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  • Resoconto teleriunione  28 luglio 2015

La rivoluzione a titolo umano

Durante la teleconferenza di martedì sera, a cui si sono collegati una decina di compagni, abbiamo fatto il punto della situazione sulla crisi mondiale e sulle sue ripercussioni a livello sociale.

Dopo la destabilizzazione dovuta alla crisi americana del 2007 con oscillazioni intorno a tassi minimi di crescita, il rapporto tra debito e Pil a livello globale è salito di 17 punti percentuali. Il mondo ha cioè cumulato un debito complessivo pari a tre volte il valore del Pil mondiale.

Fino a poco tempo fa gli Stati Uniti parevano avere l'asso nella manica per avviare la ripresa: grazie al fracking avrebbero aumentato, sostenevano, la produzione energetica e fatto ripartire la locomotiva dell'economia. Un'illusione. Gli investitori globali considerano ormai la tecnica estrattiva della fratturazione idraulica un business rischioso. Con il petrolio texano a 47 dollari al barile e quello del Mare del Nord a 52,8, il fracking è sempre meno conveniente e le aziende del settore comiciano a chiudere.

In Europa chi se la passa meglio tra i disastrati paesi del'Unione è la Germania. Capitalismo "giovane", con circa la metà della popolazione occupata, beneficia di una situazione arretrata in termini di saggio di profitto rispetto ad altri paesi. Per esempio l'Italia, "vecchia mille anni", che su 60 milioni di abitanti ne impiega solo una ventina, e si trova alle prese con un tasso di disoccupazione da record. Una situazione preoccupante che, secondo il Fondo Monetario Internazionale, potrà essere risolta non prima di vent'anni: questo il tempo necessario perchè il Belpaese torni ai livelli occupazionali pre-crisi. In realtà quei livelli non si raggiungeranno mai più, non è possibile far girare all'indietro la ruota della storia.

Capitalisticamente "giovane" ma molto più grande della Germania, la Cina ha bruciato le tappe dello sviluppo industrial-finanziario. Se fino a ieri il partito-stato cinese è riuscito a gestire un'esplosione economica da Pil a due cifre, oggi si trova di fronte all'imminente scoppio della bolla finanziaria, ed è costretto ad intervenire con un'immissione di fondi dalla Banca Centrale agli intermediari di Borsa, al fine di sostenere le quotazioni. La Stampa ci informa che le autorità di Pechino stanno anche cercando di acquistare immobili nei luoghi più colpiti dalla bolla speculativa (vedi "città fantasma") per poi rivenderli a prezzo più basso; l'operazione però non sembra funzionare: non vi è alcun segno di ripresa.

La sovrapproduzione di merci e capitali cinesi ha solitamente trovato sfogo negli investimenti esteri. Si pensi al Canale del Nicaragua, un'opera mostruosa da 50 miliardi di dollari e dall'impatto ambientale devastante. L'investitore è la società HK Nicaragua Canal Development Investment di Hong Kong. Le grandi opere lasciano ormai il tempo che trovano, non riuscendo più a rianimare un'economia mondiale drogata. A cui si aggiunge la rabbia delle popolazioni, che sempre più frequentemente si ribellano alla distruzione insensata del territorio.

In Imprese economiche di Pantalone si dice che il Capitale offre tutti i miliardi accumulati nei secoli per lo scalpo del suo grande nemico: l'uomo. Perciò la prossima rivoluzione sarà a titolo umano. Anche se sarà una classe a prendere il potere, la rivoluzione punterà fin da subito ad abolire tutte le classi e a ripristinare un metabolismo biologico contro l'esasperata mineralizzazione della vita.

La crescita della forza produttiva sociale ha delle conseguenze anche nel modo di fare la guerra. Un compagno ha riassunto l'articolo di Maurizio Ricci Anno 2050, la guerra dei robot, in cui si sostiene che i conflitti bellici del futuro non vedranno più i soldati normali come protagonisti sui campi di battaglia, ma robot, sciami di droni e soldati bio-cibernetici coadiuvati da team di hacker che cercheranno di entrare nei sistemi operativi del nemico per sabotarli. Il ritmo dei conflitti accelererà al di là delle capacità umane di controllo.

A proposito di guerra, in Medioriente la situazione si fa sempre più complicata: Stati Uniti e Turchia hanno raggiunto un accordo per creare una zona cuscinetto, lunga 60 miglia, al confine con la Siria. Lo Stato Islamico non è una minaccia diretta per la Turchia, è quindi difficile pensare ad una duratura convergenza d'interessi tra turchi e americani; anzi, il riavvicinamento di Washington a Tehran non è ben visto da Ankara. I curdi stanno consolidano la loro presenza in territorio siriano e puntano alla costruzione di un loro stato; la prospettiva non piace per niente alla Turchia che, con la scusa della guerra al Califfato, ha bombardato postazioni curde del Pkk nella provincia di Sirnak. Così come in Libia e altrove, anche in Siria eserciti regolari e irregolari, milizie e signori della guerra, si contendono il controllo del territorio. La guerra di tutti contro tutti è diventata sistema.

Un compagno ha posto il seguente quesito: è possibile il superamento degli egoismi nazionali all'interno della forma sociale capitalistica? Dopo la seconda guerra mondiale si è verificato un tentativo in questo senso e sono nati organismi unitari sovranazionali (FMI, ONU, OMS, ecc.), ma rimane che le borghesie difendono interessi nazionali. Oggi il mondo capitalistico avrebbe effettivamente bisogno di un fascismo unitario a comando centralizzato. L'organizzazione mondiale della sanità, per esempio, elabora già adesso piani d'azione globali, anche a discapito dei profitti; ma non è e non può essere al di fuori dei meccanismi che governano il sistema (mafie, influenza delle grandi lobbies, ecc.). Insomma, finché esisterà il capitalismo esisteranno stati, polizie e guerre.

In chiusura di teleconferenza abbiamo accennato a un curioso articolo, pubblicato sul blog di Aspo Italia (associazione scientifica il cui scopo principale è lo studio del picco del petrolio), sulla riduzione generalizzata della giornata lavorativa. Ne copiano un passo: "Se quindi l'Umanità vuole continuare a godere dei vantaggi della sua principale forza produttiva (l'individuo sociale) senza gli svantaggi deve sottolineare l'aspetto sociale della sua produzione e ridurre al minimo il lavoro necessario al proprio sostentamento. Se insiste nella divisione privata della enorme produzione legata all'individuo sociale, che nessuna biosfera e nessuna società privatistica potrebbe sopportare va incontro alla propria scomparsa come specie; se insiste nell'uso crescente o massimo di lavoro sociale superproduttivo, nella crescita infinita distruggerà le basi del proprio sostentamento. Ecco perchè l'ozio non è un'utopia, ma è diventata una vera necessità sociale ed evolutiva."

Evidentemente, sempre più individui e gruppi sentono l'esigenza di un cambio di paradigma: non siamo gli unici ad avvertire che la dissoluzione (del capitalismo) è necessaria.

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