L'avanzamento tecnologico e l'affermarsi di prezzi sempre più bassi hanno portato alla crescita dello stock globale di robot industriali, che è passato da 1 milione di elementi nel 2011 a quasi 3,5 milioni nel 2021. Secondo i dati riportati da Ark Invest, società americana di gestione degli investimenti, il prezzo medio di un robot industriale è sceso da 69.000 (2005) a 27.000 dollari (2017) . Tuttavia, dice The Economist, non bisogna dare retta alle cassandre che di fronte ad ogni nuova invenzione tecnologica vedono apocalissi e catastrofi all'orizzonte: i timori sulla tecnologia che distrugge posti di lavoro non si sono mai materializzati...
Lasciamo al settimanale inglese le sue convinzioni e la sua fede nel libero mercato, a noi basti ricordare che il dominio del lavoro morto su quello vivo era già realtà al tempo di Marx, e che alcune delle previsioni contenute nei Grundrisse ("Frammento sulle macchine") si sono oggi verificate a pieno. Ben prima di arrivare al rapporto "1:1" di cui parla Musk, succederà qualcosa a livello sociale, la legge del valore si prenderà la sua vendetta. D'altronde, non si può estrarre da pochi operai sfruttati al massimo lo stesso plusvalore che si estrae da molti sfruttati meno.
Si può arrivare ad un capitalismo completamente robotizzato? Anche se la tendenza è certamente questa, questo non è possibile perchè molto prima il sistema salterebbe per aria. Lo stesso discorso vale per l'imperialismo: in linea di principio potrebbe formarsi un trust tra nazioni, un super-imperialismo, ma molto prima di arrivare a quella situazione il capitalismo entrerebbe in una crisi irreversibile (che è poi quella in atto da qualche anno). La questione del super-imperialismo non può quindi che essere risolta all'interno del suo stesso mostruoso formarsi, con la morte del capitalismo e non con la sua sopravvivenza pacifica ("Super-imperialismo?").
Se vogliamo trovare una data simbolica per individuare la crisi strutturale dell'attuale modo di produzione, possiamo far partire tutto dal 1975, periodo in cui ha inizio il processo di finanziarizzazione spinta dell'economia (sganciamento del dollaro dall'oro), che trova poi soluzione nella crisi dei mutui subprime del 2008 con epicentro a Wall Street. Da quel crack il capitalismo mondiale non si è più ripreso, nonostante l'iniezione dosi massicce di droga monetaria. Il mondo è interamente capitalistico e la robotizzazione della produzione è un fatto globale, così come lo è la catena logistica che mette in comunicazione produttori e consumatori. Terminato pure il ciclo delle "delocalizzazioni", al capitalismo non resta altro che puntare alla colonizzazione di altri pianeti ("Assalto al Pianeta rosso"), progetto dai toni fantascientifici ma utile all'impiego di quei capitali in eccesso che faticano a trovare ambiti terrestri in cui essere investiti, al di fuori della roulette della finanza internazionale.
Risulta chiaro che il decorso di tutta questa dinamica è catastrofico, ma senza il sostegno di una teoria scientifica è difficile comprendere la fase storica che attraversiamo e, soprattutto, dare indicazioni corrette sul cambiamento. Ad esempio, che di compiti costruttivi non ce ne sono più, e che si tratta piuttosto di distrugge le barriere che impediscono alla nuova società di imporsi (Lenin: "I rapporti di economia e di proprietà privata formano un involucro che non corrisponde più al suo contenuto").
Siamo poi passati a parlare di un altro problema che attanaglia la specie umana, quello dell'obesità.
Nel 2020 i due quinti della popolazione mondiale erano in sovrappeso oppure obesi. Entro il 2035, afferma la World Obesity Federation, la cifra potrebbe aumentare di oltre la metà, raggiungendo il numero di 4 miliardi di persone. Secondo The Economist, che all'argomento ha dedicato la copertina dell'ultimo numero della rivista, le persone stanno ingrassando ovunque nel mondo, dal ricco Occidente a paesi come l'Arabia Saudita, l'Egitto e il Messico. Alcuni studi dimostrano che i nuovi obesi si trovano nelle zone più povere del mondo, anche a causa della diffusione globale delle catene di fast food.
E siccome l'aumento di peso provoca tutta una serie di patologie (diabete, ictus, gotta, malattie cardiache e cancro), e quindi ha riverberi negativi sulle casse pubbliche e sull'economia in generale, ecco che le case farmaceutiche, fiutando il business, fabbricano la pillola miracolosa. Il semaglutide, concepito come cura contro il diabete e sviluppato dall'azienda danese Novo Nordisk, ha dimostrato nei test clinici di portare a una perdita di peso di circa il 15%. Il nuovo farmaco antiobesità, che aumenta il senso di sazietà e necessita di una sola iniezione a settimana, è decantato sui social da celebrità e vip e, in seguito alla crescita della domanda, l'azienda produttrice ha avvisato riguardo eventuali carenze per i diabetici. Non sono ancora note le conseguenze a lungo termine di questo medicinale, che rischia di creare dipendenza per tutta la vita.
Come al solito, l'attuale forma sociale agisce sugli effetti e non sulle cause, adottando quella che abbiamo chiamato la "dottrina del rimedio". È infatti dimostrato che la tendenza generale all'aumento di peso è dovuta a ben precisi fattori, quali la sovrabbondanza di alimenti trasformati, gli stili di vita sedentari e la depressione (a causa di alcuni dei farmaci usati per curarla). Sulla base dei dati della FAO e dell'OMS sull'andamento dell'obesità a livello mondiale, si nota che tra il 1975 e il 2014 vi è stato un incremento di tale condizione nella popolazione, dal 4,5 al 12,8%. Globesity è il termine coniato dall'OMS per indicare l'epidemia di obesità che colpisce adulti e bambini. L'ambiente obesogenico è quel contesto sociale che favorisce le possibilità che gli individui aumentino di peso e soffrano di malattie croniche. Si può dunque affermare che l'obesità – come dice il dottor Baur citato dall'Economist - è "una risposta fisiologica a quello che è diventato un ambiente patologico" ("A new class of drugs for weight loss could end obesity").
Tutto ciò conferma la necessità di un cambiamento a 360° del vivere sociale (alimentazione, consumo, trasporto, ecc.), tema affrontato dalla Sinistra con il Programma rivoluzionario immediato nell'Occidente capitalistico (riunione di Forlì del Partito Comunista Internazionale, 28 dicembre 1952), da noi sviluppato nei vari numeri della rivista e inteso come manifesto politico di n+1. Nella riunione on line del 21 febbraio abbiamo parlato del concetto di "policrisi" (crisi economiche, climatiche, sanitarie che si accumulano e si amplificano l'una con l'altra) arrivando all'ovvia conclusione che serve un cambio di paradigma. Pure i borghesi stanno arrivando all'idea che non si possono affrontare isolatamente, volta per volta, crisi interconnesse.
In chiusura di teleconferenza si è accennato alla mobilitazione in Francia contro la riforma delle pensioni, che ha portato il 7 marzo in piazza un paio di milioni di persone e che potrebbe andare avanti a oltranza. A questo punto, ci si potrebbe chiedere: perché in Italia non succede niente di simile? Difficile rispondere a questa domanda: la società è un sistema complesso e nessuno può sapere quali saranno le motivazioni e il momento preciso in cui farà la sua comparsa un movimento di massa. La scintilla che provocherà l'incendio sociale potrebbe essere l'aumento del prezzo della benzina, l'abolizione del reddito di cittadinanza oppure un altro evento. Di una cosa però siamo certi: un ciclo storico si è chiuso, non ci saranno nuovi boom economici e nemmeno ricette economiche salvifiche per il capitalismo, e pertanto manifestazioni e rivolte contro lo stato di cose presente si moltiplicheranno.