Le dinamiche che stanno alla base delle crisi economiche sono conosciute sin dai tempi di Marx: la difficoltà di valorizzazione del capitale, il gonfiamento del capitale fittizio e, infine, il crollo. Eppure nessun economista è mai riuscito a prevederne una. Hyman Minsky, 5 anni prima del crack del 1987, scrisse il libro Potrebbe ripetersi? Instabilità e finanza dopo la crisi del '29, in cui esprimeva una certa sicurezza riguardo le misure sviluppate dalla società per evitare i crolli dell'economia. The Economist, recentemente, ha pubblicato un articolo sul fallimento della Lehman Brothers di 10 anni fa intitolandolo "Has finance been fixed? The world has not learned the lessons of the financial crisis". Il mondo non può gestire né tanto meno controllare un capitale completamente autonomizzato ed è inutile chiedersi se ci sarà un crack. La domanda giusta è quando ciò accadrà.
Il meccanismo di fondo lo abbiamo descritto nell'articolo "Dimenticare Babilonia": la banca non presta denaro ma crea scritture contabili nella speranza che siano riscattate con denaro dal debitore. Questo significa che tutta l'economia funziona come un grande schema Ponzi. Le società antiche avevano inventato una specie di debito da ripagarsi con la produzione di grano e soggetto ad un "usura" fissata entro certi limiti; e conoscendone la tendenza alla crescita - gli indebitati finivano per indebitarsi sempre di più -, era stato imposto un meccanismo di remissione per cui chiunque avesse pagato interessi per più di 10 anni veniva "liberato" dal debito. Nel mondo antico, molto prima dell'esistenza della moneta, tutti gli elementi atti a sviluppare il capitalismo erano presenti ma erano frenati da sistemi di auto-controllo (si pensi a San Francesco che contro l'usura predicava il "giusto profitto"). Oggi, nonostante gli innumerevoli strumenti a disposizione, dai calcolatori elettronici all'intelligenza artificiale, una gestione capitalistica razionale del debito non esiste, anzi, la società intera è fondata su debito (sono ultra indebitate banche, stati, industrie e cittadini) e deficit spending. Il costo di questo tipo di gestione diventa man mano altissimo e genera speculazioni gigantesche: si pensi ai buoni del tesoro a 100 anni emessi dall'Argentina, paese periodicamente sull'orlo del collasso. E' un sistema destinato ad autosopprimersi. Se persino analisti, economisti e ricercatori non credono più a un mercato in grado di salvarsi, è ancora capitalismo questo?
Dopo l'analisi economica, siamo passati a commentare uno dei video della serie Costruire il futuro, un format di 15 conferenze lanciato da Piero Angela per raccontare il mondo che verrà, proponendo approfondimenti e visioni del futuro. La conferenza su Ricerca e Innovazione, tenuta al Politecnico di Torino, ci ha permesso di fare alcune considerazioni sulle capitolazioni ideologiche della borghesia di fronte al marxismo. Nella prima parte, il professor Ezio Andreta osserva che la società attuale ricava le sue risorse togliendo la materia intorno ad esse - per il petrolio trivella ed estrae, per il ferro scava gallerie, ecc. -, quando invece una società che mettesse in pratica schemi di equilibrio dovrebbe comportarsi in maniera opposta e cioè aggiungere materia e informazione e non sottrarla. Nella seconda parte, Roberto Cingolani, fisico e direttore scientifico dell'Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, descrive la possibilità di trattare le questioni sociali con i metodi della scienza fisica e dei modelli matematici, utilizzando un approccio termodinamico per spiegare lo stato del sistema-mondo. Lo studioso fa inoltre notare agli studenti presenti in aula che i suggerimenti da lui proposti altro non sono che toppe, mentre la soluzione radicale sarebbe mettere in moto dei cicli virtuosi dell'energia.
Per studiare la società n occorre proiettarsi in n+1 e adoperare delle astrazioni, anche perché, come afferma Marx nella prefazione alla prima edizione tedesca de Il Capitale, i rapporti economici non sono comprensibili in altri modi. L'uomo capitalistico ragiona della sua società rimanendo sulla superficie dei fenomeni. Questo crea dei problemi difficilmente superabili: l'analisi delle stime sui costi e benefici muove i policy maker che progettano ed implementano le politiche allo sviluppo e gli interventi ambientali nei due emisferi. In caso di successo questi piani funzionano come rimedi temporanei, se falliscono provocano l'aumento del disordine sociale e modificano ulteriormente lo squilibrio tra attività umane e capacità di carico della biosfera. Volendo ci si potrebbe addentrare nei metodi utilizzati per l'analisi costi/benefici, ma basta riflettere su quanto sia pervasiva questa visione: migliaia di studi commissionati usano come metro il prezzo monetario per indagare i fenomeni più disparati, i quali spesso hanno un legame di causazione molto più forte con altri fattori di tipo fisico, ecologico (es. studi che correlano il PIL pro capite alla salute), ecc., arrivando a conclusioni paradossali. Allo stesso modo, le questioni ambientali vengono affrontate con miopia mercantile. Il problema dei quantitativi di CO2 nell'atmosfera e il rispetto degli impegni presi con il protocollo di Kyoto sono stati risolti dai funzionari del capitale impersonale determinando un prezzo per il "diritto" ad inquinare, basato ovviamente sul mercato delle quote e non su criteri tecnico-scientifici.
Le leggi fisiche operano indipendentemente dai rapporti sociali. Il denaro non comunica le ore di lavoro, non dice chi e come ha prodotto una determinata merce, né l'impronta ecologica ed energetica che tale produzione ha sulle risorse del pianeta. Denaro e prezzi sono categorie economiche transitorie, non possono spiegare l'entropia, né il ciclo dell'azoto o dell'acqua. Se lo scambio diventa non necessario, l'uomo può permettersi di spiegare i processi di produzione in termini di grandezze fisiche, qualsiasi attività può essere convertita in unità di misura fisiche, siano essi joule o kg. Una tavola di flussi dell'energia in input e output è molto più utile che non il ragionare in termini di valore, almeno dal punto di vista della teoria della rivoluzione.
Già negli anni '30, immediatamente dopo la crisi del '29, negli Usa si è andato sviluppando il movimento tecnocratico. Questa corrente sosteneva la possibilità di utilizzare l'equilibrio energetico come misuratore delle attività umane, passare cioè da una misurazione in termini di valore ad una in quantità fisiche. Tale movimento suscitò interesse anche in Europa, tanto che nel 1933 Virgilio Dagnino pubblicò un saggio intitolato Tecnocrazia, in cui scrisse:
"Cosa succede oggi? L'industriale esamina la crisi in termini di costi e realizzi, il banchiere in termini di cambi e di corso dei titoli, il commerciante in termini di andamento dei prezzi, l'organizzatore sindacale in termini di salari, l'economista in termini di movimento di oro. I tecnocratici dicono: no, lasciamo stare tutte queste ingombranti manifestazioni del price system. La crisi è determinata da uno squilibrio tra la capacità di produzione degli impianti e la possibilità di consumo da parte delle masse. Studiamola quindi direttamente in questi suoi elementi essenziali e l'energia prodotta o consumata sia la nuova unità di misura."
Non si può risolvere il problema di un equilibrio energetico del pianeta ragionando in termini di prezzo, valore e profitto: bisogna passare alla "fisica della storia" e abbandonare l'economia politica.