La teleriunione di martedì sera è iniziata affrontando il tema delle imminenti elezioni americane.
Come nota The Economist nell'articolo "The risk of election violence in America is real", il termometro sociale negli USA registra l'aumento della tensione, con toni da guerra civile. Nel nostro testo "Teoria e prassi della nuova politiguerra americana" (2003), abbiamo scritto che "la direzione del moto storico, l'andare verso... è irreversibile. Se il determinismo ha un senso, gli Stati Uniti sono ciò che la storia del globo li ha portati ad essere."
La polarizzazione economica e politica negli USA è il prodotto di una dinamica storica che possiamo far partire almeno dal 1971, quando il presidente Nixon eliminò l'ancoraggio del dollaro all'oro. Gli Stati Uniti assommano su di sé tutte le contraddizioni del capitalismo mondiale, e non è un caso che proprio lì sia nato un movimento avanzato come Occupy Wall Street che, nei suoi due anni di esistenza, ha voltato le spalle alla politica parlamentare, al leaderismo e al riformismo. Interessante, a tal proposito, la descrizione che viene fatta di Occupy Sandy nel libro Emergenza. Come sopravvivere in un mondo in fiamme di Adam Greenfield:
La teleriunione di martedì sera ha preso le mosse dall'intervento di Lucio Caracciolo al festival di Limes a Genova 2024 ("Dall'impero americano al caos").
Le determinazioni materiali spingono gli analisti di politica ed economia internazionale ad affermazioni forti. Caracciolo sostiene che le guerre in corso riguardano la transizione egemonica, ma che nei fatti non c'è nessun nuovo candidato alla guida di un mondo post-USA, e prevede una fase più o meno lunga di caos. Va ricordato che, almeno dagli anni Settanta, si è scoperto che non esiste il caos fine a sé stesso. Gli studi sui sistemi dinamici e la complessità ci indicano l'esistenza di un caos deterministico, nel quale vi sono attrattori strani che rappresentano un nuovo tipo di ordine. Il caos non è dunque il punto di arrivo, ma rappresenta la transizione ad una nuova forma sociale. I teorici dell'autorganizzazione, ad esempio Stuart Kauffman, descrivono il margine del caos come quella "terra di confine" che rende possibili nuove configurazioni.
Nella rivista monografica "Teoria e prassi della nuova politiguerra americana" abbiamo descritto la guerra, apertasi dopo il crollo del blocco sovietico, il miglior nemico degli USA. Quel mondo bipolare aveva trovato un equilibrio fondato sulla deterrenza nucleare ("Dall'equilibrio del terrore al terrore dell'equilibrio"), che oggi è venuto meno anche dal punto di vista demografico: gli americani sono circa 300 milioni mentre il resto del mondo conta oltre 7 miliardi e mezzo di abitanti. E poi, di questi 300 milioni, la maggioranza non fa parte del sistema dell'1%: lo testimoniano l'ultima ondata di scioperi e il fatto che l'esercito abbia problemi con l'arruolamento. Si sono affacciate sul mondo nuove grandi potenze, in primis la Cina, che già solo per il fatto di esistere e crescere, economicamente e militarmente, mettono in discussione il primato degli Stati Uniti.
Durante la teleriunione di martedì sera abbiamo ripreso alcuni temi discussi nello scorso incontro redazionale (21-22 settembre 2024), in cui abbiamo parlato dell'impossibilità di passare da un mondo capitalistico a guida USA (con l'egemonia del dollaro) ad un mondo multipolare.
Qualche tempo fa abbiamo svolto una relazione (89° incontro redazionale, 11-12 marzo 2023) utilizzando il libro di due generali cinesi, L'arco dell'impero. Con la Cina e gli Stati Uniti alle estremità, curato dal generale Fabio Mini. Secondo i militari cinesi, la Cina non ambisce a sostituirsi all'imperialismo americano, ma si sta adoperando per la costruzione di un mondo multipolare, pacifico e giusto. Non sono solo i generali cinesi a farsi portavoce di questa idea, ma ci sono gruppi e movimenti anche in Occidente che lottano per l'illusoria costruzione di un mondo (capitalistico) multipolare.
La teleriunione di martedì sera è cominciata parlando del recente attentato a Donald Trump avvenuto durante un comizio elettorale in Pennsylvania.
Si tratta di un ulteriore step nel livello di violenza che caratterizza la campagna elettorale americana. L'attentatore, un ragazzo di 20 anni con simpatie repubblicane, ha utilizzato un fucile semiautomatico AR-15, l'arma più diffusa in tutto il Paese con una stima di oltre 40 milioni di pezzi venduti. Naturalmente, non sono mancate le teorie del complotto, ma d'altronde in mancanza di informazioni vagliabili tutte le ipotesi sono aperte.
Nel nostro articolo "Teoria e prassi della nuova politiguerra americana", nel capitolo finale intitolato La vita nel ventre della balena, abbiamo ribadito che il moto storico ha una direzione precisa. Gli USA sono ciò che la storia del pianeta li ha portati ad essere. La crisi dell'imperialismo unipolare è dovuta al fatto che sulla scena si stanno affacciando nuove potenze (lo sviluppo ineguale di cui parla Lenin nell'Imperialismo), l'America non ha più la forza di dare ordine al mondo, e non esiste un sostituto all'orizzonte. Si è interrotta la staffetta dell'imperialismo ("Accumulazione e serie storica") e il disordine mondiale aumenta con l'estendersi dei conflitti bellici su scala planetaria. Chiunque sarà il prossimo presidente americano (i pronostici danno per certa la vittoria di Trump), potrà far ben poco per invertire la tendenza economica, la quale produce effetti sulla società.
La teleriunione di martedì sera è iniziata commentando le conseguenze politiche delle recenti elezioni europee.
In Francia i partiti di sinistra hanno prospettato una riedizione del fronte popolare del 1936-1941 per fermare l'avanzata delle destre. Dalla tragedia si sta passando alla farsa, perchè chiunque vada al governo non può far altro che assecondare i diktat dei mercati, che sia di destra, centro o sinistra. Detto questo, le elezioni si stanno trasformando da fattori di stabilità in fattori di caos, e il fenomeno della decadenza del sistema dei partiti, di cui è conferma l'aumento dell'astensionismo, è sintomo di una disgregazione più generale. La Francia sta diventando un laboratorio per gli altri paesi: lì, solo negli ultimi anni, ci sono stati gli incendi sociali nelle banlieue, i gilet jaunes, il movimento contro l'aumento delle pensioni. Se il sistema perde energia, se va in crisi la legge del valore, allora viene meno il patto tra lo Stato e la società civile, e cresce la polarizzazione politica interna agli stati. In Italia si è già sperimentato tutto, tra cui l'affermarsi di formazioni politiche che hanno ottenuto un grande successo criticando la "casta" per poi integrarsi in breve tempo (vedi M5S). Anche la Germania, in seguito a queste elezioni, mostra incrinature interne: il centro d'Europa si presenta spaccato, incapace di ricucire il tessuto sociale.
È difficile pensare ai cambiamenti rivoluzionari prossimi venturi come a passaggi pacifici, graduali e indolore. Quando si muovono masse di milioni di persone incollerite si producono terremoti sociali.
La teleriunione di martedì sera è iniziata con il commento del testo "Il ciclo storico dell'economia capitalistica" (Prometeo n. 5 del 1947), nel quale si dimostra che il capitalismo nasce all'interno della società feudale, e che è possibile delineare una dinamica storica che va dalla bottega artigiana alla manifattura, fino alla fase senile del capitalismo in cui la finanza domina l'industria.
Ad un certo grado di sviluppo delle forze produttive si verifica una scissione tra chi detiene i mezzi di produzione, i datori di lavoro, e gli operai, che non sono più padroni del prodotto del loro lavoro. L'artigiano, che precedentemente poteva compiere tutte le operazioni utili alla produzione, viene sostituito da un operaio complessivo (lavoro associato) che è la somma di tanti operai parziali. La figura unitaria dell'artigiano si sdoppia: appaiono sulla scena storica il capitalista e il salariato. All'interno della vecchia società maturano gli elementi della nuova, e questo vale anche per la prossima rivoluzione, che sarà a titolo umano. Giunto il capitalismo alla sua fase suprema, l'imperialismo, la stessa figura dell'imprenditore, quello che veniva chiamato padrone, praticamente non esiste più, sostituito da funzionari lautamente stipendiati oppure addirittura da algoritmi.
La teleriunione di martedì sera è iniziata con alcune considerazioni riguardo l'emergenza nei Campi Flegrei, a ovest della città di Napoli, dove da giorni si susseguono scosse di terremoto.
L'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) nota che l'area flegrea è soggetta a bradisismo (movimento lento del suolo), e non si possono escludere altri eventi sismici di energia analoga o superiore a quanto già registrato durante lo sciame sismico in corso. I Campi Flegrei sono una vasta area vulcanica attiva con una struttura detta "caldera", cioè un'area ribassata di forma quasi circolare che si è formata per effetto di eruzioni esplosive del passato. Secondo un articolo pubblicato sulla rivista Nature, si prefigurano tre possibili scenari: 1) un fenomeno di equilibrio in cui il sollevamento del suolo rallenta fino ad assestarsi, 2) un fenomeno di oscillazione per cui il suolo sale e scende, 3) un sollevamento continuo che porta la crosta superiore a rompersi completamente. La situazione è dunque rischiosa per tutta l'area, soprattutto perché si tratta di una delle zone più densamente abitate d'Italia. Un vulcano su dieci, tra quelli storicamente attivi sul pianeta, è una grande caldera di oltre 5 km di diametro. Spesso si verificano diversi episodi sismici nel corso di decenni prima che questo tipo di vulcano esploda; tali episodi appartengono ad un'unica sequenza evolutiva, per cui il comportamento di ciascun evento dipende dall'effetto cumulativo dei suoi predecessori.
La teleriunione di martedì sera è iniziata commentando le ultime news sulla guerra.
A Mosca un gruppo di miliziani, presumibilmente appartenenti a ISIS Khorasan (c'è una rivendicazione), ha preso d'assalto il teatro Crocus City Hall, causando oltre centotrenta vittime e centinaia di feriti. Quattro persone di nazionalità tagika sono state arrestate dai servizi di sicurezza russi mentre si dirigevano verso il confine ucraino.
Con le informazioni a disposizione è difficile capire quali forze ci siano dietro all'attacco. I Russi affermano che è opera di "islamisti radicali", ma hanno denunciato anche il coinvolgimento di Ucraini, Americani e Inglesi. Negli ultimi anni la Russia ha visto sul suo territorio diversi attentati di matrice islamica (vedi teatro Dubrovka o scuola Beslan); quest'ultimo, però, si inserisce in un contesto particolare e cioè quello della guerra in corso in Ucraina, dove da una parte si sta consumando un conflitto classico combattuto tra eserciti nazionali, e dall'altra c'è l'impiego da ambo i fronti di partigianerie, mercenari e miliziani. I servizi segreti occidentali avevano avvertito per tempo della possibilità di un attentato in Russia e l'attacco al Crocus può essere considerato come un episodio della guerra mondiale a pezzi, simile alla strage del Bataclan di Parigi avvenuta nel 2015 e compiuta da gruppi legati a Daesh, che causò centrotrenta vittime. Qualche mese fa l'ISIS K ha rivendicato l'attentato a Kerman, in Iran, vicino alla tomba del generale Qassem Soleimani; l'attacco ha provocato oltre ottanta morti e centinaia di feriti.
La teleriunione di martedì sera, a cui si sono collegati 21 compagni, è iniziata con il commento del testo "Danza di fantocci: dalla coscienza alla cultura" (1953).
Con l'analisi di quest'ultimo articolo si chiude la trilogia dei fili del tempo centrati sulla critica al gruppo "Socialisme ou Barbarie", di cui si può trovare traccia negli ultimi resoconti. Ancora oggi è utile ribadire che cos'è la classe per la teoria marxista. Essa non è un ordine e il proletariato non è un quarto stato, caposaldo su cui invece si basano le varie forme di operaismo:
"La parola classe che il marxismo ha fatto propria è la stessa in tutte le lingue moderne: latine, tedesche, slave. Come entità sociale-storica è il marxismo che la ha originalmente introdotta, sebbene fosse adoperata anche prima. La parola è latina in origine, ma è da rilevare che classis era per i Romani la flotta, la squadra navale da guerra: il concetto è dunque di un insieme di unità che agiscono insieme, vanno nella stessa direzione, affrontano lo stesso nemico. Essenza del concetto è dunque il movimento e il combattimento, non (come in una assonanza del tutto... burocratica) la classificazione, che ha nel seguito assunto un senso statico."
Durante la teleriunione di martedì sera, connessi 19 compagni, abbiamo fatto il punto sulla guerra israelo-palestinese.
The Economist ha pubblicato un paio di articoli sulla situazione nell'area: "Why urban warfare in Gaza will be bloodier than in Iraq", nel quale si elencano le problematiche cui dovrà far fronte Israele qualora decidesse di intraprendere una guerra urbana a Gaza; e "American power: indispensable or ineffective?", dove si fa un parallelo tra il potere di deterrenza di Israele nel Medio Oriente e quello globale degli USA. In questi giorni la Marina americana ha inviato due portaerei in supporto ad Israele per lanciare un segnale chiaro agli attori ostili (a cominciare dall'Iran); il destino dei due paesi è strettamente connesso, dato che questa guerra definirà non solo il ruolo di Israele in Medio Oriente, ma anche quello dell'America nel resto del mondo. Secondo il settimanale inglese, sono tre le minacce per gli USA: i fronti mediorientali (gli Iraniani sono presenti in Siria, Libano, Iraq e Yemen) e ucraino, che consumano risorse politiche, finanziarie e militari; il fatto che una serie di paesi comincia a muoversi autonomamente per ricavare spazi di manovra (India, Arabia Saudita, ecc.); la questione Taiwan, ovvero il controllo dell'Indo-Pacifico.
Gli Houthi, al potere in una parte dello Yemen e sostenuti dall'Iran, hanno lanciato droni e missili contro Israele (intercettati e abbattuti dalle navi americane); l'Iran esporta petrolio in Cina e fornisce droni alla Russia che, a sua volta, ha accolto un alto rappresentante di Hamas dopo il 7 ottobre. L'apertura di un nuovo fronte di guerra per gli americani non è di certo cosa sgradita a Putin, che ha colto l'occasione per sottolineare la perdita di energia da parte del gendarme mondiale e la fine della "pax americana".
La teleconferenza di martedì sera, presenti 18 compagni, è iniziata commentando la situazione economico-finanziaria della Cina, a partire dal possibile scoppio della bolla immobiliare.
Quanto successo nelle ultime settimane, tra cui le difficoltà del colosso Country Garden ma non solo, conferma quanto andiamo sostenendo da anni circa la raggiunta senilità della Cina. Ora se ne accorgono anche i borghesi, in particolar modo l'Economist che nell'edizione del 26 agosto ipotizza una "giapponificazione" (bassa crescita e deflazione) della economia cinese ("China's economy is in desperate need of rescue"). L'immobiliare è diventato un settore strategico, rappresentando il 30% del PIL cinese; l'enorme bolla speculativa è dovuta al fatto che il capitale ha cercato di valorizzarsi nella costruzione ex novo di decine di città, rimaste poi abbandonate. Secondo la banca Morgan Stanley, dal 2010 al 2020 il gigante asiatico ha costruito più di 140 milioni di unità abitative, e in soli tre anni ha prodotto una quantità di cemento che potrebbe trasformare la superficie della Gran Bretagna in un parcheggio; non pago, ha costruito città fantasma anche in Africa.
Secondo il Wall Street Journal il boom cinese è finito da tempo. La domanda di nuove abitazioni nelle città ha raggiunto il suo picco e i problemi di natura economica si assommano a quelli derivanti dalla disoccupazione giovanile, dall'invecchiamento della popolazione e dal calo degli investimenti esteri. Al pari dei paesi a vecchio capitalismo, la Cina installa robot nelle fabbriche e investe in intelligenza artificiale, e quindi si trova di fronte alla diminuzione relativa della produzione di plusvalore. Il gigante asiatico ha bruciato rapidamente le tappe capitalistiche passando in pochi anni da una crescita impetuosa a un altrettanto veloce declino.
La teleconferenza di martedì sera, connessi 15 compagni, è cominciata dall'analisi di quanto sta succedendo in Israele, dove è stata approvata la prima parte della riforma giudiziaria con l'abrogazione della "clausula di ragionevolezza".
Lo Stato d'Israele non ha una costituzione ma solo leggi fondamentali, e la Corte Suprema svolge un ruolo di preservazione della "democrazia". Questo organo si fa sentire quando vengono promulgate leggi considerate non idonee o quando vengono eletti politici indecorosi, appellandosi, appunto, alla "ragione". La modifica favorisce il primo ministro Benjamin Netanyahu, che ha dei guai con la giustizia, e il suo governo, che comprende partiti di estrema destra e fondamentalisti.
Con l'avvicinarsi dell'approvazione della riforma le mobilitazioni hanno ripreso vigore e si sono radicalizzate, soprattutto a Tel Aviv, Haifa e a Beer Sheva. Lo scontro non si manifesta solo in piazza, con arresti e feriti, ma anche all'interno degli apparati statali. Riservisti, militari in servizio e anche forze di polizia sono scesi in piazza. Il capo del Mossad ha espresso viva preoccupazione per la crisi istituzionale, il Capo di stato maggiore dell'esercito non è stato ricevuto da Netanyahu. In Israele è in corso una forte polarizzazione politica in cui entrambi gli schieramenti si dichiarano difensori della democrazia, ed è proprio questo a preoccupare di più: è il sistema nel suo complesso ad essere andato in cortocircuito. Il leader dell'opposizione, Yair Lapid, ha dichiarato: "Vogliono fare a pezzi lo Stato, la democrazia, la sicurezza, l'unità del popolo di Israele e le nostre relazioni internazionali". Alle critiche di Lapid ha risposto Netanhyau: "La norma approvata oggi non è affatto la fine della democrazia, bensì la realizzazione del volere dell'elettorato e dunque l'essenza stessa della democrazia". Si prospetta anche la possibilità di uno sciopero generale. Il presidente americano Biden aveva consigliato al Primo Ministro di non avere fretta nell'approvare la proposta di legge per evitare di acuire la tensione, ma all'interno del governo israeliano ci sono forze ed equilibri che non permettono di rallentare la marcia. Israele è un avamposto degli USA: se dovesse collassare, tutto il Medioriente (e non solo) ne risulterebbe sconvolto. La banca Morgan Stanley e l'agenzia di rating Moody's hanno formulato un giudizio negativo sull'evoluzione economica del paese, e lo shekel sta perdendo valore sui mercati internazionali.
La teleconferenza di martedì sera, a cui si sono connessi 20 compagni, è iniziata analizzando i fatti russi, in particolare la "marcia per la giustizia" della compagnia militare privata Wagner verso Mosca, che ha catalizzato l'attenzione del mondo intero.
Il quadro generale da cui partire per non essere risucchiati dal vortice dell'attualismo è il seguente: il fine della guerra in corso è il mantenimento dell'egemonia americana, e tale spinta non può che produrre una reazione contraria da parte del resto del mondo. L'unipolarismo a stelle e strisce è messo in discussione da sempre più attori statali.
Il contesto globale è contraddistinto da una crisi dell'ordine internazionale, per il semplice motivo che un passaggio di consegne nella catena imperialistica non si vede. La causa profonda del marasma sociale e della guerra in atto è riconducibile alla crisi della legge del valore, tema che abbiamo approfondito in diversi articoli della rivista.
La stampa occidentale presenta i recenti accadimenti russi o come conseguenza dell'aumento del caos dovuto alla pessima conduzione della guerra o come un mancato colpo di stato. Questa lettura risulta però superficiale e poco convincente.
Appaltare la guerra può essere vantaggioso per gli Stati ("L'outsourcing globale") e per le varie lobbies, ma può condurre anche a inconvenienti di percorso. Sembra che il motivo scatenante dell'azione di Prigožin sia stato l'annuncio dell'annessione delle compagnie militari private sotto il controllo del Ministero della Difesa a partire dal prossimo 1° luglio. La Wagner, cresciuta d'importanza a livello internazionale per l'impegno nelle varie operazioni militari all'estero, avrebbe voluto ritagliarsi uno spazio autonomo nella gestione dei territori scenario di guerre (materie prime, ad esempio). In questi anni diversi oligarchi russi si sono fatti la propria milizia privata (vedi Potok e Fakel per Gazprom) e, evidentemente, Mosca ha sentito l'esigenza di mettere un po' d'ordine.
La teleriunione di martedì sera, presenti 15 compagni, è iniziata con un aggiornamento sul conflitto in Ucraina.
Il crollo della diga di Kakhovka sul Dnepr esprime in maniera lampante le forme attuali della guerra e le conseguenze che essa mette in atto. Elenchiamole per punti: 1) il raccolto di frumento di tutta l'area è pesantemente compromesso. Trattandosi di una regione particolarmente importante a livello agricolo, la produzione sarà notevolmente inferiore alla media; 2) la diminuzione della quantità di grano disponibile avrà conseguenze sulle popolazioni più povere del mondo, in particolare dell'Africa; 3) una minore produzione implica l'aumento dei prezzi e conseguentemente la crescita dell'inflazione; 4) l'impossibilità di fornire acqua dolce alla penisola di Crimea; 5) lo straripamento delle acque, oltre ai danni alla flora e alla fauna, comporta forti rischi di diffusione di epidemie; 6) l'allagamento potrebbe ripercuotersi negativamente sulla falda acquifera e quindi sulla stabilità della centrale nucleare di Zaporizhzhia e del suo sistema di raffreddamento; 7) l'inondazione ha spostato le mine russe nelle campagne.
Sia a livello locale (regione di Kherson) che nazionale ci sarà un sensibile peggioramento delle condizioni di vita di ampie fette di popolazione e gravi conseguenze per l'ambiente. Sulla vicenda, la propaganda si è messa in moto da una parte e dall'altra, lanciando reciproche accuse riguardo la responsabilità dell'esplosione che ha causato il crollo della diga. Per ora non vi sono elementi per formulare un'ipotesi, e va tenuto conto che esiste anche la possibilità che il danneggiamento non sia "volontario" ma il risultato dei danni indiretti provocati dalle operazioni belliche e, soprattutto, dell'evidente carenza di manutenzione conseguente alla guerra. Questa possibilità, qualora fosse reale, esprimerebbe in pieno il carattere assunto oggi dalle contrapposizioni militari delle potenze imperialiste e dei loro vari galoppini. In sintesi, questo episodio è emblematico di alcuni aspetti della guerra moderna, che assume una durata sempre più prolungata e una dimensione puramente distruttiva, mettendo a rischio la stessa riproduzione della specie umana.
La teleriunione di martedì sera, connessi 14 compagni, è iniziata con alcune considerazioni riguardanti quanto discusso negli incontri precedenti in merito alla competizione sino-americana nel contesto della guerra globale.
Partendo dalla visione del video "USA contro Cina. La sfida del secolo vista da Pechino" (Giorgio Cuscito, analista di Limes), possiamo approfondire alcuni aspetti inerenti a ciò che i borghesi chiamano "geopolitica". Di questa nuova scienza, nata dalla constatazione che particolari aree geostoriche determinano i comportamenti dei vari attori statali e politici, se ne parla nel filo del tempo "Il pianeta è piccolo" (1950): "Essa [la geopolitica] vuole studiare la geografia del pianeta nei suoi incessanti mutamenti per effetto del soggiorno e dell'opera dell'uomo. È un ramo di scienza che ha capito che le leggi dei fatti storici non si scoprono nelle tracce che hanno lasciato nel cervello dell'individuo ma nella fisica reale degli oggetti ponderabili."
Riguardo il rapporto USA/Cina abbiamo ripreso alcune mappe di Limes che schematizzano la strategia di contenimento americana. Lo stretto di Malacca, che separa l'isola indonesiana di Sumatra dalla costa occidentale della penisola malese e mette in collegamento l'Oceano Pacifico con l'Oceano Indiano, è da secoli un hub strategico per le rotte commerciali. Il canale è sotto il controllo degli Americani, che hanno schierato armi e attrezzature a Singapore. In caso di aumento della tensione nell'area, la sua chiusura potrebbe avere importanti ripercussioni a livello commerciale (di lì passa il 40% del commercio mondiale), soprattutto per la Cina. Un altro aspetto a cui prestare attenzione è il programma cinese noto come "Obiettivo 2049": per i cento anni della nascita della Repubblica Popolare Cinese, Pechino si è posta l'obiettivo di annettere Taiwan. Durante l'ultimo congresso del PCC, il presidente Xi Jinping ha dichiarato che non è da escludere in assoluto l'uso della forza per riprendersi l'isola.
La teleriunione di martedì sera, a cui si sono collegati 16 compagni, è cominciata con il commento dell'ultimo numero dell'Economist, che rappresenta in copertina i due pesi massimi USA e Cina intenti a combattere un match di pugilato ("Why the China-US contest is entering a new and more dangerous phase"). La preoccupazione del settimanale inglese riguarda il fatto che la ricerca del dominio militare intorno ad alcuni punti critici, come ad esempio Taiwan, provochi incidenti o scontri che possano sfuggire al controllo innescando processi catastrofici.
È notizia di questi giorni l'accordo tra le banche centrali di Brasile e Cina che consentirà ai due paesi di utilizzare le loro valute per gli scambi commerciali, bypassando l'uso del dollaro. In Rete circolano articoli di elementi di sinistra che valutano tale intesa come epocale, dato che aprirebbe la possibilità di una biforcazione storica: "di fronte alla crisi del ruolo dominante degli Usa dobbiamo scatenare la terza guerra mondiale o dobbiamo ricercare una nuova cooperazione tra i popoli e i paesi?" ("Brasile e Cina, perché l'accordo monetario che estromette il dollaro può sconvolgere il mondo", Paolo Ferrero)
In realtà, in regime capitalistico una cooperazione tra tutti gli stati è impossibile, così com'è impossibile la cooperazione tra tutte le aziende: la concorrenza non lo permette. Restando all'interno della presente forma sociale, non c'è soluzione alle contraddizioni che essa genera: "A causa della proprietà e dei confini nazionali ci sarà sempre la corsa al maggior accaparramento, la concorrenza sui mercati, l'utilizzo di eserciti regolari e irregolari, insomma la guerra fra capitalisti con qualunque aspetto essa si manifesti." ("Super-imperialismo?")
La teleconferenza di martedì sera, a cui si sono connessi 15 compagni, ha avuto come tema principale la guerra in Ucraina scoppiata circa un anno fa.
Abbiamo iniziato la discussione analizzando le prese di posizione di alcuni militari italiani, (Leonardo Tricarico e Marco Bertolini) contrari all'invio dei carri armati prodotti in Germania. Si è quindi passati a commentare quanto scrive il generale Fabio Mini nel suo ultimo libro L'Europa in guerra (ed. PaperFIRST, 2023). Una prima considerazione da fare, leggendo i capitoli iniziali del testo, riguarda il fatto che le campagne di denuncia di leniniana memoria sono ormai sostenute dagli stessi generali dell'esercito, motivo per cui i comunisti non si possono fermare a tale livello e devono per forza andare oltre.
In L'Europa in guerra si dice che lo svuotamento degli obsoleti arsenali occidentali, dovuto alle forniture di armi a Kiev, rende necessario il rinnovo degli armamenti e apre le porte all'adozione di nuove risorse tecnologicamente più avanzate ed efficienti. Tali equipaggiamenti, afferma Mini, sono prevalentemente americani e legano sempre più l'Europa agli Stati Uniti, paese che maggiormente investe nella preparazione e nell'impiego di forze militari. Gli alleati NATO dell'Est Europa sono le punte di lancia dell'America nel Vecchio Continente.
Per il generale, l'Ucraina sta combattendo contro l'Europa per e con gli Stati Uniti. E l'obiettivo di quest'ultimi è mantenere l'egemonia sull'Europa e interrompere qualsiasi legame politico ed economico tra Berlino e Mosca, costringendo gli alleati a importare da loro risorse energetiche a costi più alti. In ballo c'è il controllo di un mondo che non accetta più supinamente il dominio del dollaro. Come nota l'Economist ("What Ukraine means for the world"), solo un terzo della popolazione mondiale vive in paesi che hanno condannato la Russia per l'invasione dell'Ucraina e le hanno imposto sanzioni.
Durante la teleconferenza di martedì sera, connessi 20 compagni, abbiamo parlato dello scontro bellico in corso in Ucraina e delle sue conseguenze a livello internazionale.
Il governo di Zelensky e i media occidentali hanno celebrato la riconquista della città di Kherson da parte dell'esercito ucraino in seguito alla ritirata dei Russi verso est, ma hanno cantato vittoria troppo presto. Il 15 novembre scorso la Russia ha sferrato un attacco missilistico, con oltre 100 razzi, che si è abbattuto sulle infrastrutture energetiche del paese, causando l'interruzione della fornitura elettrica in alcune città. Leopoli è rimasta senza elettricità e riscaldamento. In serata un paio di missili sono caduti in Polonia, vicino al confine con l'Ucraina, facendo scattare l'allarme nelle capitali occidentali dato che il paese dell'Europa centrale fa parte della NATO e l'articolo 5 del Trattato Nord Atlantico sancisce che un attacco armato contro uno stato membro è un attacco contro tutti.
La teleriunione di martedì sera, presenti 19 compagni, è iniziata con il commento del risultato delle recenti elezioni politiche in Italia.
In Europa, ma anche oltreoceano, stanno riscuotendo successo i raggruppamenti populisti riconducibili alla galassia di destra. Ciò dipende dal crescente livello di instabilità sociale dovuta a crisi, miseria, pandemia e guerra. L'Italia, al solito, fa da laboratorio per il resto del mondo. Analizzando la tornata elettorale, il dato su cui soffermarsi è quello che riguarda la rinuncia al voto: quasi il 40% degli aventi diritto non si è recato alle urne, mentre il 26% dei votanti ha dato fiducia ad una forza che stando all'opposizione ha cavalcato il malessere sociale. In un articolo di domenica 25 settembre l'Avvenire riporta un grafico significativo sulla disaffezione dei cittadini verso la politica a partire dal secondo dopoguerra, che mostra una progressione sempre più marcata dell'astensionismo. Le vecchie strutture politiche, i partiti e persino i sindacati perdono iscritti. La volatilità del voto, che tende a premiare i partiti populisti, con le fiammate prima della Lega, poi del Movimento 5 Stelle, e adesso di Fratelli d'Italia, è la logica conseguenza del mancato radicamento dei partiti nella società e della fluidità della situazione.
La teleconferenza di martedì sera, presenti 25 compagni, è iniziata riprendendo l'argomento toccato in chiusura della scorsa riunione, ovvero la teoria della rendita agraria e immobiliare nel moderno capitalismo in relazione al conflitto in Ucraina, che ormai coinvolge, a diversi livelli, tutto il mondo.
Gli attori che giocano a questo wargame sono tanti, ma in testa ci sono le potenze maggiori. Abbiamo parlato della rendita partendo dal problema della fornitura del gas russo, dato che Mosca ha paventato la possibilità di interrompere i flussi verso l'Europa, evento che innescherebbe conseguenze dal punto di vista politico, economico e sociale. La Russia ha comunicato ai paesi ritenuti ostili, quelli che hanno messo in atto delle sanzioni, che se vogliono continuare ad acquistare gas russo dovranno pagarlo in rubli; e a quelli ritenuti amici, che sta valutando se accettare pagamenti in bitcoin.
Durante la teleriunione di martedì sera, a cui si sono connessi venti compagni, abbiamo ripreso la discussione sulla guerra in Ucraina.
In un'intervista sul conflitto in corso l'ex ufficiale della Cia Larry C. Johnson dipinge uno scenario diverso rispetto a quello proposto dai media mainstream occidentali. Secondo l'analista militare, la Russia ha già vinto la guerra ed ora non le rimarrebbe che un lavoro di pulizia. Già a 24 ore dall'inizio delle operazioni militari, gli attacchi russi avrebbero distrutto le capacità radar ucraine mettendo così fuori combattimento la forza aerea del paese; il fatto che la lunga colonna di carri armati russi, posizionata a ridosso di Kiev, non abbia subito nessun tipo di attacco ne sarebbe la riprova. A questo si aggiungono i pesanti bombardamenti alle basi di Yavoriv e Zhytomyr, de facto basi Nato in quanto utilizzate dall'Alleanza come centri di addestramento e logistici per fornire armi e combattenti all'Ucraina.
L'analisi di Johnson, che tutto sommato offre chiavi di lettura più coerenti rispetto a quelle della propaganda ufficiale, conferma quanto detto durante la scorsa teleriunione e cioè che la Russia non si sta ritirando perché in difficoltà, ma ha invece raggiunto parte dei suoi obiettivi (il controllo della fascia che va dal Donbass alla Crimea, e di quella più a nord che segue il confine russo-ucraino), e ora sta riposizionando le proprie truppe. Da stabilire, anche alla luce dei negoziati in corso, se una configurazione di questo tipo possa bastare per chiudere le ostilità.
La guerra potrebbe estendersi nell'Indo-Pacifico con un'azione militare cinese contro Taiwan?
La teleconferenza di martedì sera, presenti 23 compagni, è iniziata con la segnalazione di alcune news sulla Cina.
Secondo The Economist ("Why foreign investors are feeling jittery about China"), dall'inizio di marzo gli investitori internazionali hanno ritirato circa 11,5 miliardi di dollari dalla Cina. La fuga preoccupa il governo di Pechino, che però ufficialmente minimizza l'accaduto. Le cause alla base di questo deflusso di capitali esteri vanno cercate nei problemi dell'immobiliare cinese (caso Evergrande), nella maggiore ingerenza dello stato nell'economia, nel sostegno di Xi Jinping a Putin, nel timore di una possibile invasione cinese di Taiwan, ma anche nel fatto che la strategia "contagi zero", adottata dal paese per arginare la diffusione del Covid-19, non ha funzionato. In seguito alla crescita dei casi (5 mila in un solo giorno), sono state messe in lockdown diverse metropoli, tra cui Shenzhen (17,5 milioni di abitanti) e l'importante polo industriale di Shenyang (9 milioni). Ad Hong Kong la situazione è fuori controllo, i tassi di mortalità hanno raggiunto livelli mai visti prima: 26.000 nuovi casi al giorno su una popolazione di 7,2 milioni di abitanti, e un tasso di mortalità che è il più alto mai registrato in un paese industrializzato. I severi lockdown messi in atto dal governo cinese avranno un impatto altrettanto importante sull'industria, sui trasporti e sul movimento di uomini e merci.
Nella teleconferenza di martedì 15 marzo, a cui si sono connessi venti compagni, abbiamo ripreso alcuni temi affrontati durante l'85° incontro redazionale, nello specifico quello della guerra in Europa.
Le conseguenze sociali della guerra si fanno già sentire in Italia e altrove. Preoccupano la crescita dei prezzi di energia, gas, carburante e beni di prima necessità, e il profilarsi all'orizzonte della stagflazione (crescita bassa e aumento generale dei prezzi). L'Onu ha lanciato l'allarme: l'impennata dei prezzi e la minaccia alle forniture delle principali colture di base sta mettendo milioni di persone a rischio fame.
Per parlare correttamente della guerra in Ucraina è d'obbligo inquadrare la questione nel più ampio contesto globale, trattandola secondo invarianti osservabili.
Tutti i paesi, a diversi gradi, sono coinvolti nel conflitto, ma i giocatori principali di questo wargame sono Stati Uniti, Russia e Cina. Non possiamo invece considerare l'Europa come soggetto politico (anche se in questi giorni si sente parlare di esercito europeo), perché alla UE mancano politiche coerenti di aggiustamento dei conti e di circolazione delle merci, nonché di coesione degli interessi tra i paesi membri. Naturalmente, nessun attore statale è dotato di libera volontà e fa ciò che vuole, neppure gli Usa: nell'epoca del capitalismo di stato è il primo che controlla il secondo e che lo fa ballare alla propria musica. Le guerre scaturiscono dalla maturazione dei rapporti di produzione, sono fattore e prodotto di nuovi rapporti interimperialistici, di nuovi assetti del capitalismo mondiale.
La teleconferenza di martedì sera, presenti 20 compagni, è stata dedicata nuovamente a quanto sta accadendo sul territorio ucraino.
Almeno dalla Comune di Parigi, i comunisti in Europa sanno che non si deve parteggiare per questa o quell'altra fazione borghese, per questo o quell'altro governo, ma che bisogna contare solo sulle proprie forze, sulle forze della propria classe. E in caso di guerra la consegna per i militanti è quella di praticare il disfattismo rivoluzionario (con scioperi, manifestazioni, ecc.), cioè l'opposizione attiva e operante ad ogni sforzo bellico del proprio paese.
La borghesia è la classe che detiene il potere ed essa deve difenderlo. Il proletariato per sua natura non ha nulla da difendere (Manifesto) e qualsiasi movimento intraprenda è sempre all'attacco: in quanto classe "oppressa", può solo pretendere di più rispetto a ciò che ha, e di fronte alla guerra deve rigettare le ideologie pacifiste e difesiste. Nel filo del tempo "Onta e menzogna del "difesismo"" (1951) si afferma:
"Ininterrottamente, coerentemente, da Marx a Lenin, i rivoluzionari socialisti non hanno mai ricalcata la balorda figura borghese dello 'scongiuratore di guerre', scemo quanto impotente, ma si sono preparati ad essere, nel senso rivoluzionario, opposto a quello del superimperialismo, i 'profittatori di guerra'. Lenin eresse la dottrina del disfattismo e la condusse ad una clamorosa vittoria storica... Quando i partiti proletari sono stati, ad opera del tradimento, messi a 'desiderare' la vittoria di alcuni governi, e a combattere per essi, le forze della rivoluzione mondiale sono andate in rovina."
Durante la teleriunione di martedì sera, a cui si sono collegati 20 compagni, abbiamo parlato della situazione in Ucraina e delle sue implicazioni.
La Russia si sente accerchiata. Alcune cartine pubblicate dalla rivista Limes (n. 1/16, "Il mondo di Putin") evidenziano le pressioni a cui essa è sottoposta da tutti i lati, e che la spingono a reagire. Dalla caduta del Muro di Berlino e dalla fine del vecchio assetto dualistico del mondo (condominio Usa-Urss), la nazione più estesa del pianeta si sente insicura ai propri confini e ha la necessità di preservare il proprio status geopolitico, compromesso dall'allargamento della Nato. Nel 2020 la notizia della possibilità di uno spostamento in Polonia delle armi nucleari americane dislocate in Germania è stata accolta dalla Russia come una provocazione, al pari dell'ingresso nella Nato, nel 2004, di altri paesi dell'area ex-sovietica (Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania e Slovacchia).
Negli ultimi anni la Nato si è spinta sempre più ad est, e Usa e Inghilterra hanno accresciuto la loro influenza in Ucraina con la rivolta di piazza Maidan del 2014. Il presidente d'allora, Viktor Janukovič, fu costretto a fuggire in Russia e in seguito alla "rivoluzione" ucraina Mosca rifiutò di riconoscere il nuovo governo ad interim prendendo, per tutta risposta, il controllo della Crimea.
Durante la teleriunione di martedì 15 febbraio, a cui si sono collegati 18 compagni, abbiamo parlato di "marasma sociale e guerra", come titola un articolo della nostra rivista (n. 29).
In Canada non si fermano le manifestazioni dei camionisti "no vax" che nei giorni scorsi hanno bloccato l'Ambassador Bridge, il più importante valico di frontiera con gli Usa, e assediato il parlamento di Ottawa. Il premier canadese Justin Trudeau ha invocato l'Emergencies Act, lo stato di emergenza pubblica nazionale (mai utilizzato prima in Canada), che gli concede più poteri in tema di ordine pubblico. La protesta, anche grazie al tam-tam su Facebook e Telegram, si è presto estesa ad altri paesi (Usa, Australia, Nuova Zelanda, Francia, Austria e Belgio), e ha causato blocchi del traffico e concentramenti in varie capitali, raccogliendo il sostegno dell'estrema destra, del variegato mondo "no green pass" e di Donald Trump. L'hashtag #FreedomConvoy è presto diventato globale.
Il primo numero del 2022 della rivista mensile Limes s'intitola "L'altro virus" e nel suo sommario riporta: "Due anni di epidemia di Covid-19 lasciano un segno che non è e non può essere solo medico. I morti restano l'effetto più tragico e tangibile del virus, ma non sono l'unico. C'è l'impatto economico. C'è lo sconvolgimento delle abitudini individuali, più o meno limitate nel loro libero esercizio dalle misure d'igiene collettiva. C'è un effetto psicologico ancora non pienamente emerso, ma le cui ricadute geopolitiche cominciano a palesarsi."
I borghesi più lucidi, più legati ai fatti e meno alle ideologie, si rendono conto che i processi di disintegrazione politica e sociale aumentano e si intensificano, così come abbiamo scritto in apertura dell'ultima newsletter (n. 245, 19 gennaio 2022): "Viviamo in una società che scoppia. I suoi membri, divisi o raggruppati secondo criteri il più delle volte arbitrari e casuali, non riescono più a darsi un'identità plausibile. La pandemia, invece di compattare gli individui intorno a provvedimenti utili alla salvaguardia della specie, ha aggravato la situazione facendo emergere ataviche tendenze all'irrazionale."
Durante la teleriunione di martedì sera, a cui hanno partecipato 21 compagni, abbiamo commentato l'articolo "The technology of seeing and shooting your enemies", apparso sulla rivista The Economist e dedicato all'analisi della guerra occorsa nel 2020 tra Azerbaigian e Armenia per il Nagorno-Karabakh, un'enclave di etnia armena all'interno del territorio azero.
L'approfondimento proposto dal settimanale inglese è interessante perché mette in luce le dinamiche che si sono sviluppate durante il conflitto. L'Azerbaigian dispone di un equipaggiamento militare risalente all'era sovietica ma si procura da Israele e Turchia i droni TB2 e Harop, che si rivelano fondamentali per la vittoria. I velivoli acquistati, in grado di lanciare bombe e missili e di effettuare attacchi "kamikaze" ai radar nemici, sbaragliano in pochissimo tempo i mezzi d'artiglieria e le postazioni missilistiche armene. Lo scontro, seppur breve (è durato 44 giorni), è seguito con attenzione dagli esperti militari di tutto il mondo, poiché individuano in esso alcuni degli elementi che potrebbero caratterizzare i futuri conflitti, anche ad una scala maggiore.
La teleconferenza di martedì sera, connessi 19 compagni, è iniziata commentando quanto è accaduto recentemente in Kazakistan, ultimo episodio in ordine cronologico del processo che abbiamo definito "Marasma generale e guerra" (rivista n. 29):
"Quella che stiamo analizzando è un'onda sismica la cui energia sotterranea è la stessa per tutti i differenti fenomeni di superficie, dove qua crolla un muro, là si apre una voragine e altrove cade una frana."
Il Kazakistan ha fatto parte dell'Unione Sovietica fino alla sua disgregazione. Ha una superficie di circa 2,7 milioni di kmq (nove volte l'Italia) e 18 milioni di abitanti; nel suo sottosuolo giaceva il 60% delle risorse minerarie dell'ex blocco sovietico, mentre il suo territorio ne rappresentava il 20% delle terre coltivabili. Attualmente è uno dei maggiori fornitori di frumento e altri generi alimentari per tutta l'area russa. E' il primo produttore al mondo di uranio, ha ampie riserve di petrolio, ed è tra le poche nazioni a disporre di "terre rare", fondamentali nelle produzioni di tecnologia digitale, dalle rinnovabili all'auto elettrica. Dopo la caduta dell'Urss, in tutta la fascia centroasiatica si sono stabilite delle oligarchie, in Kazakistan ben rappresentate dall'ex presidente Nursultan Nazarbaev. Nel paese la ricchezza è concentrata nelle mani di élite ristrettissime, mentre la popolazione versa in condizioni sempre più precarie. Stando ai dati relativi all'anno scorso diffusi dal World Inequality Database, il 10% più ricco della nazione detiene circa il 60% della ricchezza totale, mentre più del 4% degli abitanti vive al di sotto della soglia di povertà.
Durante la teleriunione di martedì sera, a cui hanno partecipato 23 compagni, abbiamo discusso della contraddizione tra le esigenze internazionali del capitale mondiale e gli interessi borghesi nazionali, su sollecitazione di un compagno che ha chiesto un approfondimento in merito.
Se un unico grande trust si affermasse a livello mondiale non si tratterebbe più di capitalismo, ma di una società diversa. Il capitalismo attuale, globalizzato ad un punto più alto di quanto potesse scorgere Lenin al suo tempo, non potrà mai negarsi fino a questo punto: finché ci sarà proprietà privata, ci saranno sempre accaparramento di lavoro altrui, concorrenza tra stati e l'esistenza di eserciti. Insomma, guerra tra capitalisti e tra classi sociali.
Durante la teleconferenza di martedì sera, presenti 26 compagni, abbiamo ripreso i temi affrontati durante lo scorso incontro redazionale (13-14 marzo 2021). In particolare, abbiamo approfondito alcuni aspetti della relazione di sabato mattina, "Il rapporto Cina-Stati Uniti nel corso della cosiddetta crisi sistemica", riguardo gli scenari di guerra futuri.
Da tempo escludiamo la possibilità dello "scoppio" di una guerra di tipo classico, con schieramenti netti e con grandi colossi, ad esempio Cina ed Usa, contrapposti apertamente sul campo. Alcune discussioni all'interno del vecchio partito comunista internazionale vertevano proprio intorno alla validità della proposizione bolscevica "trasformare la guerra imperialista in guerra rivoluzionaria". Amadeo Bordiga, quando parlava di terza guerra mondiale, ipotizzava un conflitto esteso a livello globale, e in occasione del conflitto in Iraq nel 2003 abbiamo avuto conferma della validità di tale posizione: il mondo è troppo grande per il controllo ad opera di un solo paese, ma è altresì troppo piccolo per garantire sviluppo e profitti a tutti. Anche gli esperti borghesi sono giunti a prevedere una guerra futura generalizzata, mentre Papa Francesco, già da qualche anno, fa riferimento ad una terza guerra mondiale combattuta a pezzi. Ogni guerra inizia dove finisce l'altra: indubbiamente l'attuale assetto imperialistico è quello determinatosi nel 1945 alla fine della seconda guerra mondiale, però oggi gli Stati Uniti e il resto del mondo non sono più gli stessi. Nessun paese è in grado di scalzare gli Usa, con le loro 800 basi militari disseminate su tutto il pianeta, alla guida del mondo, ma allo stesso tempo il gendarme mondiale si mostra sempre più acciaccato ed economicamente dipendente dall'estero.
La teleconferenza di martedì 16 luglio, a cui hanno partecipato 8 compagni, è cominciata dallo "scandalo" dei fondi russi alla Lega.
In realtà, per quanto ne dica Repubblica, c'è ben poco di cui scandalizzarsi: la Russia ha sempre agito in questo modo, mettendo da parte quanto necessario per incastrare il malcapitato di turno per poi ricattarlo e costringerlo a fare qualcosa. Da leggere, a tal proposito, il testo di Marx Rivelazioni sulla storia diplomatica segreta del XVIII secolo.
La Russia è poco europea, ha caratteristiche asiatiche, ed è un paese fortemente centralizzato. Lo afferma lo stesso Vladimir Putin in una recente intervista al Financial Time, in cui denuncia il fallimento del liberalismo, il principio sui cui si reggerebbero i governi dell'Occidente che oggi soffrono di una "frattura tra il popolo e la classe dirigente". Secondo il presidente russo, inoltre, "la guerra fredda era una cosa cattiva, ma almeno c'erano delle regole, che tutti i protagonisti delle relazioni internazionali dovevano rispettare in un modo o nell'altro"; oggi invece il mondo è frammentato e caotico.
Difficile sapere cosa si celi dietro l'affaire Lega, è decisamente più utile concentrare l'attenzione sulle alleanze e gli schieramenti imperialistici odierni. La situazione è molto fluida e si fatica a capire chi è nemico di chi (vedi atteggiamento schizofrenico degli Stati Uniti verso la Corea del Nord). Non è quindi un'esagerazione dire che siamo alla guerra di tutti contro tutti.
La teleconferenza di martedì sera, presenti 13 compagni, è iniziata commentando due articoli pubblicati sull'edizione del 28 luglio di The Economist dedicata alla nuova via della Seta cinese: la Belt and road initiative (BRI).
Nel primo articolo, "China's belt-and-road plans are to be welcomed-and worried about", viene evidenziato il fatto che il progetto si configura come qualcosa di più rispetto ad una rete stradale e navale da e verso Pechino. Anche se per ora non sono chiare le strategie di investimento sia in termini di cifre sia per quanto riguarda le rotte commerciali e i relativi accordi bilaterali, la Cina descrive la BRI come un piano globale, programmando la costruzione di una "Pacific Silk Road" verso l'Oceano Pacifico, di una "Via della seta sul ghiaccio" attraverso l'Oceano Artico, e di una "Via della seta digitale" nel cyberspazio. "I paesi desiderosi dei finanziamenti cinesi", scrive The Economist, "accolgono il progetto come fonte di investimenti nelle infrastrutture tra Cina ed Europa, passando per Medio Oriente ed Africa. Quelli che temono la Cina lo vedono invece come un sinistro piano teso a creare un nuovo ordine mondiale in cui il Dragone è il potere preminente." "La BRI rappresenta", conclude l'articolo, "un motivo in più per l'America per rimanere in Asia". La Cina tenta di espandere maggiormente la sua sfera d'influenza e lo fa a partire proprio da quell'heartland (il cuore del mondo) che, secondo la teoria del geografo e diplomatico inglese H. Mackinder, è essenziale per chiunque voglia prendere il controllo del pianeta.
La teleconferenza di martedì sera, presenti 14 compagni, è iniziata con un breve commento dell'articolo "Il messaggio dimenticato di Karl Marx", pubblicato su Internazionale a firma di Paul Mason.
Il giornalista britannico, noto per il libro Postcapitalism, sostiene che il vero scopo di Marx fu non tanto di produrre una teoria della rivoluzione, quanto di affermare la riappropriazione e la liberazione dell'individuo; sono stati piuttosto i suoi seguaci ad averne travisato l'idea, preferendo una dottrina collettivistica basata sulla lotta di classe. L'errore viene fatto risalire alla tarda pubblicazione dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, andati in stampa solo nel 1932, che "contengono un'idea che nel marxismo è andata perduta: il concetto di comunismo come 'umanesimo radicale' [...] Il vero obiettivo della storia umana è la libertà, la realizzazione personale di ogni individuo."; e che, secondo Mason, non contemplano la necessità che il proletariato si costituisca in partito, in quanto "il vero soggetto rivoluzionario è l'io!"
Invece di limitarsi a divulgare quanto scritto dal rivoluzionario di Treviri, questi marxologi dell'ultima ora fanno opera di falsificazione, inventandosi un Marx che non esiste, ora filosofo e pensatore, ora socialdemocratico o libertario. Studiosi e accademici che magari giungono ad interessanti analisi della materia (vere e proprie capitolazioni ideologiche come nel caso dell'articolo "Happy Birthday, Karl Marx. You Were Right!", pubblicato sul New York Times), ma che rimangono preda dell'ideologia imperante dell'individualismo, e finiscono per affermare che le rivoluzioni avvengono come somma dei pensieri individuali e non come prodotto di forze storiche che prendono la forma di lotta tra le classi.
La teleconferenza di martedì sera, presenti 14 compagni, si è aperta con alcuni commenti riguardo l'imposizione, da parte del governo degli Stati Uniti, di nuovi dazi sull'importazione di acciaio e alluminio.
Nell'edizione dello scorso 10 marzo, l'Economist riportava in copertina una caricatura del volto di Donald Trump a forma di bomba a mano. L'intento era quello di evidenziare la pericolosità della politica intrapresa dal Presidente, ritenuta una "minaccia al commercio mondiale" poiché potrebbe portare allo sgretolamento di quel sistema di accordi tra paesi che ha sorretto il mondo capitalistico a partire dal secondo dopoguerra:
"Quali che siano i problemi dell'Organizzazione Mondiale del Commercio, sarebbe una tragedia minarla. Se l'America persegue una politica commerciale mercantilista sfidando il sistema commerciale globale, altri paesi sono tenuti a seguirla. Ciò potrebbe non portare a un immediato collasso dell'OMC, ma gradualmente eroderebbe uno dei fondamenti dell'economia globalizzata."
La teleconferenza di martedì sera, presenti 15 compagni, è iniziata commentando gli sviluppi dell'intervento turco in Siria con l'operazione denominata "Ramoscello d'ulivo".
La Turchia vede come il fumo negli occhi la presenza, a ridosso del suo confine meridionale, dello YPG, la forza armata a difesa della regione a maggioranza curda a nord della Siria, formata da 30.000 uomini e definita da Erdogan quale organizzazione terroristica. Da settimane l'esercito turco ha avviato l'offensiva nelle zone controllate dai miliziani curdi, che si sono asserragliati nel cantone di Afrin e hanno invocato l'intervento dell'esercito di Assad in difesa del territorio siriano. In seguito all'operazione militare la situazione interna turca si è surriscaldata, e, secondo le dichiarazioni del ministero dell'interno, sarebbero circa un migliaio le persone arrestate per aver postato sui social network commenti negativi riguardo l'azione bellica o per aver partecipato a manifestazioni contro la guerra.
Al caos si aggiunge ulteriore caos. In Medioriente - ma non solo - si sono messi in moto degli automatismi per cui nessuno stato ha il controllo di quanto succede e non si capisce più chi è contro chi. Lo nota anche il Sole 24 Ore che nell'articolo "Tutti contro tutti in Siria (per il petrolio)" scrive: "Col passare del tempo la guerra civile siriana sta assomigliando sempre di più al feroce conflitto che ha dilaniato il Libano dal 1975 al 1990. Le alleanze sono cangianti, difficili da classificare. Perché si forgiano e si disfano nel volgere di pochi mesi. E assumono connotazioni differenti a seconda della regione."
La teleconferenza di martedì, presenti 6 compagni, è iniziata accennando allo sviluppo dell'intelligenza artificiale.
The Economist ha pubblicato un curioso articolo, "How soon will computers replace The Economist's writers?" in cui si chiede entro quanto tempo un computer potrà sostituire un giornalista del settimanale inglese. A tale scopo ha formato un programma di intelligenza artificiale per gli articoli della sezione "Scienza e Tecnologia", e lo ha invitato a presentare un suo pezzo. Risultato: per adesso il computer ha imitato benissimo lo stile del giornale, individuando argomenti validi, tuttavia le frasi pur essendo grammaticalmente corrette mancano di significato. La marcia nella sostituzione di forza lavoro è però inesorabile, scrive lo stesso The Economist:
"Le macchine stanno arrivando. Uno studio molto citato nel 2013 ha concluso che metà dei posti di lavoro americani erano a rischio nei prossimi decenni. Gli scrittori non sono immuni. Un altro articolo, che ha esaminato le ricerche sull'intelligenza artificiale (AI), ha concluso che i computer avrebbero scritto saggi scolastici entro la metà del 2020 e sforneranno i libri più venduti entro il 2040."
Durante la teleconferenza di martedì sera, presenti 15 compagni, abbiamo affrontato il tema del reddito di base.
Sono molte le città e gli stati che stanno sperimentando misure di questo tipo: Scozia, Finlandia, Barcellona in Spagna, alcune località dell'Olanda, la provincia dell'Ontario (Canada), Oakland e Stockton negli Stati Uniti (dove per il 2018 un campione casuale dei 300.000 residenti otterrà 500 dollari al mese), e per ultima la città di Zurigo, che nel 2018 introdurrà un reddito universale di 2500 franchi mensili (quasi 2200 euro) per gli adulti, e 625 franchi (circa 550 euro) per i bambini. Anche l'Italia sta cercando di porre rimedio alla miseria crescente con il Rei, il reddito di inclusione. Solo che nel Belpaese l'esperimento è partito nel caos assoluto, con Inps, Comuni e CAF, impreparati ad accogliere le richieste, presi d'assalto dai cittadini. Da segnalare il sito Basic Income Network (Bin) che raccoglie notizie sulle iniziative in materia di reddito di base, come la manifestazione prevista per il prossimo 16 dicembre a Roma (#FightRight).
Tempo fa il M5S ha organizzato una marcia da Perugia ad Assisi per chiedere il reddito di cittadinanza, uno dei punti programmatici (una delle cinque stelle) che caratterizza il movimento dalla sua nascita. Sul tema sorprendente il silenzio dei confederali, che lasciano ai grillini e ad altri soggetti il monopolio su un argomento di questa portata.
La teleconferenza di martedì sera, presenti 11 compagni, è iniziata commentando l'espansionismo cinese in ambito internazionale.
Dopo essere penetrata economicamente in Africa Pechino punta sul settore della logistica, investendo solo negli ultimi due anni oltre 3,1 miliardi di euro in otto porti strategici: Haifa, Ashdod, Ambarli, Pireo, Rotterdam, Vado Ligure, Bilbao e Valencia. Per quanto riguarda l'Italia, a essere interessati sono gli scali di Genova-Savona e Trieste. Più che investire nella vecchia industria si cerca il controllo degli hub logistici, diventati parte di una gigantesca rete che integra le catene della produzione e del consumo. Scrive Simone Fana nell'articolo "Logistica, le nuove catene dello sfruttamento":
"Dai grandi mari internazionali sino alle infrastrutture via terra, la circolazione delle merci, il loro stoccaggio e la distribuzione delle stesse si articola sull'organizzazione di una catena logistica mondiale. In questa centralità si riconoscono i temi di fondo che interrogano la forma e i processi di globalizzazione, dalla disarticolazione e ricomposizione dei luoghi della sovranità politico-statuale sino alla natura dei flussi migratori nella divisione internazionale del lavoro".
La teleconferenza di martedì sera, a cui hanno partecipato 12 compagni, è iniziata con alcune considerazioni sulle guerre in corso.
Per affrontare il tema è necessario considerare non solo i conflitti in essere fra le nazioni, ma anche tutte quelle situazioni di scontro armato interne agli stati, che coinvolgono i civili, prevedono operazioni di polizia con mezzi da guerra e spesso mostrano strutture di sicurezza fuori controllo. Aggiungendo tutti i pezzi, il quadro che si compone è quello di una guerra civile diffusa con un impiego intensivo delle partigianerie (vedi Ucraina, Siria, Libia, Yemen). Non a caso la Chiesa, che alle spalle ha una lunga tradizione, ha più volte definito questo momento storico come una guerra mondiale combattuta a pezzi.
La teleconferenza di martedì sera, presenti 13 compagni, è iniziata commentando la situazione economica negli Usa.
Appena insediatosi, Donald Trump ha annunciato che gli Stati Uniti usciranno dal Tpp, il progetto di accordo commerciale Trans-Pacifico a cui aderiscono altri 11 paesi, ed ha proposto, con tanto di apologia di quei capitalisti che investono nel proprio paese, incontri su cadenza trimestrale con i vertici delle maggiori industrie americane: "Tutto quello che dovrete fare è stare qui, non andar via. Non licenziare la vostra gente negli Usa".
Sappiamo da un pezzo che la storia, pur essendo fatta da uomini e da esecutivi che gli uomini formano per governare la società, non si svolge come essi vorrebbero, bensì secondo determinazioni materiali più forti di ogni volontà. In questo contesto ha avuto una certo eco la notizia di un possibile investimento della Foxconn per circa 7 miliardi che, per mezzo della controllata Sharp, dovrebbe assemblare display su suolo americano. 50 mila i posti di lavoro annunciati, ma bisognerà proprio vedere a cosa serviranno dato che i piccoli componenti vengono prodotti in modo automatico. Comunque il fatto che siano i cinesi a investire e produrre negli Stati Uniti, e non il contrario, significa che l'imperialismo a stelle e strisce è davvero messo male.
La teleconferenza di martedì sera, presenti 13 compagni, è iniziata commentando alcune notizie provenienti dagli Usa, in particolare riguardo agli attentati a New York e in New Jersey.
Gli States, nonostante vedano traballare il loro dominio planetario, restano dei vampirizzatori del valore altrui obbligando il resto del mondo a mantenerli in vita. La cosiddetta globalizzazione (che noi preferiamo chiamare imperialismo) ha integrato il capitale mondiale rendendolo sempre più autonomo rispetto alle decisioni dei governi, ridotti a semplici esecutori di decisioni prese altrove.
In Siria, mentre gli Usa colpiscono le postazioni del governo e i russi bombardano i convogli "umanitari", assistiamo ad una "interazione continua, a fatti che accadono 'in funzione di' sullo scenario del mondo intero, dove nessuno Stato o gruppo d'interessi può immaginare di essere al di fuori della mischia". Le forze statali in campo non sono però paragonabili a quelle della Seconda guerra mondiale; in questo scenario complesso lo scontro simmetrico prevede il lancio di missili teleguidati da Tampa e come risposta un'esplosione nel bel mezzo della folla a Nizza. Che sia un attentato compiuto da un "pazzo" o da cellule dormienti ben addestrate, si tratta comunque di fenomeni assolutamente incontrollabili e che tendono a generalizzarsi al mondo intero.
La teleconferenza di martedì sera, presenti 11 compagni, è iniziata commentando la notizia dell'accordo tra Russia e Stati Uniti per un cessate il fuoco in Siria.
Nella guerra moderna l'armistizio serve ai diversi schieramenti a rafforzare le posizioni, ed è, a tutti gli effetti, un proseguimento del conflitto. I bombardamenti in territorio siriano hanno causato migliaia di morti e raso al suolo intere città, compresi ospedali e scuole; se a prima vista sembra che le potenze in campo vogliano distruggere Daesh, in realtà in Siria è in corso una guerra di tutti contro tutti.
In Libia, proprio mentre sembrava conquistata la roccaforte islamica di Sirte, la situazione si è ulteriormente aggrovigliata. Il generale Haftar, che guida le milizie che sostengono il governo di Tobruk, ha lanciato un'offensiva per conquistare i pozzi petroliferi di Ras Lanuf e Sidra, controllati da milizie armate fedeli al governo di Tripoli riconosciuto dall'Onu.
Se alla fine della seconda guerra mondiale i maggiori paesi capitalistici riuscivano a controllare la situazione sociale interna e a centralizzare il fatto economico, oggi questa possibilità viene meno.
La teleconferenza di martedì, connessi 12 compagni, è iniziata con un breve commento sul summit tra Francia, Italia e Germania svoltosi a largo di Ventotene. Si è osservato che la sede prescelta per l'incontro, la portaerei Garibaldi, è paradigmatica della guerra in corso e dell'imperialismo capitalista (L'imperialismo delle portaerei).
E' di questi giorni la notizia del successo della sperimentazione di un istituto di ricerca americano che è riuscito a sintetizzare un nuovo tipo di pellicola dal latte. Ma quello che i giornali non riportano è che già ai tempi del fascismo, nel periodo delle sanzioni, la plastica dalla caseina è stata prodotta a livello industriale. Si tratta di procedimenti utilizzati in passato per sopperire alle carenze causate dalle guerre, un pò come facevano i paesi privi di greggio durante il secondo conflitto mondiale, i quali ricavavano benzina dal carbone. Da notare piuttosto che la ricerca americana ha utilizzato scorte di latte in sovrappiù, destinate ad essere distrutte.
Nell'articolo Perché gli agrocarburanti affameranno il mondo scrivevamo:
"[...] la lotta planetaria che si sta aprendo nel campo degli agrocarburanti non è per la produzione di nuovo plusvalore (quando c'è di mezzo la legge della rendita ciò è escluso) ma per rendere più pervasiva e totalizzante la ripartizione del plusvalore prodotto nel ciclo industriale a favore del paese imperialista più forte."
La teleconferenza di martedì, presenti 16 compagni, è iniziata con alcune considerazioni riguardo la manifestazione del 14 giugno contro la Loi Travail.
Secondo gli organizzatori, a Parigi sono scesi in strada circa 1 milione di persone; nettamente inferiori i numeri diffusi dalle forze dell'ordine che hanno contato tra i 75.000 e gli 80.000 partecipanti. Violenti scontri si sono verificati fin dall'inizio, con la polizia che a più riprese ha cercato di dividere il lungo corteo. Decine i feriti, anche tra le fila dei tutori dell'ordine.
I sindacati francesi stanno cavalcando il malcontento dei lavoratori ma hanno tutto l'interesse a spegnere la lotta e perciò spingono in tale direzione. Potrebbe darsi che l'uccisione dei due poliziotti, a cui si aggiungono gli scontri con gli hooligans arrivati in occasione degli Europei di calcio, favorisca il tentativo di riportare il tutto sul piano della responsabilità nazionale.
Durante la teleconferenza di martedì, presenti 18 compagni, si è discusso di guerra e marasma sociale in corso.
Secondo alcune stime, l'ultimo trimestre economico avrebbe registrato una forte contrazione della crescita a livello europeo. Nonostante la guerra, che storicamente serviva anche a rilanciare l'industria, l'apparato produttivo non trova sfogo. D'altro canto, non si può spremere di più un proletariato... che non lavora. Se è vero che sale il numero dei proletari in Cina e India, è altrettanto vero che in Europa aumenta quello dei senza lavoro. E siccome non si può estrarre da un solo operaio lo stesso plusvalore che si può cavare da 10, i consumi ristagnano e le conseguenze si ripercuotono sulle economie dei "paesi emergenti". Disoccupazione, marasma sociale e guerra: questo è il presente capitalistico.
Dal punto di vista delle dottrine e dei metodi ogni nuova guerra incomincia là dove è finita quella precedente. Dov'è finita la guerra mondiale precedente? Con le partigianerie (Achtung! Banditen, cioè "terroristi"), con la teoria della "guerra limitata", o blitzkrieg, o guerra di movimento (Tukhacevskij, Fuller, Guderian, Liddel Hart) e con le operazioni di commando, cioè terrorismo istituzionalizzato (il bombardamento a tappeto sulle città e l'arma atomica rappresentano l'estremo limite del terrorismo). Nasce il "soldato politico" (teorizzato dalle SS, ma incarnato in tutti gli eserciti della II GM, oggi esportatore di democrazia nella "Guerra infinita").
La teleconferenza di martedì sera, presenti 19 compagni, è iniziata con le ultime notizie sugli attentati di Parigi.
Come dice Papa Francesco, si tratta di una guerra mondiale combattuta a pezzi. Jihadisti, servizi segreti, polizie e dosi massicce di propaganda confondono lo scenario e gettano ombra sulle reali cause della guerra e del marasma sociale in corso. Comunque, non si tratta di semplice terrorismo, questo è il nuovo modo di fare la guerra. Il vuoto di strategia da parte borghese è dovuto al fatto che gli stati non sanno più che pesci pigliare. La lotta al terrorismo di cui si parla dall'11 settembre in poi non ferma gli attentati, li moltiplica. I recenti attacchi a Parigi (messi in atto da cellule jihadiste auto-organizzate) sono una risposta ai bombardamenti dei francesi alle postazioni siriane dello Stato Islamico. A cui la Francia ha a sua volta replicato intensificando le incursioni aeree in Siria, in una spirale senza soluzione di continuità.
Oggi la guerra permea la società, è il suo modo di essere. Non c'è più confine fra le sue varie componenti. La continuità della guerra si esprime non solo nel fatto che essa c'è sempre, ma che tutta la società vi si attrezza, rendendo labilissimo il confine fra "civile" e "militare" (Dall'equilibrio del terrore al terrore dell'equilibrio, n+1 n. 21). Una cosa è certa, non è possibile la guerra asimmetrica: nella logica della guerra (da quella antica a quella moderna) se c'è scontro è perché si è raggiunta una simmetria di qualche tipo.
La teleconferenza di martedì, a cui hanno partecipato 16 compagni, è iniziata prendendo spunto dalle dichiarazioni rilasciate recentemente al Wall Street Journal da Henry Kissinger.
Nell'articolo pubblicato dal quotidiano newyorkese l'ex segretario di Stato invita gli Stati Uniti a darsi una mossa: "devono decidere in che ruolo giocheranno nel XXI secolo. Il Medioriente sarà il test più immediato e forse più difficile. In gioco non c'è la forza dell'America, ma la sua risolutezza a capire e padroneggiare il nuovo mondo". In particolare Kissinger esprime preoccupazione per l'intervento russo in Siria e il piano sul nucleare dell'Iran, operazioni entrambe lesive degli interessi americani nella regione.
Sappiamo che le determinazioni materiali che stanno alla base della politica americana non dipendono affatto da accordi fra trust o dalla volontà del governo, bensì dalla necessità del Capitale di uno sbirro globale, gli USA, che impedisca lo sconvolgimento dell'intero assetto capitalistico mondiale. L'imperialismo non è una "politica" di qualcuno, è il modo di essere del capitalismo raggiunto un certo grado di sviluppo delle forze produttive.
Alla teleconferenza di martedì 7 aprile si sono collegati 16 compagni, da Milano, Roma e Torino. Abbiamo cominciato la riunione parlando della situazione a Yarmouk, il campo profughi palestinesi nella periferia meridionale di Damasco: i rifugiati si trovano sotto il fuoco incrociato delle milizie dello Stato Islamico, dell'esercito siriano e dei gruppi armati palestinesi di Hamas e FPLP-CG. Secondo l'Ansa, elicotteri delle forze governative stanno bombardando pesantemente l'area.
Durante la teleconferenza di martedì sera, a cui si sono connessi 13 compagni, si è discusso principalmente di Medio Oriente e guerra.
L'ondata mondiale di manifestazioni e rivolte del 2011 ha coinvolto anche lo stato dello Yemen. I moti di piazza e l'acuirsi delle contestazioni costringono alle dimissioni, l'anno successivo, l'allora presidente Ali Abdullah Saleh al potere dal 1978. Nuove elezioni pongono a capo del governo il sunnita Abd Rabbih Mansour Hadi, sostenuto dall'Arabia Saudita. Il paese è in piena crisi economica e flagellato da una forte siccità. Il neo-presidente fatica a tenere insieme le varie componenti religiose, politiche e sociali e i contrasti tra le diverse fazioni si fanno sempre più pesanti. Lo scorso gennaio la minoranza sciita degli Houthi, sostenuta da parte dell'esercito e dall'Iran, conquista con un colpo di stato la capitale Sana'a e si impadronisce di tv, aeroporto e centri nevralgici. Dopodiché i ribelli lanciano l'assalto ad Aden, importantissimo hub sul golfo omonimo.
La teleconferenza di martedì sera, a cui hanno partecipato 19 compagni, ha preso le mosse dal commento di un articolo de La Stampa, La globalità del nuovo islamismo. Domenico Quirico, l'autore del pezzo, descrive con queste parole l'elemento che accomuna, secondo la sua esperienza diretta (viene rapito in Siria nel 2013 e tenuto in ostaggio per mesi), i militanti dell'IS:
"[...] ciascuno di loro si sentiva la piccola parte di un tutto, e il tutto era visibilmente una parte di loro. E se fosse questa globalità, psicologica ma anche pratica, operativa, militare, il segreto della loro pestifera potenza, e quello che ci impedisce di capire? Il totalitarismo islamico è, nella sua essenza, senza confini. Li vuole distruggere i confini, le frontiere, le nazioni: un'unica ecumene, quella di Dio. Mentre noi occidentali, laudatori della globalizzazione, in realtà, penosamente, continuiamo a ragionare nei limiti dei vecchi confini nazionali: soprattutto quando sono i nostri."
La riunione online di martedì sera, a cui si sono collegati 15 compagni, si è aperta con le notizie provenienti da Hong Kong.
La città, che a seguito della Guerra dell'Oppio divenne nel 1842 colonia inglese per poi passare nel 1997, con uno statuto amministrativo speciale, sotto il governo della Repubblica Popolare Cinese, deve il soprannome di "città verticale" all'elevatissima densità abitativa. La vertigionosa crescita demografica, per cui è passata dai 7500 abitanti del 1842 ai 7.188.000 del 2013, è dovuta ai flussi migratori delle popolazioni cinesi continentali. Con un'economia prevalentemente basata su turismo, commercio e finanza, l'isola è un noto paradiso fiscale, ma anche l'ottava piazza finanziaria del mondo, sede di ben 107 consolati. Secondo l'indice Gini, la regione registra il più alto tasso di diseguaglianza economica dell'area asiatica.
Le notizie della protesta hongkonghese hanno cominciato a rimbalzare su siti e social network e successivamente su alcuni media mainstream domenica 28 settembre, quando le forze di polizia hanno represso le manifestazioni di piazza, ottenendo peraltro di estenderne la portata. Il movimento, partito dagli studenti e poi allargatosi ad altre fasce della popolazione, si batte per ottenere elezioni libere nel 2017, con candidati non imposti da Pechino.
Durante la teleconferenza di martedì sera, presenti 14 compagni, abbiamo ripreso e sviluppato alcuni dei temi affrontati nelle recenti riunioni pubbliche di Roma e Torino sulla guerra.
La notizia del bombardamento in terra siriana da parte degli Stati Uniti si aggiunge a quelle che, ormai quotidianamente, arrivano dal Medio Oriente, soprattutto dalle fila jihadiste. Mentre i militanti dello Stato Islamico perseguono determinati la realizzazione del loro grande progetto, il Califfato, gli americani riescono finalmente a mettere in piedi una (sgangherata) coalizione anti-IS. Al di là delle dichiarazioni di allenza dei vari paesi, sembra però che l'unico intento condiviso nella coalizione sia quello di lasciare ai curdi la patata bollente dello scontro a terra, pur senza garantire loro la creazione dello Stato curdo. D'altronde, l'imperialismo ha bisogno di partigiani: che si arruolino e combattano in prima linea (visto che non ha soldati a sufficienza da schierare sul campo) o che "da casa" facciano propaganda a favore di un fronte borghese contro l'altro. Che dire quindi del fascino esercitato dalla resistenza curda e dagli altri movimenti guerriglieri sui sinistri nostrani?
La teleconferenza di martedì sera (presenti 8 compagni) è iniziata con alcuni aggiornamenti sulla situazione in Medioriente. I miliziani dell'IS dopo aver conquistato l'importante snodo di Mosul e i pozzi petroliferi dell'area, marciano ora su Kirkuk. Caos politico-militare anche in Libia, dove proseguono da settimane i combattimenti per il controllo dell'aeroporto di Tripoli e le milizie islamiche di Ansar al Sharia hanno preso il controllo completo di Bengasi, dichiarando in città l'istituzione di un "emirato islamico".
Per inquadrare storicamente la materia abbiamo ripreso Le cause storiche del separatismo arabo. In quel testo si affermava che gli arabi, magnifici conquistatori, non sono riusciti a sviluppare e soprattutto consolidare uno Stato nazionale:
"Volendo uscire dal campo delle congetture e restare sul terreno storico, emerge, dallo studio del ciclo storico degli arabi, una conclusione che può sembrare quasi ovvia. Per l'incapacità a fondare uno Stato nazionale, gli arabi divennero da conquistatori conquistati, e furono tagliati fuori dal progresso storico, cioè condannati a restare nel fondo del feudalesimo mentre gli Stati d'Europa si preparavano ad uscirne per sempre e acquistare in tal modo la supremazia mondiale".
Durante la consueta teleconferenza di martedì sera, presenti 12 compagni, abbiamo ripreso uno dei temi sviluppati nell'ultimo incontro redazionale (Crisi di valorizzazione, abisso del debito), in relazione alla notizia del blocco della fornitura idrica nella città di Detroit per migliaia di utenti morosi.
A partire dagli anni '60-'70, in seguito alla diminuzione del numero di salariati produttivi, comincia a manifestarsi negli Stati Uniti e nella maggior parte dei paesi a capitalismo senile la crisi fiscale: il deficit statale diventa irrecuperabile, comincia a salire irrimediabilmente e viene acquisito da grandi fondi d'investimento internazionali. Si rompe definitivamente la relazione tra debito e borghesia nazionale e il bilancio dello Stato viene vincolato al debito ormai spartito mondialmente. Nell'articolo L'autonomizzarsi del Capitale e le sue conseguenze pratiche abbiamo sviluppato estesamente il tema, in questo contesto ci limitiamo a ricordare che il processo in corso fa parte del passaggio dal dominio dello Stato sul Capitale (repubbliche marinare, comuni in Italia, primo capitalismo) al dominio del Capitale sullo Stato. Ne conseguono la fine delle autonomie nazionali, il taglio della spesa pubblica, l'aumento del carico fiscale, la rovina di ampi settori della classe media e un generale impoverimento del proletariato, mentre dal punto di vista politico si operano trasformazioni importanti al fine di applicare le necessarie controtendenze alla caduta del saggio di profitto.
Le misure adottate hanno però l'unico effetto di rimandare i problemi ingigantendoli. Già qualche tempo fa aveva fatto scalpore il fallimento dello stato della California, e oggi le immagini che documentano il dissesto della città di Detroit sono impressionanti. Ma non è una situazione prettamente americana, vicini alla bancarotta ci sono pure i comuni di Napoli, Messina, Alessandria, ecc. La crisi fiscale dello Stato si manifesta a tutti i livelli: nazionale, regionale, comunale. Questo fenomeno provoca caos politico: si frantumano i vecchi schieramenti parlamentari, aumenta la conflittualità tra le lobby, aumenta la corruzione, crescono le istanze localiste, cade il consenso di massa verso gli esecutivi e aumenta la rabbia sociale.
Durante la teleconferenza di martedì sera abbiamo ripreso la discussione su quanto sta accadendo in Ucraina. La vicenda va inquadrata come un aspetto particolare della politiguerra americana, e la rilettura di alcuni passi dell'articolo Dall'equilibrio del terrore al terrore dell'equilibrio (n+1, n° 21) aiuta ad approfondirne alcune caratteristiche.
La diplomazia internazionale, riunitasi a Ginevra nel tentativo di stabilizzare la situazione ucraina, sembra non essere riuscita a porre un freno alle dinamiche venute a galla con gli scontri di piazza Maidan. Qualche giorno fa Putin ha promulgato una legge che facilita il percorso per ottenere la cittadinanza russa per le popolazioni russofone residenti nelle ex repubbliche sovietiche. Milioni di persone potrebbero perciò richiedere il diritto alla protezione da parte di Mosca, e quanto avvenuto in Crimea potrebbe ripetersi nelle aree di influenza russa come Estonia, Moldavia, Georgia, Kazakhstan, ecc. Gli americani, secondo alcune indiscrezioni del New York Times, starebbero elaborando una strategia di contenimento, simile a quella utilizzata nel corso della guerra fredda, per un isolamento politico progressivo della Russia.
La situazione sta mutando rapidamente e assomiglia a quanto successo in Georgia (2008) e soprattutto in Cecenia, dove potentati locali hanno esautorato i russi. I quali hanno reagito radendo al suolo tutto quello che trovavano sul loro cammino e poi, visto che l'occupazione in pianta stabile del territorio non funzionava, hanno affidato l'amministrazione del paese a signori della guerra locali.
Sembra che in Ucraina si prospetti una situazione di questo tipo, con la differenza che il territorio in questione è un importante snodo geo-strategico tra Europa e Russia; e con l'aggravante che sia gli americani che i russi si stanno lasciando trascinare in una pericolosa escalation piuttosto che governare dall'esterno il conflitto. Inoltre, forze interne ucraine potrebbero autonomizzarsi da entrambi gli schieramenti aumentando ancor più il caos nella regione.
Il 21 gennaio alcuni compagni hanno assistito a Torino alla presentazione di Il sangue di tutti noi, il libro di Giorgio Bona sulla vicenda di Mario Acquaviva. Il testo è un docu-romanzo su uno degli assassinii politici perpetrati dagli stalinisti contro le correnti che avevano rifiutato la "bolscevizzazione" dell'Internazionale, e cioè la politica del Fronte unico con forze borghesi, l'organizzazione per cellule di fabbrica invece che per sezioni territoriali e in generale la spregiudicatezza tattica con le relative oscillazioni delle "parole d'ordine". Curioso il video pubblicato su Repubblica, fino a poco tempo fa inconcepibile data la sistematica, pluridecennale opera di cancellazione dalla storia ufficiale di ogni riferimento alla Sinistra Comunista, che pure aveva la grandissima maggioranza degli iscritti entro il PCd'I.
La teleconferenza di martedì sera, a cui hanno partecipato 10 compagni, è iniziata dall'analisi del movimento Occupy in relazione ad esperimenti analoghi che stanno prendendo piede sul territorio americano. Se il movimento non riesce a criticare se stesso per andare oltre, è destinato a spegnersi. L'incapacità di formare un partito in sintonia con il futuro è una tragedia sia per gli anticapitalisti americani che per quelli degli altri paesi. Allo stesso tempo però, da altri luoghi della società arrivano segnali degni d'interesse. I sostenitori del Venus Project hanno aggiornato il loro sito, conservando la stessa documentazione e cominciando un dialogo con OWS. Questi esploratori nel domani vanno avanti per la loro strada, credono che un altro mondo sia possibile e hanno messo in piedi due società parallele, una no profit per la diffusione del progetto e una profit dalla quale ricavano dei salari di sussistenza per poter vivere e finanziare la propaganda.
Devo dire che la vostra riunione sulla guerra irachena come "capitolo di una guerra generale" mi ha lasciato un po' perplesso. Se ho capito bene, questa guerra universale "deve" essere condotta dagli Stati Uniti contro chiunque non si assoggetti alla loro visione del mondo, che cioè tenda a diventare un concorrente anche sul piano militare. Alla maggior parte degli altri paesi imperialistici converrebbe sottostare a questo predominio pur di salvaguardare la continuità del capitalismo, che avrebbe negli USA l'unica forza planetaria in grado di mantenere l'ordine. Vedo che qualcuno vi ha già accusati di teorizzare una sorta di superimperialismo. Da parte mia lo so bene che la forza economica, finanziaria e militare degli USA è davvero "super" per un semplice fatto materiale e non alla Kautsky, ma chiedo ugualmente: non è esagerato credere che gli USA abbiano davvero la facoltà di imporre il proprio dominio mondiale attraverso una guerra continua generalizzata, per cui ogni pretesto sarebbe buono allo scopo di aprire nuovi capitoli, utili a perpetuare l'imperialismo? Per scatenare la guerra irachena si sono imbastiti pretesti ridicoli senza riguardo alle remore di altri paesi, e bisogna riconoscere che l'avevate detto già al tempo della guerra afghana.
La guerra è un grosso problema e capire quella d'oggi non è facile. È vero, come dite, che si deve cercar di capire non solo le manifestazioni guerresche ma soprattutto il travaglio economico sociale e politico del capitalismo per cercare di scorgerne in anticipo le tendenze generali. Solo in esse si possono individuare le future strade della ripresa dei fermenti sociali e dei moti classisti. È un compito arduo, che ha impegnato la nostra corrente, la quale però all'incirca verso la meta' degli anni sessanta si era fermata. Purtroppo non si possono trovare delle risposte pre-confezionate semplicemente rileggendo quanto in proposito ha scritto fino a quella data. E mi sembra effettivamente fuori dalla realtà il ripetere, come fa qualcuno, formulette tipo "guerra alla guerra", o "trasformazione della guerra imperialista in guerra civile", o "Fuori l'Italia dalla NATO" (o "Fuori la Nato dall'Italia"), che di per sé non significano nulla. Lo sforzo che va fatto è quello per giungere a una sintesi teoria-prassi, cogliendo le particolarità delle trasformazioni del mondo capitalistico almeno in questi ultimi trent'anni. Quello pubblicato sulla rivista n. 11, dedicata alla "politiguerra americana", mi sembra un buon passo, anche se ho difficoltà a immaginare un'azione conseguente.
È vero che Marx ed Engels dissero di Bismarck che sarebbe stato costretto a lavorare per il comunismo ed è vero che auspicavano la vittoria turco-inglese contro la Russia reazionaria. Ma oggi affermare [come fate voi] la stessa cosa a proposito degli Stati Uniti contro i residui di società antiche mi sembra un po' esagerato, persino fuori luogo.
L'Afganistan, murato nel suo isolamento, rappresenta di sicuro una forma sociale sopravvissuta al passato, ma non è l'antagonista "naturale" degli Usa che sono sicuramente più vicini al socialismo economico di qualsiasi altro paese. È un paese-pretesto per un'aggressione a livello mondiale. Anche l'Arabia Saudita è un baluardo della conservazione, ma è un paese alleato degli USA, mentre l'Iraq, paese laico e moderno è stato invaso e riportato ad uno stadio precedente all'epoca di Saddam Hussein. Anche l'Iran è un paese politicamente soffocato da un regime reazionario e antico, ma oggettivamente la sua struttura industriale moderna non corrisponde alla sovrastruttura oscurantista medioevaleggiante. In tutti questi casi mi sembra non si possa sostenere che gli americani "lavorano per noi" loro malgrado.
Mi sembra che nei vostri scritti vi sia una specie di equidistanza fra israeliani e palestinesi, come se non fossero stati gli invasori ebraici ad opprimere il popolo palestinese, distruggere le loro case, prendere le loro terre, deviare l'acqua dai loro campi, ecc. Capisco che si tratta di guerra fra due nazioni borghesi e che le popolazioni si dovrebbero coalizzare contro i propri governi per una nazione unica, laica e multietnica, ma intanto c'è una differenza oggettiva fra la condizione di un israeliano ebreo e uno arabo e fra entrambi e un palestinese di Gaza o della West Bank. Capisco anche che ogni borghesia abbia bisogno di inventarsi un suo risorgimento con martiri ecc., pratica molto lontana da una razionale e materialista visione della storia, ma lo sfruttamento del massacro da parte dei nazisti è andato oltre il limite nel momento in cui i massacrati hanno incominciato a massacrare.
GENOVA G8, LUGLIO 2001
Pubblichiamo una selezione di lettere e materiali altrui sui fatti di Genova, ricevuti o segnalati dai nostri lettori. La nostra valutazione è in un'altra pagina.
1) Predicare in un modo e razzolare in un altro
[...] Respingiamo una rappresentazione astratta e mitologica della "globalizzazione". La globalizzazione che noi combattiamo non è né la dimensione mondiale dell'economia né un'entità "metafisica". E' il capitalismo internazionale entro il processo storico della ricomposizione capitalistica dell'unità del mondo dispiegatasi dopo l'89. Imperialismo non è termine ideologico o invecchiato. E' il dominio del capitale sulla società internazionale che oggi ripropone in forme nuove i suoi tratti storici (parassitismo finanziario, concentrazioni monopolistiche, saccheggio dei Paesi poveri, militarismo) ma anche le sue contraddizioni insolubili: prima fra queste la lotta tra le grandi potenze per la spartizione del pianeta, ripresa su larga scala dopo il crollo dell'URSS e dello stalinismo. Il movimento deve riconoscere con chiarezza nell'imperialismo il proprio avversario e ciò significa assumere come avversario ogni potenza imperialistica: non solo l'imperialismo americano ma anche l'imperialismo europeo, le sue multinazionali, le sue banche, i suoi governi, siano essi di centrodestra, di centrosinistra, o socialdemocratici.
Venendo alle questioni irrisolte, in particolare alla Palestina, dobbiamo domandarci: nell'attuale fase storica lo Stato-nazione ha ancora prospettive? Di fronte all'internazionalizzazione del capitale (volgarmente chiamata globalizzazione) lo Stato-nazione rappresenta una stridente contraddizione.
Per difendere i loro interessi di classe, i proletari palestinesi rivendicano giustamente gli spazi democratici, che gli consentono di riunirsi, di parlare, di scrivere, ossia le condizioni minime per svolgere attività politica. Su questo terreno, si trovano a dover marciare con i nazionalisti, che però li costringono ad assumere connotazioni sempre più religiose. Questa deriva islamista è stata resa possibile dal momento che i rapporti con il fronte della sinistra ebraica dello Stato d'Israele sono stati assolutamente trascurabili. Viene allora da chiedersi come mai i discendenti della nobile tradizione social-progressista, che fu alla base della nascita dello Stato d'Israele, siano oggi così deboli.
Fino a che data è possibile parlare di lotte di liberazione nazionale con funzione progressiva? Per quale motivo? È rivoluzionaria la formazione dello Stato nazionale, con relativa borghesia e soprattutto proletariato, mentre oggi vi è quasi ovunque lotta fra borghesie già affermate storicamente. Ma può l’elemento economico essere l’unica discriminante per il sostegno delle lotte nazionali da parte dei comunisti? Il proletariato viene comunque coinvolto all’interno della guerra e combatte per degli interessi che crede suoi ma non lo sono: combatte ad esempio in Iraq per la propria borghesia nonostante l’odio che prova per l’invasore americano, motivato da ragioni etiche, di dignità. Nello stesso tempo, però, combatte contro lo Stato imperialista più forte del mondo e qui mi domando se comunque, nonostante appunto combatta all’interno di una nazione già formata per la salvaguardia della stessa, non sia comunque positivo per il semplice fatto che la sconfitta militare degli USA è auspicabile, sempre e comunque, per lo squilibrio che questo causerebbe.
[…] Ho l'impressione che qualcosa non funzioni nello scenario che dipingete per il futuro del mondo. Dite che contro gli USA non vi è potenza equivalente. Essi sarebbero in grado di effettuare un controllo totale con strumenti militari tecnologici, di cui hanno il monopolio, di stravolgere la concezione e la pratica della guerra. Avete citato il Giappone come governo fantoccio diretto da Washington. Avete detto che Russia e Cina potrebbero essere oggetto di "compellenza" ed essere ridotte al livello dell'Africa. Mi pare che, se io ho capito bene le vostre affermazioni, voi commettiate peccato di eccessiva visione politica a scapito delle effettive determinazioni. Lo strapotere Usa è evidente. Ma parlare di Giappone, Russia e Cina – paesi che coprono due continenti con miliardi di abitanti – penso raccomandi più prudenza per quanto riguarda i loro futuri rapporti con l'America.
Un compagno mi chiedeva se certe forze interne della borghesia americana, come il PNAC (Project for a New American Century), potessero essere la base per un cambiamento di rotta della politica americana. Se cioè si stesse per caso passando dalla dottrina delle alleanze con chiunque convenga, a quella delle alleanze con "chi la pensa come noi", alla Huntington. Ho risposto con un no secco: un Bush è talmente utile che sarebbe saltato fuori comunque, magari dopo la vittoria di Al Gore, che qui si dice sia stata quella autentica.
Un cambiamento di rotta e l'avvio di una politica meno ottusa potrà esservi in futuro, ma adesso l'America deve passare attraverso questa fase. Sulla scena politica americana del terzo millennio l'intreccio di forze favorevoli al capitale privato più che al Capitale in generale era talmente forte che con la crisi delle elezioni in Florida hanno visto un opportunità da cogliere al volo. Quando dico "capitale privato" non voglio ripetere le sciocchezze sui fatti personali dei petrolieri, ma mi riferisco all'intera corporate elite, una classe capitalista avida, strafottente e sicura del proprio potere di controllo, una burocrazia militaristica gonfia di dollari e forte di vasto appoggio sociale, non solo elettorale. Una vera e propria ideologia dominate parallela, irrazionale, basata sul peggior fondamentalismo religioso ed economico. Tutto questo di fronte a un political establishment – il Congresso americano e la Casa Bianca – in completo collasso. È il Sistema che ha problemi di autocontrollo, ma è ovvio che, trattandosi dell'America, questo ha effetti sul mondo intero.
[…] Voi che avete conosciuto Bordiga, o che comunque conoscete bene i suoi scritti e le sue potenti elaborazioni sui fatti, cosa direbbe del grande movimento di massa mondiale che qui [negli Stati Uniti, N.d.R.] e nel mondo si è opposto alla guerra con più di cento milioni di persone in piazza? Per di più organizzandosi a rete, via Internet, in contrasto con i miti dell'anti-globalizzazione? Perché il peace movement negli USA, anche al tempo del Vietnam, è un corpo senza testa, mentre in Italia e in Europa la Sinistra Comunista è una testa senza corpo? Nessuno, né i vecchi compagni, né i gruppi bordighisti, né "n+1", mi ha dato una convincente spiegazione di questo fatto, quindi vi ripeto la domanda […].
Mi fa piacere riscontrare sulla rivista cose che ho scritto anch'io in un articolo che qui [negli Stati Uniti, N.d.R.] ovviamente non hanno pubblicato. L'esecutivo di Bush ha perso la testa, mentre la borghesia americana avrebbe bisogno di decisioni razionali e rapide. Sembra che tutto stia scivolando verso classiche soluzioni di tipo militare. Gli Stati Uniti potrebbero fare la guerra con l'economia invece che con le bombe, per adesso. Certe cose che scrivete le condivido pienamente. Anch'io sono convinto che siamo arrivati a un punto molto pericoloso per tutto l'umanità. Questa irrationality sta montando da più di mezzo secolo. Forse siamo al punto in cui il sistema non può fare altro che suicidarsi. Vi pongo tre domande dopo aver letto i vostri articoli sull'Argentina:
"Sono stato colpito da una vostra affermazione: in una vostra newsletter e nell'ultima riunione pubblica a Torino avete detto che l'attentato a Washington e New York rappresenta il solo tipo di guerra possibile oggi contro gli Stati Uniti. Sono d'accordo con voi sul fatto che non si tratta di un attentato alla Sante Caserio ma di un gesto che richiede preparazione, competenza, capacità esecutiva, vasta struttura operativa, organizzazione moderna ed efficiente. È certo giusto inquadrare queste "pulsioni dei rapporti materiali" nel complesso della crisi e dei rapporti intraborghesi anche per la destinazione della rendita petrolifera. Ma non riesco a capire in che modo questi attentati e la susseguente reazione "antiterroristica" rappresentino la forma unica della guerra attuale, sia pure contro un paese imperialistico ultrapotente. Chi ci impedisce di ipotizzare che, nell'acuirsi delle contraddizioni del modo di produzione dominante, non si aprano delle crepe nella coalizione superimperialistica apparentemente compatta, per ricostruire dei contrasti "classici" fra gruppi di stati in concorrenza fra loro per il dominio capitalistico?
"In che misura è utilizzabile il libro di Hilferding sul capitale finanziario? Sono attuali le critiche di Lenin? Lo studio sulla moneta che avete pubblicato è utile per conoscere l'entità del peso determinante che essa ha sul mantenimento artificiale del modo di produzione capitalistico: vorrei cogliere, con qualche esempio concreto, la 'deregolamentazione' che la moneta opera in un sistema pianificato dalle multinazionali e monopoli vari. Perché il mio schema è questo: modo di produzione capitalistico; modo di produzione socialistico che nasce al suo interno attraverso l'economia monopolistica e ago della bilancia costituito dagli organi che detengono il potere monetario: il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e l'Organizzazione Mondiale per il Commercio. Questo schema copia pedissequamente quello riferito alla situazione antecedente la rivoluzione francese: l'ago della bilancia essendo costituito dal potere assoluto della monarchia. Ecco, vorrei capire dal punto di vista economico che cosa fa precipitare simultaneamente nel caos e nella paralisi la marcia progressiva alla pianificazione. Volevo provarci addentrandomi nella polemica Luxemburg-Bucharin, ma le questioni andrebbero trattate in modo del tutto matematico e non con ragionamenti e opinioni".
"Ho letto con interesse i lunghi articoli sulla guerra planetaria degli Stati Uniti. Essi aprono uno scenario 'suggestivo', ricco di implicazioni. Tuttavia ritengo che gli articoli siano il corollario di una tesi che, nell'ambito della trattazione, viene solo sporadicamente accennata, ossia la definizione dell'attuale crisi, giudicata 'suprema'. È un'affermazione forte, anzi fortissima! Per sostenerla vi basate (e sono d'accordo) sulla caduta tendenziale del saggio di profitto, un concetto che ultimamente è diventato come l'Araba fenice: tutti ne parlano ma nessuno l'ha vista. Per quanto mi risulta, gli ultimi studi seri risalgono a Grossmann, Mattick e Bordiga, poi il gossip, o peggio. Quindi, vi domando se avete svolto, o perlomeno abbozzato, una ricerca, anche empirica, che descriva l'andamento dell'attuale ciclo del processo di accumulazione, dagli anni '80 in poi, quando furono attuate significative ristrutturazioni (devalorizzazioni) industriali, dopo la crisi degli anni '70 (anche su questa crisi erano state fatte 'scommesse' rivoluzionarie!).
[…] La questione principale è che con la maturità del capitalismo non scompaiono i problemi ereditati dalle vecchie società, ma essi possono essere risolti solo dalla rivoluzione proletaria che in certi casi si assume compiti non prettamente suoi. Questo è già risolto chiaramente in Lenin (Due tattiche). Ricordo che anni fa si dovette lottare contro la concezione "coloniale" dello Stato di Israele (definito nazione "piednoirEppure, ancora alla fine degli anni '70, al tempo delle discussioni sul "tipo" di rivoluzione in aree diversissime e arretrate, a proposito dell'America Latina si riuscì a troncare di netto con le teorie bastarde come la "rivoluzione agraria e anti-imperialista" e ad assimilare tutto il sub-continente americano alle aree di capitalismo sviluppato, indipendentemente dalla situazione miserabile di pur numerose masse contadine e urbane direttamente coinvolte nella soggezione all'imperialismo nordamericano. Poi quelli del "partito compatto e potente" se ne sono andati a catafascio trangugiando senza battere ciglio le note posizioni movimentiste e terzomondiste che sappiamo […].
Editoriale: I limiti dell'… inviluppo / Articoli: Il gemello digitale - L'intelligenza al tempo dei Big Data - Donald Trump e il governo del mondo / Rassegna: Il grande malato d'Europa - Il vertice di Kazan - Difendono l'economia, preparano la guerra / Recensione: Ciò che sembrava un mezzo è diventato lo scopo / Doppia direzione: Il lavoro da svolgere oggi - Modo di produzione asiatico? - Un rinnovato interesse per la storia della Sinistra Comunista - Isolazionismo americano post-elettorale?
Libertà
Viviamo in una società che scoppia. I suoi membri, divisi o raggruppati secondo criteri il più delle volte arbitrari e casuali, non riescono più a darsi un'identità plausibile. La pandemia, invece di compattare gli individui intorno a provvedimenti utili alla salvaguardia della specie, ha aggravato la situazione facendo emergere ataviche tendenze all'irrazionale.
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