"Sono state 68,5 milioni nel 2017 le persone costrette alla fuga nel mondo per persecuzioni, guerre, fame, violenze. Una cifra record. Lo annuncia l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur). A fine del 2017 il numero era quasi tre milioni in più rispetto all'anno precedente, con un aumento del 50% rispetto ai 42,7 milioni di profughi di un decennio fa, secondo un rapporto dell'agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati." ("L'Onu: 68,5 milioni in fuga da guerre e fame, record profughi", Avvenire, 19/6/2018)
Le masse umane che scappano da guerra e fame intensificheranno quella guerra civile globale di cui abbiamo parlato in più occasioni. Ai confini degli Stati Uniti e all'interno del territorio statunitense esistono centri di detenzione per migranti (ICE), dove i profughi vengono utilizzati come forza lavoro per qualche dollaro all'ora. A Ceuta e Melilla, le enclave spagnole in territorio marocchino, centinaia di disperati periodicamente prendono d'assalto le frontiere riuscendo, qualche volta, ad oltrepassarne gli sbarramenti. Sono situazioni al limite. E quando in rete diventano virali i filmati di questi assalti, sembra di trovarsi di fronte ad una delle scene spettacolari del film di fantascienza World War Z, dove orde di zombi assediano le metropoli e si accalcano di fronte a muri e barriere, che alla fine crollano. Oggi, masse sterminate di senza riserve premono sui confini delle fortezze occidentali: secondo l'Onu nel corso del '900 quasi 1 miliardo di persone si è messo in marcia, non solo per guerre o fame, ma perché gli uomini tendono a concentrarsi dove è più alto l'indice di denaro per km2.
Alla periferia nord del Distretto Federale di Città del Messico una gigantesca favela, Nezahualcóyotl, la più popolata del mondo, ha raggiunto i quattro milioni di abitanti. L'acqua arriva a prese pubbliche e c'è una latrina ogni 50 abitanti. La polizia non può intervenire, se non con azioni violente, repentine e condotte da truppe paramilitari. Il capitalismo ha polarizzato la ricchezza in sempre meno mani, relegando miliardi di esseri umani nella miseria assoluta; mentre gli Stati non riescono più a controllare intere aree del pianeta, che sono ormai fuori controllo. Ciò si vede in maniera eclatante in Siria, Iraq o Libia, ma anche in Messico, Venezuela e Birmania. Mike Davis, nel saggio Il pianeta degli slum, afferma che più di un miliardo di esseri umani vive nelle baraccopoli sorte nelle periferie del mondo, da Rio de Janeiro a Kinshasa, da Mumbai a Città del Messico. Questa umanità, espulsa dall'economia formale, dà vita a un'economia informale, più o meno legale. In tempi non sospetti, Davis affermava che le baraccopoli rischiavano di diventare focolai di violenza etnico-religiosa che avrebbero alimentato la guerra al terrorismo, che presto si sarebbe trasformata in guerra ai poveri.
In Cina abbondano le metropoli da un milione di abitanti costruite ex novo e disabitate. Quando è stato lanciato il piano di distribuzione della popolazione sul territorio, era prevista la realizzazione di cittadine di 50 mila abitanti, sul modello delle città giardino, per evitare la concentrazione di persone in poche e gigantesche metropoli, difficili da controllare. Ma l'esperimento non ha funzionato: il modello adottato, quello europeo, aveva senso quando i cicli economici erano meno vorticosi. Oggi l'economia si muove molto più velocemente di quanto gli uomini possano fare e i progetti urbani diventano presto obsoleti, anacronistici (il processo produttivo si è trasformato, automatizzandosi e riducendo sensibilmente il numero degli operai).
Anche nei paesi di vecchio capitalismo cresce la miseria: a Los Angeles sono sempre più numerose le tendopoli dei senza riserva; in Francia il numero dei senza tetto aumenta; in Italia negli ultimi 10 anni i poveri sono triplicati (Caritas).
I moderni senza riserve non sono il lumpenproletariat dei tempi di Marx, ladri e delinquenti, ma i milioni di proletari espulsi dal ciclo produttivo che finiscono per ingrossare le fila della sovrappopolazione assoluta. In effetti, la condizione di precarietà che attanaglia i proletari non è un fenomeno recente, ma una condizione connaturata al capitalismo attenuata dalla fase di pieno impiego di keynesiana memoria. Oggi, venuto meno il patto corporativo novecentesco, con lo sviluppo dell'automazione e della robotica ci ri-troviamo di fronte ad un mercato selvaggio, che assomiglia molto a quello dei romanzi di Charles Dickens. Rispetto all'800 esistono però mezzi di coordinamento potenti che possono ribaltare l'attuale atomizzazione sociale e trasformarla in coordinamento su scala globale. Le stesse piattaforme informatiche usate delle aziende della gig-economy possono trasformarsi nel loro contrario, e diventare strumenti di organizzazione in mano ai proletari, senza più vincoli, contratti e mediazioni che ingabbiano la lotta.
Comunemente si afferma che il sistema capitalistico è in declino, ma la visione catastrofista della nostra corrente afferma che se c'è Capitale c'è crescita, pur se asfittica, e prevede che proprio per questo il sistema procede verso una singolarità storica:
"Marx non ha prospettato un salire e poi un declinare del capitalismo, ma invece il contemporaneo e dialettico esaltarsi della massa di forze produttive che il capitalismo controlla, della loro accumulazione e concentrazione illimitata, e al tempo stesso della reazione antagonistica, costituita da quella delle forze dominate che è la classe proletaria. Il potenziale produttivo ed economico generale sale sempre finché l'equilibrio non è rotto, e si ha una fase esplosiva rivoluzionaria, nella quale in un brevissimo periodo precipitoso, col rompersi delle forme di produzione antiche, le forze di produzione ricadono per darsi un nuovo assetto e riprendere una più potente ascesa." (Teoria e azione nella dottrina marxista, 1951)
Come scritto nel quaderno La crisi del capitalismo senile (1984), l'inceppamento dei meccanismi di accumulazione ha creato una enorme quantità di capitale fittizio e un conseguente bisogno di guerra che ha sconvolto gli schieramenti della Guerra Fredda.
In chiusura di teleconferenza si è accennato alla complicata situazione politica italiana, e al rapporto tra Cina e Stati Uniti.
La Commissione Europea ha bocciato il documento programmatico italiano di bilancio, richiedendone uno nuovo. Dopo la bacchettata "unionista", la sgangherata compagine governativa alla guida del Belpaese potrebbe tornare a più miti consigli ridimensionando i propri obiettivi (a cominciare dal reddito di cittadinanza che nel frattempo è diventato un sussidio condizionato ai disoccupati), oppure sarà costretta a rompere con l'UE. L'Italia rappresenta solo il 2% dell'economia mondiale e oggi una potenza produttiva non può avere meno di 100 milioni di abitanti, perciò i paesi più piccoli sono costretti a coalizzarsi e ad ubbidire a quanto stabilito collettivamente. Detto questo, la stangata del Consiglio Europeo è un consiglio, e non esiste un esecutivo che possa obbligare i paesi membri a rispettare le regole.
L'ultimo numero dell'Economist, Cina v America, è tutto dedicato allo "scontro" tra i due maggiori paesi imperialistici, che hanno nei confronti del mondo due approcci differenti. Gli Stati Uniti detengono ancora l'egemonia finanziaria e militare, ma l'economia cinese sta crescendo più del doppio rispetto a quella americana e il governo sta investendo massicciamente in tecnologie avanzate. La differenza tra i due sta nella gestione della loro potenza: mentre gli Usa controllano il movimento del capitale finanziario da Washington, Pechino si sta letteralmente comprando pezzi di mondo (a cominciare dall'Africa) adottando il controllo diretto del territorio. Politica che la costringerà a rivedere presto la sua impostazione militare. Per il settimanale inglese è "The end of engagement": ora le due superpotenze sono diventate rivali.