hanno montato le tende in vari campus. Il crollo del fronte interno americano è il prerequisito di qualsivoglia cambiamento: gli USA sono direttamente coinvolti nella guerra in Medioriente armando e sostenendo Israele, e molte università sono impegnate nella ricerca bellica (manifestazioni ci sono state anche al MIT di Boston). La mobilitazione è partita dalla Columbia University di New York, ma nel giro di pochi giorni gli accampamenti si sono visti in tante altre università del paese: ci sono stati centinaia di arresti tra gli studenti e in seguito hanno aderito alla protesta centinaia di docenti. Forse, in questi sommovimenti, c'è qualcosa che va oltre la questione israelo-palestinese e riguarda la situazione del mondo, il ruolo degli USA nell'attuale disordine internazionale. La durezza della polizia nei confronti dei manifestanti, tutto sommato pacifici, è la dimostrazione che lo stato centrale è preoccupato, teme che le mobilitazioni si diffondano. All'epoca della guerra in Vietnam, un nutrito numero di ragazzi americani si rifiutava di andare in guerra e le università erano diventate poli di organizzazione; oggi la situazione è diversa ma ciò che si sta preparando è uno sconvolgimento più grande ed esteso. Non a caso, nelle sale è uscito il film Civil War, che porta sul grande schermo uno scenario di guerra civile proprio nel "ventre della balena".

Non basta partire da quanto un movimento dice di sé stesso per capire le sue cause e la sua traiettoria. Non è da escludere che quanto sta succedendo nelle università americane faccia da innesco a qualcosa di più grande, magari con la riedizione di un movimento come Occupy Wall Street. La lotta contro la guerra, in un paese come gli USA, è qualcosa di diverso dal pacifismo nostrano. La rivoluzione pura non esiste, ed è logico che con i grandi sommovimenti a muoversi siano varie classi, in primis la piccola borghesia. L'America, essendo il cuore del capitalismo, assomma su di sé tutte le contraddizioni che ci sono nel mondo.

Siamo all'interno di una transizione di fase, di un cambiamento generale determinato dal livello raggiunto dalle forze produttive sociali. La polarizzazione economica acuisce quella sociale. Il capitalismo è precipitato in una crisi da cui non si vedono vie d'uscita. Quando parliamo di irreversibilità dei processi storici, lo facciamo tenendo a mente la crisi della legge del valore, l'automazione, la guerra che diventa un fatto endemico. I movimenti cominciano con un obiettivo, un pretesto, ma strada facendo l'obiettivo cambia o si precisa. Le manifestazioni americane contro il massacro nella Striscia di Gaza stanno diventando mobilitazioni contro la repressione da parte della polizia, contro gli sgomberi, contro il fatto che gli atenei sono blindati.

Nel campo della guerra guerreggiata, la Camera USA ha approvato un finanziamento di 95 miliardi di dollari per gli aiuti militari a Ucraina, Israele e Taiwan (articolo di Analisi Difesa). Si tratta di fondi che servono principalmente per sostenere l'industria bellica americana, e per far sì che l'esercito ucraino abbia i soldi per acquistare tecnologie USA. Parte di questi finanziamenti vengono dati agli Israeliani (26 miliardi) sotto forma di scorte di armi e munizioni e di fondi per rinforzare il sistema Iron Dome. Un'altra parte (8 miliardi) è spesa per la sicurezza nella regione dell'Indopacifico, che rappresenta la vera sfida strategica per gli USA.

La serie storica dell'imperialismo si è interrotta, non ci sarà un secolo di capitalismo a guida cinese. La Cina ha un grande problema relativo alla massa di laureati che escono dalle università e sono disoccupati o costretti a fare lavoretti, come i loro coetanei occidentali (The Economist, "Why so many Chinese graduates cannot find work"). Un paio di anni fa è nato il movimento dei "fogli bianchi" contro le restrizioni per la pandemia da Coronavirus e contro il regime, prima ancora il "tangping", la protesta dei giovani lavoratori che invitava a sdraiarsi a terra piuttosto che farsi rubare la vita dal capitale. Insomma, come gli indici di crescita delle varie economie si stanno via via sincronizzando, così faranno anche le lotte.

Articoli correlati (da tag)

  • Accumuli e catastrofi

    La teleriunione di martedì sera è iniziata riprendendo i temi trattati nella relazione "Peculiarità dello sviluppo storico cinese" presentata durante lo scorso incontro redazionale (15-16 marzo).

    La Cina ha attraversato una lunga guerra di liberazione nazionale (1927-1950) durante la quale la tattica del fronte unito con il Kuomintang, lanciata dal PCC in funzione antigiapponese, portò prima al disarmo e poi al massacro dei comunisti. In seguito alla vittoria della rivoluzione borghese, si rese necessario sviluppare il mercato interno e l'industria; la storia del capitalismo è la storia dell'assoggettamento della campagna alla città. Con la fine degli anni '70 si chiuse un'epoca e si aprì la strada ai finanziamenti esteri che, con le riforme, trasformarono completamente il paese (Deng Xiaoping: "arricchirsi è glorioso"). Il processo di accumulazione originaria, che nei paesi occidentali ha impiegato decine e decine di anni per compiersi, in Cina avviene bruscamente, portando con sè profondi disastri ambientali e sociali. Lo sradicamento dei contadini dalle zone rurali provocò migliaia di rivolte, soffocate con la forza dall'esercito.

    La Cina contemporanea non è solo un paese industrializzato, ma anche finanziarizzato. Nell'articolo "Tessile cinese e legge del valore" abbiamo visto che le contraddizioni riversate in Asia dall'Occidente sono poi tornate indietro amplificate. La vulcanica produzione cinese corrisponde al declino produttivo in altri paesi. La cosiddetta de-industrializzazione dell'Occidente non è causata da cattive scelte politiche, ma dalle leggi inerenti la natura del sistema capitalistico.

  • Accelerazionismo e forze storiche

    La teleriunione di martedì sera è iniziata dalla segnalazione di un articolo del sito Futuro Prossimo, intitolato "USA senza freni: l'accelerazionismo tecnologico di Trump e Musk".

    Nell'articolo, Ben Buchanan, ex consigliere per l'IA per la Casa Bianca, afferma che l'accelerazionismo, una corrente di pensiero secondo cui lo sviluppo tecnologico non deve avere limitazioni, è diventato la dottrina ufficiale dell'amministrazione Trump, con conseguenze potenzialmente rivoluzionarie. Per il nuovo esecutivo politico americano la vera minaccia non è la mancanza di regole, bensì il rischio di restare indietro nella corsa globale all'intelligenza artificiale generale. I meccanismi di funzionamento dello Stato sono troppo lenti per tenere il passo con l'innovazione tecnologica, perciò è necessaria una "distruzione creatrice" di schumpeteriana memoria. Di qui i piani di licenziamento dei lavoratori del DOGE (dipartimento per l'efficienza governativa statunitense) voluti da Elon Musk. Sembra che parte dei 1.500 dipendenti federali della General Services Administration recentemente allontanati verranno sostituiti dalla chatbot GSAi.

    Joseph Schumpeter sviluppa la teoria della "distruzione creatrice" basandosi sull'opera di Marx, in particolare sul passaggio del Manifesto del partito comunista in cui si afferma che la società borghese è costretta a rivoluzionare "di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l'insieme dei rapporti sociali".

  • Imperialismo europeo?

    La teleriunione di martedì sera è iniziata dalla notizia riguardante la cosiddetta questione curda.

    Abdullah Öcalan, storico leader della guerriglia curda, imprigionato nelle carceri turche dal 1999, ha chiesto al PKK l'abbandono della lotta armata. Proprio in questi giorni gli USA hanno annunciato il loro ritiro dalla Siria, dove è presente un contingente americano di circa 2mila soldati impegnati contro l'ISIS e a sostegno delle SDF (Siryan Democratic Force). La mossa di Öcalan è un segno dei tempi, è il portato di un repentino cambiamento degli equilibri mondiali, ma resta da vedere la capacità delle forze curde, divise geograficamente e politicamente, di darsi un indirizzo, se non unitario, almeno non confliggente.

    Il subbuglio sociale negli Stati Uniti ha conseguenze sul resto del mondo. L'annuncio di nuovi dazi doganali da parte dell'amministrazione Trump e, più in generale, il ritorno del protezionismo si scontrano con un mondo che, invece, avrebbe bisogno di un governo unico mondiale per gestire l'attuale sviluppo delle forze produttive. Il rischio è che collassi tutto, e che l'utilizzo dell'arma dei dazi inneschi situazioni incontrollabili: gli ingredienti ci sono tutti, il mercato è piccolo, gli attori sono troppi e ad azione segue reazione. La Cina ha infatti annunciato aumenti del 10-15% dei dazi su diversi prodotti agricoli e alimentari americani.

Rivista n°56, dicembre 2024

copertina n° 56

Editoriale: I limiti dell'… inviluppo / Articoli: Il gemello digitale - L'intelligenza al tempo dei Big Data - Donald Trump e il governo del mondo / Rassegna: Il grande malato d'Europa - Il vertice di Kazan - Difendono l'economia, preparano la guerra / Recensione: Ciò che sembrava un mezzo è diventato lo scopo / Doppia direzione: Il lavoro da svolgere oggi - Modo di produzione asiatico? - Un rinnovato interesse per la storia della Sinistra Comunista - Isolazionismo americano post-elettorale?

Raccolta della rivista n+1

Newsletter 245, 19 gennaio 2022

f6Libertà

Viviamo in una società che scoppia. I suoi membri, divisi o raggruppati secondo criteri il più delle volte arbitrari e casuali, non riescono più a darsi un'identità plausibile. La pandemia, invece di compattare gli individui intorno a provvedimenti utili alla salvaguardia della specie, ha aggravato la situazione facendo emergere ataviche tendenze all'irrazionale.

Continua a leggere la newsletter 245
Leggi le altre newsletter

Abbonati alla rivista

Per abbonarti (euro 20, minimo 4 numeri) richiedi l'ultimo numero uscito, te lo invieremo gratuitamente con allegato un bollettino di Conto Corrente Postale prestampato.
Scrivi a : mail2

Iscriviti alla newsletter

Iscriviti alla newsletter quindicinale di n+1.

Invia una mail a indirizzo email