In un articolo di Verdaro scritto negli anni Trenta, si mette in luce quale fu la base sociale della formazione dello Stato d'Israele, soprattutto per quanto riguarda i sindacati. Si può vedere in vitro (e quindi con i limiti del caso) come lo Stato d'Israele rappresenti la forma dello Stato social-imperialista, sostenuto da una forte aristocrazia operaia sciovinista. Verdaro, inoltre, definiva i sionisti revisionisti come "corrente filofascista del movimento nazionalista giudeo". A questo punto, dal momento che la forma religiosa dello Stato di Israele assume i connotati di quello che fu l'apartheid in Sud Africa, perché non prospettare l'abolizione (o la riforma) dello Stato confessionale d'Israele? Sicuramente, la forma religiosa è compresa nella natura stessa dello Stato d'Israele, è la sua ragione di vita.
È ovvio che la "questione palestinese" è spinosa, ma non si evitano le spine prospettando l'assurdo. Se vogliamo riassumere all'estremo ciò che disse la nostra corrente nel dopoguerra, in quell'area si sono confrontate militarmente due rivoluzioni nazionali, una ha vinto e l'altra ha perso. Non potevano vincere entrambe e la soluzione semplicemente non c'è al di fuori di una guerra generale o, soprattutto, di una rivoluzione che sovverta tutti i rapporti esistenti.
Le complicazioni sono dovute al fatto che l'URSS e gli USA hanno adoperato la questione (fra le altre) per ragioni di egemonia imperiale, e una massa di filosovietici ha incominciato a immaginare Israele come uno stato colonialista, "quindi" a immaginare una "questione anticoloniale palestinese", un'aberrazione storica da far rizzare i capelli. Da notare che la nostra corrente trovò positivo che nel '48 si impiantasse capitalismo puro in una tabula rasa economica e sociale. Da notare in sovrappiù che molti sinistri, ancora negli anni '60, facevano i pellegrinaggi nei kibbutz "comunisti" di Israele (e in effetti questi furono all'inizio un prodotto assai temerario ai confini del capitalismo, in alcuni casi importati da ebrei russi che avevano vissuto l'esperienza delle comuni rivoluzionarie).
Auspicare la distruzione dello Stato di Israele (confessionale o no: tanti stati arabi sarebbero da distruggere allo stesso modo) è come auspicarla nei confronti dello stato di una qualsiasi altra nazione che abbia portato a termine la propria rivoluzione borghese e abbia dato vita a quello che è uno stato a sua volta tendenzialmente oppressore. Gli USA portarono via al Messico territori estesi quasi quanto l'intera Europa e a nessuno viene in mente una "questione messicana", anzi, si va al cinema a vedere Fort Alamo e si tifa per Davy Crockett, non per il cattivo generale Santana che fa suonare il terribile Deguello. Si dirà che non c'entra; va bene, ma allora si dica secondo quali parametri: il numero di anni passati? Il fatto che il povero Messico non era sponsorizzato dall'URSS? O che gli yankee fossero imperialisti in proprio e non per conto di una potenza maggiore?
Come si vede, liberata la "questione" palestinese dalle incrostazioni ormai diventate argomento tabù, come i misteri di una qualsiasi religione, essa si risolve per i comunisti nell'auspicare la situazione più favorevole allo sviluppo del proletariato locale e alla fine di ogni superstizione nazionale. Si può certamente rilevare che però la "questione" è sentita dai palestinesi. È vero: infatti prima o poi avranno il "loro" stato, mantenuto dalle elemosine delle potenze straniere, chiuso da un muro di cemento armato alto otto metri e lungo quanto la sua frontiera. Noi preferiremmo un grande stato borghese centralizzato e laico, tecnologico e capitalisticamente avanzato, con un vasto proletariato multietnico e senza stupidi muri.
Infine: Israele non era uno stato confessionale, anzi. E le organizzazioni palestinesi erano socialisteggianti. È obbligatorio chiedersi perché si sia arrivati alla situazione attuale di fanatismo religioso da entrambe le parti. La risposta è semplice: la questione nazionale è una manna per i grandi Stati imperialisti che "adoperano" per i propri fini le popolazioni, obbligandole a coltivare l'ideologia nazionalistica (che non solo per i proletari è come darsi poderose zappate sui piedi, specie in quell'area). E i sinistri hanno dato una mano non indifferente, fregandosene, tanto per fare un esempio, di programmi come quelli di Habbash e di Hawatmeh, distanti anni luce da quelli che sono oggi quelli di Hamas e di Al Fatah (il primo "aiutato" a crescere dalla CIA e dal Mossad in funzione dirompente contro il secondo, e quest'ultimo "aiutato" da Israele quando nacque l'Autorità palestinese e dovette darsi una polizia). Il problema originario non era la "distruzione dello stato di Israele", ma la realizzazione di una entità statale in cui potessero convivere arabi ed ebrei come avevano fatto da millenni (e Hawatmeh sottolineava che ciò era favorevole al proletariato, che non è ebraico o arabo ma senza patria).
Ecco, i comunisti non possono assumere posizioni arretrate rispetto a un nazionalista come Hawatmeh, dovrebbero essere "avanguardie", non si dice così? Invece vediamo in giro dei politicanti − gruppettari o cani sciolti (vedi certi negazionisti di sinistra) − che si spacciano per comunisti e giocherellano con slogan fasulli, spesso con tesi anti-ebraiche venate di razzismo, lasciando in secondo piano la vera disperazione dei Palestinesi, superabile solo con programmi realistici.
(Doppia direzione pubblicata sulla rivista n° 21 - aprile 2007.)