Ricordiamo quanto abbiamo scritto in "Dimenticare Babilonia" (n+1, n. 43): "La quantità di moneta esistente (non importa di che tipo) è in pratica il debito dello stato nei confronti dei cittadini. Tale quantità è la dotazione di denaro di cui un'economia ha bisogno per funzionare ed è stabilita in parte ad arbitrio dalla banca centrale. Supponiamo che quest'ultima, o l'esecutivo di un certo paese, ritenga necessario aumentare di 100 l'offerta monetaria, cioè l'ammontare dei mezzi di pagamento. La banca centrale acquista buoni del tesoro per 100, li iscrive nell'attivo di bilancio, e successivamente a passivo quando paga la banca che le ha fornito i titoli. Così facendo, aumenta le riserve della banca venditrice la quale potrà acquistare altri buoni del tesoro per venderli al prossimo giro. L'offerta monetaria da parte della banca centrale è iscritta al passivo perché rappresenta un debito nei confronti dei cittadini. Infatti, a rigor di logica, ogni cittadino, a fronte di debito aggiuntivo avrebbe diritto all'accesso a beni e servizi aggiuntivi di pari entità."
Ma questo naturalmente non avviene e i cittadini, più che "beni e servizi aggiuntivi", vedono drasticamente peggiorati quelli esistenti.
Anche i beni rifugio, che nel passato hanno rappresentato un porto sicuro per la valorizzazione dei capitali, stanno venendo meno a questa funzione. Nel 2002 l'Economist, nell'articolo "Le case che salvarono il mondo", notava che i capitali rimasti liberi nella società stavano confluendo nel mattone: di lì a qualche anno avrebbero fatto esplodere la crisi del 2008. Negli anni '50 un'azienda come la Fiat viveva di rendita poiché deteneva il monopolio della produzione e della vendita di autovetture in Italia e incamerava plusvalore altrui ("Vulcano della produzione o palude del mercato?", 1954); oggi le grandi holding controllano molto più capitale di quanto ne posseggano. Nel Libro Terzo del Capitale Marx dimostra che lo sviluppo del capitalismo porta una quota sempre maggiore di plusvalore a trasformarsi in rendita. A metà degli anni '70 il mondo viene messo a soqquadro dal fatto che gran parte del plusvalore mondiale viene indirizzato sul petrolio generando un flusso di capitali verso Londra e New York, storici centri finanziari a cui oggi nuove potenze, Cina in testa, cercano di sostituirsi mettendo in pericolo l'egemonia degli Stati Uniti, passati in qualche decennio dal produrre metà del Pil mondiale a circa un quarto.
Il capitalismo è passato dal keynesismo al liberismo, dalla regolamentazione dell'economia alla deregulation reaganiana, ma permane la condizione critica del sistema. Messi con le spalle al muro, alcuni economisti ora arrivano a sostenere non solo la necessità di erogare un reddito di cittadinanza per impedire il crollo dell'economia, ma anche di finanziare direttamente le industrie saltando il tramite delle banche. Espedienti, che pur se realizzati non potrebbero fermare la caduta tendenziale del saggio di profitto.
Il Financial Times ("Why Italy's economy is stagnating", 13.11.18) nota che l'economia italiana è stagnante: l'Italia è l'unico paese con un Pil pro capite al di sotto del livello del 2000: una debolezza intrinseca che sarebbe causata dalla bassa produttività del lavoro dovuta a sua volta alla numerosissima presenza, per il 95%, di imprese con meno di 10 dipendenti. Tale condizione comporterebbe quindi pochi investimenti in ricerca e sviluppo. Ma non si tratta dell'unico elemento scadente a caratterizzare il Belpaese secondo la testata inglese, si aggiungono infatti: il basso livello d'istruzione, con un tasso di studenti universitari inferiore a Turchia e Portogallo; un limitato accesso da parte delle imprese agli investimenti, pari a quello della Bulgaria; un ridotto livello di "attrattiva" per gli investimenti, simile a quello dell'Irlanda. L'Italia è sotto osservazione e, secondo il FMI, ad alto rischio di recessione.
L'inefficienza crescente del capitalismo è evidente anche al capo dei cattolici. Durante l'Udienza Generale in Vaticano dello scorso 7 novembre Papa Francesco ha affermato: "Il mondo è ricco di risorse per assicurare a tutti i beni primari. Eppure molti vivono in una scandalosa indigenza e le risorse, usate senza criterio, si vanno deteriorando. [...] La ricchezza del mondo, oggi, è nelle mani della minoranza, di pochi, e la povertà, anzi la miseria e la sofferenza, di tanti, della maggioranza". Anche per la Chiesa dunque, come per Occupy Wall Street, viviamo in una società dove il 99% fatica a sopravvivere mentre l'1% si pappa tutto. Ma per quanto possa criticare alcuni effetti del capitalismo, come guerre, corruzione e miseria, essa non metterà mai seriamente in discussione le fondamenta su cui si basa questa società: famiglia, proprietà privata e Stato.
Alcuni segnali di polarizzazione di classe sono visibili all'orizzonte: la manifestazione di Torino indetta dai Sì Tav il 10 novembre è stata significativa perché si è trattato di un flash mob organizzato da poche persone, insoddisfatte dall'operato dell'amministrazione comunale, a cui si sono accodate forze politiche e organizzazioni di categoria (il prossimo 8 dicembre sarà la volta del movimento No Tav). La stessa piazza Castello, luogo del concentramento, era stata riempita nel 2013 da migliaia di grillini in occasione dello "Tsunami Tour". Le grandi polarizzazioni nascono anche da movimenti parziali e interclassisti, che determinano degli schieramenti nella società da cui può scaturire un ordine di tipo superiore. A Torino nel dicembre 2013 i "forconi" avevano assunto delle caratteristiche differenti dal resto del paese, con manifestazioni davanti al Comune e alla Regione, blocchi della circolazione e presidi nei principali snodi stradali. Anche in quel caso un movimento spurio aveva fatto uso massiccio di social network e messaggistica, e per le strade si erano visti venditori ambulanti e bancarellari insieme a fascisti, ultrà, centri sociali e studenti. Quando dilaga il disagio (il sindaco di Torino ha chiesto che la città entri nel programma destinato alle aree di crisi industriale), gli atomi sociali si aggregano intorno a determinate parole d'ordine e scendono in piazza contro qualcuno o qualcosa. La piccola borghesia è rabbiosa, ha qualcosa da perdere e diventa radicale: da una parte vuole difendere le posizioni conquistate, dall'altra non ci riesce perché schiacciata dalle due grandi classi sociali, la borghesia e il proletariato. Insomma, c'è un qualcosa che si muove nel tessuto sociale: se superficialmente assume l'aspetto di cui parla Papa Francesco, miseria, povertà e disuguaglianza, in realtà è il portato di un profondo scontro tra due modi di produzione: capitalismo e comunismo.
Sul suo blog Beppe Grillo, prendendo spunto dal rapporto "Job swap: The Future of Jobs" redatto dal World Economic Forum, ha pubblicato l'articolo "Le macchine faranno più lavoro degli umani entro il 2025" in cui suggerisce agli Stati di "prendere in seria considerazione queste previsioni e capire come far fronte a cambiamenti sociali così complessi." Peccato che gli Stati nulla possano di fronte a questi processi. L'enorme forza produttiva è imbrigliata da rapporti sociali che da forme evolutive delle forze di produzione si trasformano in loro catene. Allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale. Trasformandosi le basi economiche della società, presto o tardi, si rivoluziona tutta la mostruosa superstruttura sociale (K. Marx, Prefazione alla Critica dell'Economia Politica del 1859).
Integrazione
Il ruolo delle banche centrali va osservato lungo tutto l'arco storico del modo di produzione capitalistico.
Nell'epoca che va dalle repubbliche marinare alle monarchie costituzionali sono poco più di banche private, composte da diversi grandi investitori che, dietro la concessione di alcuni privilegi economici, concedono prestiti alle corone impegnate in onerose guerre, sprovviste di un efficiente sistema di imposta, collocandone i titoli di debito pubblico. Ricorda Marx come la nascita della Banca d'Inghilterra nel 1694 divenne un potente catalizzatore dell'accumulazione originaria nel paese mediante l'allargamento del circuito finanziario della City. Siamo ancora alla fase storica del capitalismo di stato.
Dalla seconda metà del XIX secolo le banche nazionali acquisiscono tutte il monopolio dell'emissione (de jure) della moneta e subentrano alle iniziative dei consorzi di banche private nati per far fronte ai fenomeni di instabilità finanziaria, agendo ora come "prestatore di ultima istanza". Con tale funzione la banca nazionale sopperisce ai fallimenti di mercato dovuti alla agguerrita concorrenza tra banche commerciali e alle crisi di illiquidità. Si forma il capitale finanziario e i poteri di questi istituti, giuridicamente di natura privata o pubblica, monitorano i metodi di pagamento e controllano ogni cosa possa ostacolare la circolazione delle merci e dei capitali, operando complesse manovre sui tassi di sconto per garantire il funzionamento del sistema internazionale dei pagamenti conosciuto come Gold Standard.
Nel ventennio tra le due guerre i compiti delle banche centrali si ampliano. Nell'epoca del predominio assoluto del Capitale sullo Stato, devono sottrarre la stabilità del sistema finanziario all'anarchia del mercato e permettere la centralizzazione e la mobilizzazione di masse enormi di capitali. Gli indirizzi di politica monetaria si concretizzano in gigantesche riorganizzazioni degli istituti di credito, di fondi mobiliari, di revisioni della legislazione e nell'implementazione di sistemi che permettano una rigida sorveglianza dell'attività bancaria e la coercizione della condotta degli investitori. La riproduzione del sistema capitalistico passa anche attraverso semplici e simbolici slogan come "quota 90".
Nella fase senile del capitalismo, in cui il Capitale è totalmente autonomizzato, le banche centrali compiono operazioni di rifinanziamento (LTRO) e alleggerimenti quantitativi (QE), interventi che passano dall'essere considerati provvedimenti eccezionali ad essere percepiti come permanentemente ordinari. La totale subordinazione di questi istituti alle necessità del capitale autonomizzato si riflette anche nei nuovi orientamenti degli obbiettivi. Non più solo la stabilità dei prezzi ma la promozione del massimo impiego (Federal Reserve). L'economista Kindleberger propose due anni dopo il lunedì nero del 1987 di legare la politica monetaria all'andamento dei prezzi delle attività finanziarie e agli indici borsistici ("Assets inflation and monetary policy").
La rincorsa verso la valorizzazione dei capitali attraverso le speculazioni borsistiche e la tensione di scongiurare nuove "strette creditizie" dopo il 2008-09 ha reso le banche centrali strumenti passivi. Come fondi di investimento automatizzati, le banche centrali modificano il loro stato patrimoniale seguendo le convulsioni del sistema capitalistico. Questa subordinazione prospetta agli alti funzionari scenari senza via d'uscita. Se si lavora per ritornare alla normalità terminando "gli accomodamenti monetari" (dichiarazioni della Fed luglio 2018), il rialzo dei tassi diventa un gioco pericoloso, a cui il mercato obbligazionario, i mutui ipotecari e le borse sono estremamente sensibili (i tassi americani sono ancora lontani dal raggiungere i livelli pre-2008). Se si mantengono o si continuano le misure straordinarie a quali rischi va in contro il bilancio di una banca centrale nel caso si svalutino i titoli che ha in portafoglio, in seguito ad una massiccia svalorizzazione di capitale fittizio (lo scoppio di una delle tante bolle speculative)?