Quando parliamo di guerre civili non dobbiamo immaginare conflitti a bassa intensità che comportano un numero esiguo di vittime. Nel giro dell'ultimo decennio situazioni di questo tipo hanno raddoppiato il numero dei profughi, arrivati a oltre cento milioni; secondo una stima, 600.000 persone sono morte durante la recente guerra dell'Etiopia contro la regione separatista del Tigray (più dei morti in Ucraina). Uno dei motivi per cui tali guerre durano più a lungo è la loro complessità. Pensiamo al cambiamento climatico, che causa siccità e inondazioni, le quali determinano lo spostamento di milioni di senza riserve in altri paesi. Nella difficoltà a stabilizzare i paesi in subbuglio contano gli interessi internazionali legati allo sfruttamento delle materie prime, le mafie internazionali, le reti criminali. Haiti, ad esempio, è un campo di battaglia tra gang violente e assolutamente fuori controllo.
Le "policrisi", se prendiamo per buona questa definizione, non sono altro che crisi che si alimentano l'una con l'altra rendendo la risoluzione dei problemi estremamente difficile perché i fenomeni sono collegati e retroagiscono tra loro.
Nella newsletter n. 220, "Guerra civile diffusa" (2016), abbiamo affrontato il modo di essere della guerra ai nostri tempi, partendo dal fallito colpo di stato in Turchia. Superata una certa soglia di ribellione interna, lo Stato è costretto ad intervenire contro la popolazione. In Sudan, Mali, Ucraina, Siria, Yemen è in corso una guerra guerreggiata visibile; in Europa (dove comunque c'è una guerra) sembra non esserci un contesto simile ma sono sempre più frequenti gli episodi di polarizzazione sociale. La guerra moderna vede lo scontro diretto tra fazioni schierate su fronti contrapposti, conflitti armati tra civili, colonizzazione interna da parte delle forze di polizia: la guerra civile è nel DNA del capitalismo nella misura in cui le due classi principali vivono una condizione di sfruttamento dell'una sull'altra.
Gli USA, vecchio gendarme mondiale, devono fare i conti con una grave crisi interna, economica ma anche politica per quanto riguarda i rapporti tra stati federati e stato centrale. Passato il periodo più acuto della pandemia da Covid-19, molte aziende hanno tenuto i dipendenti in smart working e ciò ha portato ad una crisi del mercato immobiliare dovuta alla chiusura di molti uffici; la crisi si è poi riversata a cascata nei settori della ristorazione e della vendita al dettaglio. L'impatto del virus negli Stati Uniti ha prodotto ampie trasformazioni nei rapporti tra capitale e lavoro, con il fenomeno delle grandi dimissioni e il grande successo del canale Reddit #Antiwork, che raccoglie migliaia di storie di rifiuto del sistema del lavoro salariato.
Tutto è collegato: la guerra, le crisi economiche, i cambiamenti climatici, gli stati che si disgregano. Nouriel Roubini (La grande catastrofe) parla di "megaminacce" che non si possono affrontare una alla volta. Questo aspetto era stato affrontato da Aurelio Peccei, tra gli ideatori del Club di Roma negli anni '70 e sostenitore di una visione unitaria delle problematiche globali in quanto prodotto di un'unica causa. Nel saggio La qualità umana, Peccei afferma:
"Il presente ordine – o, piuttosto disordine – politico non è al passo, né a livello nazionale né a quello internazionale, con le esigenze di una società sempre più tecnologica, sempre più integrata, e sempre più globale."
Si è quindi passati a commentare alcune notizie riguardanti l'Intelligenza Artificiale (IA). La recente accelerazione della potenza dei sistemi di IA e la crescente consapevolezza delle loro capacità hanno sollevato il timore che la tecnologia stia avanzando così rapidamente da non poter essere controllata. Di qui la crescente preoccupazione che possa minacciare non solo i posti di lavoro ma l'autenticità di foto, video e delle informazioni in generale (The Economist, "How to worry wisely about artificial intelligence").
Sono in molti a domandarsi se un domani l'IA arriverà ad acquisire una coscienza. Bisogna prima capirsi sul termine: la maggior parte degli studiosi che si occupa di neuroscienze mette in dubbio la stessa esistenza di quella cosa impalpabile che chiamiamo coscienza e si chiedono: cos'è? Come si fa a misurarla? Il filosofo Daniel Dennett ha cercato di dare delle risposte elaborando una teoria computazionale della mente; egli sostiene che la coscienza è indipendente dalla presenza di un sistema biologico o artificiale, ma riguarda solo il tipo di organizzazione del sistema. Il nostro cervello è un computer e la coscienza non è altro che una macchina virtuale.
Giulio Toloni, psichiatra e neuroscienziato, padre della "teoria dell'informazione integrata", sostiene che un sistema fisico è cosciente nella misura in cui è in grado di integrare informazione da parti differenziate. Quindi maggiore integrazione di informazione = più coscienza. Marvin Minsky nel libro La società della mente afferma che non esiste un vigile, un capo che regola il traffico all'interno del cervello; esistono invece moduli e sotto-moduli che non hanno coscienza di sé stessi ma, interagendo tra loro, formano un qualcosa che è superiore alla somma delle parti.
Siamo convinti di poter decidere, di poter scegliere, di iniziare delle azioni perché siamo dotati di libero arbitrio. In realtà, alcuni neuroscienziati (ad esempio Benjamin Libet) hanno dimostrato con esperimenti di laboratorio che il cervello agisce prima che la coscienza ne sia informata (vedi articolo "Realtà e percezione"). I computer ci aiutano a fare chiarezza su noi stessi: per la comprensione di come funziona il nostro cervello sono più utili lo sviluppo dell'informatica e lo studio delle reti neurali, che non migliaia di trattati filosofici intorno al tema della coscienza. La macchina, un'esteriorizzazione di noi stessi, ci aiuta a capire come facciamo a capire, mandando in pensione religione e filosofia, saperi preistorici.