In un'economia di mercato, che al governo ci sia un presidente di destra oppure di sinistra, è sempre il Capitale a dominare. Detto questo, va ricordato che la corrente a cui facciamo riferimento, pur essendo astensionista e antiparlamentarista, è sempre stata anti-indifferentista, consapevole che anche l'esito di una tornata elettorale può portare a situazioni favorevoli al dispiegarsi della lotta di classe. In una lettera ad Annenkov (1846), Marx, analizzando la piccola borghesia come attore delle rivoluzioni, afferma che essa, per non perdere le conquiste raggiunte, è costretta ad avviare un processo che porta a rivoluzionare tutti i rapporti sociali esistenti. Proprio la lotta generalizzata per conservare ciò che hanno, obbliga gli uomini a ribaltare la società.
A proposito di populismo, in Sudamerica e altrove, qualche anno fa abbiamo tenuto una serie di relazioni sull'argomento. Negli ultimi anni, esso ha avuto svariate manifestazioni nel mondo: il Trumpismo negli USA, la Lega e il Movimento 5 Stelle in Italia, Podemos in Spagna, l'ascesa di Marine Le Pen in Francia, le varie forme di bolivarismo in Sud America, la "teologia del popolo" di papa Francesco. Presi a sé, questi esperimenti politici non producono conoscenza utile alla rivoluzione; il populismo come fenomeno si può capire solo se si coglie una dinamica storica. Il punto in cui siamo ci interessa in quanto passaggio, ma il punto in quanto tale non ha significato. Il neo-populismo svolge un ruolo di recupero politico dei movimenti di piazza, ma quando ha successo entra nei governi, facendo crescere il caos invece di contenerlo. Parlando di populismo, molti mettono l'accento sulla disintermediazione, ovvero sulla dissoluzione dei corpi intermedi per cui si impone un contatto diretto fra capo e popolo. Ma ci sono stati casi di movimenti, come ad esempio Occupy Wall Street, in cui è stato superato il bisogno del leader. I social network, almeno dalla Primavera araba in poi, hanno permesso il coordinamento di masse enormi di persone, riducendo il divario di potenza fra gli insorti e l'apparato repressivo dello stato. La ragione è evidente: si tratta di mezzi praticamente gratuiti e facili da usare.
In Libano, un attacco condotto da Israele ha colpito una roccaforte di Hezbollah nel sud di Beirut; pare che l'obiettivo fosse Fuad Shukr, importante membro dell'organizzazione islamista. L'evento avrà ripercussioni significative sia sul piano politico che militare. La Turchia, che sta cercando di ritagliarsi nell'area un ruolo da potenza imperialista ("L'Europa virtuale e i nuovi attrattori d'Eurasia: la Turchia come fulcro dinamico"), ha lasciato intendere per mezzo del suo presidente che è determinata a invadere Israele per porre fine al massacro in Palestina. "Abbiamo fatto molta strada con la nostra industria della difesa, con le importazioni e le esportazioni. Fratelli, nessuno può ingannarci: dobbiamo essere molto forti, perché così Israele non sarebbe in grado di fare il casino che fa in Palestina", ha detto Erdogan, aggiungendo: "Come siamo entrati in Karabakh, come siamo entrati in Libia, faremo lo stesso con loro. Non c'è nulla che possa impedirlo. Dobbiamo solo essere forti e poi possiamo fare questi passi? Li faremo".
Sono dichiarazioni di un certo peso. Ankara aspira a mettersi alla testa del mondo islamico e non può lasciare a Teheran (e al suo asse della resistenza) il monopolio nella questione palestinese, perciò comincia a farsi sentire. Quando parliamo di wargame, intendiamo un mondo di azioni e reazioni in cui nessuno, né gli Stati né le classi, sono dotati di libero arbitrio. Ogni componente sociale è costretta a muoversi sulla spinta di potenti determinazioni materiali. Di sicuro non si potrà tornare indietro rispetto a quanto successo con l'attacco a Israele del 7 ottobre, che ha sconvolto il Medioriente.
Tel Aviv deve manifestare la sua forza per ristabilire la deterrenza, la sua immagine di potenza nella regione. Israele ha già tentato una (disastrosa) avventura in Libano, nel 2006. Hezbollah è uno stato nello stato ed ha un peso militare completamente diverso da quello di Hamas. Se gli Israeliani si trovassero in seria difficoltà, gli Americani dovrebbero intervenire, con il rischio di un'escalation fuori controllo.
La situazione dei rapporti all'interno e tra gli Stati sta velocemente degenerando. Nel 2011, quando abbiamo scritto l'articolo "Marasma sociale e guerra", erano relativamente pochi i paesi interessati da rivolte e guerra. Oggi è in subbuglio l'intero pianeta, con situazioni di scontro più acute in questo o quel paese. Il generale Fabio Mini, che abbiamo più volte citato, afferma che non è corretto parlare di un "arco di instabilità", di una fascia geopolitica dove regna il caos; al contrario, è il sistema mondo che versa tutto in uno stato di caos.
Chi si occupa di teorie dell'autorganizzazione, come ad esempio il biologo Stuart Kauffman (A casa nell'universo: le leggi del caos e della complessità), afferma che proprio le situazioni ai margini del caos sono le più promettenti per la nascita di nuove forme, quelle in cui si manifesta il fenomeno conosciuto con il nome di emergenza. Siamo all'interno di questo tipo di fase, una transizione tra caos e ordine.
Nel numero 27 della rivista ("La prima grande rivoluzione") abbiamo elencato tutta una serie di situazioni in cui si sono susseguite delle rivolte in difesa dei rapporti comunitari (Ebla, Antico Egitto, ecc.), durante quel lungo arco storico che ha portato alla formazione dello Stato. Lo Stato non nasce di punto in bianco, emerge da precedenti organismi centralizzati e si trasforma da "ente" al servizio della comunità in un qualcosa che domina la comunità. In questo lungo processo di autonomizzazione vi sono sommovimenti tesi a restaurare la tradizione dell'equilibrio, dell'armonia e della stabilità. Si tratta del passaggio dalla società comunista originaria alle società con le prime stratificazioni di classe. Ora ci troviamo alla fine del ciclo delle società di classe ed è il capitalismo a disgregarsi: lo sconvolgimento dell'ordine costituito è dovuto al fatto che si sta facendo strada una nuova forma sociale, a più alto rendimento energetico. Il subbuglio che si fatica a comprendere, analizzandolo rivolta per rivolta, ha una matrice comune anche se apparentemente le cause sono diverse.
Esiste un'invarianza di fondo tra la prima grande rivoluzione e la seconda, quella che stiamo vivendo:
"Quale che sia stato l'agente del cataclisma, è certo che la rivolta contro lo Stato in divenire non fece altro che eliminare i residui ostacoli che si frapponevano all'affermarsi dello Stato come strumento del dominio di classe. La società vecchia partoriva quella nuova e le popolazioni in rivolta furono le levatrici dell'evento."
Lo Stato si trascina come uno zombie nonostante la società nuova sia ultramatura. La forza produttiva sociale si è sviluppata enormemente, e con essa la socializzazione del lavoro, il collegamento dell'umanità con sé stessa. Nel comunismo sviluppato non ci saranno più comunità isolate, ma un'unica comunità umana, quella che Engels chiamava Gemeinweisen. Quando si parla di globalizzazione si intende una società globale con un mercato unico, divisa per nazioni che si contendono spazi di mercato e pronte ad arrivare ai veri e propri conflitti armati.
I tre principali teatri di conflitto, Medioriente, Ucraina e Indopacifico (anche se nell'ultimo non si combatte ancora), hanno a che fare con la crisi dell'egemonia americana. Lo scontro più importante a venire è quello nell'Indopacifico, che vede protagonisti Cina e USA. Nel numero monografico della rivista "Teoria e prassi della nuova politiguerra americana" affermiamo che gli Stati Uniti vivono grazie all'egemonia del dollaro, la quale permette il rastrellamento del valore prodotto internazionalmente. Per tal motivo essi sono in guerra con il mondo intero, che devono controllare attraverso la loro rete politico-militare.
Il mondo risponde a questa guerra in maniera caotica e disorganizzata. La crisi del capitalismo non ha conseguenze solo economiche ma anche politiche e sociali. In Ucraina, l'Occidente combatte contro la Russia senza dichiarazioni di guerra ufficiali, in un conflitto che sta diventando sistemico poichè coinvolge tutti gli aspetti (ideologia, tecnologia, ecc.). Si tratta di una transizione di fase dovuta al cambiamento dei rapporti interimperialistici. Alla Cina, più che prendersi Taiwan, interessa liberarsi dall'accerchiamento americano nell'Indopacifico. Come abbiamo scritto nel numero 55 della rivista: "La differenza di sviluppo tra Cina e USA si sta assottigliando, sia economicamente che militarmente, e anche se tra i due antagonisti non c'è una volontà dichiarata di farsi guerra, lo scontro è nell'ordine delle cose: non sembra esserci altro modo con il quale la Cina possa continuare a crescere senza che un conflitto con gli Stati Uniti diventi inevitabile."